| Cordelia | luglio-agosto 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di luglio-agosto 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#ROMA

OPEN! Revolution (Compagnia Raizes)

Cosa si può fare (o no) attraverso il teatro? Data la sua aderenza al momento in cui si manifesta, il teatro è il veicolo più intimamente legato alla trasformazione umana e sociale del mondo contemporaneo; ecco dunque come più di tutte le arti permette di stare nel proprio tempo, interpretarne sviluppi effettivi o possibili. C’è però una diramazione che occorre tracciare: più facilmente è attraverso i contenuti che si compie l’indagine, mentre più di rado è la forma, la struttura del teatro che raccoglie tale sfida. Lo fa la compagnia Raizes Teatro di Alessandro Ienzi, attraverso il progetto Open! Revolution, sulla scena di India Città Aperta a Roma. C’è un’intenzione chiara nel raccogliere insieme giovani performers provenienti da diverse parti del mondo, ognuno rappresentante di diverse comunità con minori possibilità o che sperimentano esclusione sociale o emarginazione; poi, oltre l’intenzione, c’è appunto il teatro. Open! Revolution è una creazione di Yong Di Wang, performer e percussionista italiano cieco di 19 anni, originario della Cina, e Amadou Diouf, performer sordo arrivato in Italia dal Senegal attraverso il deserto e il mare a 17 anni: sulla scena le ferite dell’esperienza si trasformano, per loro e gli altri performers, in monologhi espressi in lingua dei segni che diventano coreografie del dolore, sfilate con cartelli che richiamano il viaggio migrante, violenza, diritti negati, statistiche atroci, slogan ribelli; quando giunge poi la parola è volutamente una babele di lingue che faticosamente cercano una comune koiné, un linguaggio nato dall’incomprensione che si sforzi di diventare l’opposto. Se l’intenzione è dunque nobile e via maestra all’uso delle arti sceniche, lo svolgimento ha delle – forse ovvie – ingenuità strutturali, il movimento è talvolta confuso e non sempre funzionale all’immagine prodotta, le parole dette o scritte, certe visioni, la musica che guida l’azione, hanno qualcosa di scolastico che vira alla didascalia. Volano, infine, coriandoli dai sacchi di immondizia, coprono il palco di colori diversi, una pioggia speranzosa, dopo il buio, resta sulla scena. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Crediti: di Yong Di Wang e Amadou Diouf; con Yong Di Wang, Aliya Azizi, Sherif Sonko, Camilo Ramirez Reyes, Daniel Ramirez Reyes; Coordinamento Paola Capuano; regia Alessandro Ienzi; Raizes Teatro.

#BASSANO

APPUNTI PER IL SOLE (di Daniele Albanese)

Prima ha messo alla prova i fusibili della Chiesa di San Giovanni (quella con la monumentale facciata neo-palladiana che versa su Piazza Libertà, a Bassano, e libera mille visioni di santi tutti bianchi) dove ha performato, facendo accendere e spegnere dagli stessi performer le luci a più riprese dell’intero edificio, come per non scendere mai a patti con la luce. Poi ha messo alla prova i due corpi degli interpreti, bravissimi pur diversissimi, con un lavoro di forte intensità e presenza ma quasi sempre sur place, in una stasi febbrile e inquieta, come per mettere a nudo la stabilità, forse il bisogno di sicurezza che tanto conforta chi guarda. E per di più in una tenuta asimmetria gestica dei due danzatori, Fabio Pronestì e Diego Spiga, in modo che non fosse mai possibile assimilarli né metterli in relazione così, solo per mera evidenza. Il responsabile di quanto descritto è il coreografo Daniele Albanese che a Operaestate ha portato questi primi suoi Appunti sul sole. Mica all’aperto, magari in pieno giorno, in un atto performativo ecocritico: macché. A contrasto, invece, in questa bellissima chiesa, che sullo sfondo dell’altare centrale, un poco nascosta, ha pure una pietà (forse lignea) tutta nera. Il sole, allora, è un concetto più sottile, va inseguito nell’interiore: è rincorso qui dentro, in questi corpi e in questa danza, come se fosse qualcosa scomparso, che è andato a nascondersi (come la pietà nera). Ma che si può ritrovare nel momento del suo ritorno: la temporalità qui è infatti circolare, mentre il movimento è dato per intensità, per concentrazione e frequenza, perfettamente conforme e sintonico con le intense vibrazioni sonore di Simon Balestrazzi. Una danza fatta di danza nello spazio e nel tempo dell’ascolto, anche danza aleatoria per sfuggire alle attese più consolidate e ai luoghi comuni più resistenti (e verrebbe da dire: finalmente! dopo tutte le spacconate sceniche, le debolezze dei vocabolari, la pochezza dei princìpi compositivi che abbiamo digerito fin qui, in questa difficile estate...). (Stefano Tomassini)

Visto alla Chiesa di San Giovanni con: Fabio Pronestì, Diego Spiga Coreografia: Daniele Albanese Musica: Simon Balestrazzi Produzione: Fuorimargine – Centro di Produzione di Danza e Arti Performative della Sardegna Coproduzione: Insulae Lab, L’Altra Associazione Con il sostegno di: Europa Teatri

LANDLESS (ideazione e coreografia di Christos Papadopoulos)

Landless di Christos Papadopoulos è un intenso assolo nel corpo di Georgios Kotsifakis. È diviso in due parti assai dissimili: nella prima, il performer a terra ci osserva con sguardo obliquo poi riceve nel corpo i colpi a ripetizione di una traccia ritmica; il micro-movimento è tutto un procedere a scatti, in una lenta cadenza motoria senza quasi variazioni; dal suolo in piedi nella distesa di una incomponibile frammentazione. Nella seconda il performer manipola una luce che lo tiene sempre in controluce (e ti aspetti che parta, da un momento all’altro, Heroes di Bowie), tutto sempre in una calcolata e ostentata semplicità. Al debutto, questo assolo ha ricevuto immediati consensi: da qui l’attesa. L’ho visto in prima italiana al Festival Operaestate di Bassano, e penso sia lavoro regressivo e generativo insieme. Regressivo perché retrocede la performance a un atto di (alto e apprezzabilissimo) virtuosismo comunque fine a se stesso, per di più dominato nel sincrono da una musica elettronica esausta, essenzialmente ritmica e molto didattica, elementare, presto fastidiosa (responsabile Jeph Vanger). Generativo perché è performance tutta consegnata alle doti dello straordinario interprete, che qui viene portato al limite leggibile del suo sforzo, ed è impossibile non solidarizzare con questo corpo mitragliato dai colpi di una monotonica drum-machine. È un corpo che resta sempre in gioco in questo (involuto) massacro che in fondo, soprattutto ai nostri occhi, lo esalta. Poi tanto buio e tanto fumo per intensificare l’invisibile di una presenza in realtà trasparentissima, e per questo godibilissima. Di certo è lavoro a bassa, bassissima densità coreografica: ha una sola idea di movimento e la porta nel corpo del solista per l’intero tempo della sua performance, senza alcuna trasformazione sviluppo o drammaturgia oltre la sola resistenza dell’interprete. È lavoro figlio di questi tempi, senza dunque vocabolario, senza complessità, incapace di immaginazione e di mondo oltre la soglia della prestazione. Per dovere di cronaca volentieri segnalo che a Bassano il lavoro ha riscosso un vero e pressoché unanime consenso da parte di un pubblico folto e plaudente. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Remondini, Operaestate Festival, ideazione e coreografia Christos Papadopoulos, Georgios Kotsifakis danzatore Georgios Kotsifakis musica Jeph Vanger luci Eliza Alexandropoulou produzione LAC Lugano Arte e Cultura

#ALBENGA - Terreni Creativi

MALINCÒMIO (di Piergiuseppe Di Tanno)

Nell’ambiguità di uno spazio reso volutamente scarnificato ed essenziale, mani guantate di un livido velluto purpureo accompagnano con la loro gestualità sinuosa il dispiegarsi dell’intreccio di parole strettamente avvinghiate che scivolano via dalle labbra di Piergiuseppe Di Tanno, avvoltolate su di sé come cavi indisciplinati. A volte liquide, schioccanti, vibranti, altre affaticate, trascinate, spezzate, le parole compongono versi che aleggiano nell’aria e prendono forma e concretezza, come formule magiche che potrebbero far apparire oggetti dal nulla, materializzandoli dalle pieghe sottili dell’aria. E come un prestigiatore, un mago dalla lingua sottile e gli occhi viperini, Piergiuseppe ammalia gli ascoltatori tra fruscii e schiocchi, tra carezze e schiaffi. La delicatezza di alcune immagini contrasta con la carnalità insita in altre, evidente e pulsante. La declamazione poetica è affiancata dalla proiezione di immagini sullo schermo, senza un’apparente connessione tra le due componenti: le parole scorrono veloci, torrente in piena senza argini e fondale, rispetto alla reiterazione lenta e sistematica degli stessi frammenti audiovisivi sullo schermo. Più che essere accompagnata dalla proiezione, la poesia prevale su di essa con il suo ritmo anapestico e strozzato, in corsa, un fluire denso che si snoda come le anse di un fiume, nel fare battaglia alla sequela di immagini che non sembra stare al passo con la velocità impazzita che la anima da dentro e si riduce al solo suono, oltre il senso delle singole affermazioni. Piergiuseppe regala allo spettatore la possibilità di prendere posto e godere della purezza abbacinante della parola sviscerata e del suo potenziale evocativo, ma al tempo stesso di perdersi tra le sillabe, di farsi cullare dalla litania dell’incastro verbale, senza per questo fruire in maniera ridotta dell’opera. “Bisogna amarmi”, dice Di Tanno, verso la fine, e quell’imperativo, come balsamo su una ferita, ci culla fino in fondo, fino all’ultima sillaba. (Letizia Chiarlone)

Foto Luca Del Pia

SARAJEVO – LA STRAGE DELL’UOMO TRANQUILLO (di Gennaro Lauro)

Un uomo (Gennaro Lauro) alto e magro, vestito di tutto punto, al centro di un palco spoglio. Immobile, fisso, non un alito di vento lo smuove, non un singolo suono viene emesso. La testa è rovesciata all’indietro per permettergli di guardare verso l’alto, in direzione del soffitto, o forse di un cielo che solo lui riesce a scrutare, oltre il limite fisico imposto dalla parete. Con estrema lentezza, si accascia su sé stesso, raggomitolandosi, occupando meno della metà dello spazio che sfruttava poco prima, quasi volesse annullarsi. Ma di fronte a cosa? A quel peso che sembra portare, fardello immenso, sulle sue spalle? Le sue braccia si allargano, ampie, equidistanti, imitando l’apertura alare di un uccello in volo, mentre i muscoli della schiena assecondano il movimento come se stessero domando delle correnti d’aria. Ma non è un volatile, almeno, così ci è dato intuire dalla traccia sonora sottostante, che si insinua nel silenzio tombale che aveva regnato fino a quel momento: è un aereo, carico di bombe. Il fragore successivo segnala l’esplosione, con un ritmo sempre più incalzante e trascinante, al punto che anche l’uomo, che si tappa le orecchie per non sentire, ne viene coinvolto e non può fare a meno che arrendersi, prima osservatore inerme del bombardamento e ora vittima nella carneficina. È prostrato di fronte alla violenza, piagnucola “You’re breaking my heart”, per poi mettere una mano di fronte agli occhi, con l’intenzione di non vedere cosa stiano portando di così minaccioso nel panorama sonoro quelle note percussive accompagnate da acuti tintinnii. La mano rimasta libera, infine, scivola sopra la bocca: non vuole vedere, non desidera parlare. Gli orrori della guerra rendono sordi, ciechi, muti. È con enorme sforzo che gli riesce di pronunciare le ultime parole, “Do not envy the violent man”. Non invidiamo l’uomo violento che mette a repentaglio la tranquillità di chi è contrario al conflitto, del civile che è vittima di ogni strage. Non invidiamo l’uomo violento e il sangue sulle sue mani che, un giorno, potrebbe essere il nostro. (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi idea e creazione Gennaro Lauro assistenza Elisabetta Lauro disegno luci Gaetano Corriere, Gennaro Lauro co-produzione Sosta Palmizi, Compagnie Meta sostenuto da Impasse/Cie Greffe, Dansomètre, Lo Studio, Ménagerie de Verre, L’Echangeur Hauts-de-France, CND, RAMDAM un centre d’art. Finalista del Premio Equilibrio 2018. Selezionato per la Vetrina della giovane danza d’autore - Azione del Network Anticorpi XL. Selezionato per i “40 Winks” di Aerowaves 2019 e per la Grande Scène 2023. Foto Luca Del Pia

DEDICATO – APPUNTI DI QUESTI GIORNI (di F. Alberici/ E. Nasuto)

Tra i fili argentati di un caschetto posticcio e plasticoso che non aspira ad essere una chioma verosimile, sbuca il volto di Ermelinda Nasuto, che si muove sulle note di Instant Crush dei Daft Punk mentre parla del carcinoma al seno che le è stato diagnosticato l’anno scorso, poco prima del suo quarantesimo compleanno. Sfruttando il momento liminale in cui le luci si stanno spegnendo e lo spettacolo sta cominciando come metafora, Ermelinda descrive così lo sdoppiamento che ha sperimentato nel momento in cui le è stata rivelata la diagnosi, tra la buona salute apparente di cui godeva prima di quelle fatidiche parole e la consapevolezza di essere affetta da una malattia. Da lì, l’inizio di una presa di coscienza che l’ha portata a condurre uno stile di vita salutista e a unirsi a gruppi di supporto, fino alla decisione di fare della sua esperienza uno spettacolo, manifestando il desiderio di essere accompagnata da un’attrice più in là con gli anni. Questo spiega la presenza di Olga Durano sul palcoscenico, che in seguito a un incontro con Ermelinda ha accettato di prendere parte al progetto. Un ritorno al teatro, dunque, lo stesso che lei aveva ritenuto responsabile della sua malattia, al fianco di Olga che, come una finestra sul futuro, vuole essere memento e speranza. In quella che è dichiaratamente una prima tappa di un lavoro che dovrebbe vedere il debutto sulle scene nel gennaio del 2026, l’obiettivo conclamato attraverso il racconto è condurre lo spettatore in una “passeggiata dolce” che gli permetta di riconoscere la bellezza della vita. Su note elettroniche, Ermelinda tesse le lodi ai farmaci, agli aghi, agli ospedali. Ogni visita è programmata nel minimo dettaglio, così come lo sono le cure. Non c’è evento della nostra vita che non presenti una calendarizzazione specifica. Eppure, restiamo in balia di una volontà a noi estranea, che può scombinare le carte in tavola in qualsiasi momento. “Tutto è pianificato” dunque, ma Ermelinda aggiunge astutamente, “se Dio vuole”. Già, se Dio vuole. (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi testo di Francesco Alberici, Ermelinda Nasuto con Olga Durano, Ermelinda Nasuto regia F. Alberici dramaturg Nicola Borghesi, Enrico Baraldi (Kepler 452) disegno luci Enrico Baraldi produzione La Corte Ospitale, Associazione Gli Scarti, Cranpi. Foto Luca Del Pia

FALLEN ANGELS (di Michael Incarbone)

Dense volute di fumo avvolgono il corpo di Erica Bravini, che emerge in contrasto chiaroscurale rispetto allo sfondo nero. C’è solo una fonte di illuminazione sul palcoscenico, un faretto appeso che proietta un cono di luce violaceo sul tappeto, disegnando un cerchio circoscritto. La danzatrice entra in contatto con quel cerchio, una sorta di occhio che scruta e con il quale sembra intrecciare un rapporto contrastato: ai momenti in cui la performer si lascia illuminare a pieno dalla luce che si riverbera sugli strass della sua maglietta se ne affiancano altri in cui si muove sul bordo, al confine periferico di quello sguardo dall’alto. L’angelo caduto non è più in grazia presso Dio, il cui occhio comincia a farsi distante, giudicante, nei confronti di quel figlio che non può far meno che vorticare rovinosamente intorno a un centro che ha perso il senso di esistere. L’andamento ondivago della performer si incastona sulle note della composizione di Edoardo Maria Bellucci, instaurandosi su una musicalità fortemente ispirata dalla trap. La percezione è che l’opera sia separata in tre parti, ognuna articolata secondo la costruzione sapiente di un climax, di cui la terza sezione presenta uno stacco netto rispetto alle prime due. La musica si fa più frenetica, mentre Bravini articola la sua danza in passi di breakdance che si susseguono rapidamente uno dietro l’altro. L’articolazione sincopata delle luci, curata da Michael Incarbone, crea una partitura elaborata che immortala la performer in scatti di istantanee, diapositive che si susseguono imprimendo il movimento in un’apparente fissità. Il flusso della coreografia viene così scarnificato al dettaglio, nella singola componente. Le luci si spengono, gli applausi cominciano a fioccare, e così le invettive. Incarbone denuncia le ripercussioni sul mondo dello spettacolo del decreto FNSV. Come l’angelo caduto dalla grazia divina si ribella all’ingiustizia, così performer e autori si preparano a lottare per assicurarsi un sostegno. Ci si augura solo che, levando alta la voce, le preghiere vengano ascoltate. (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi regia, coreografia e luci Michael Incarbone performance e collaborazione alla drammaturgia Erica Bravini musiche originali Edoardo Maria Bellucci live set Gabriele Corti produzione PinDoc co produzione ALDES, Teatri di Vetro/Triangolo Scaleno con il contributo di MIC e Regione Siciliana con il sostegno di Giacimenti-rete nazionale per l’emersione dei giovani talenti - Da.re. Dance Research, Kinkaleri - Spazio K, Diacronie Lab. Foto Luca Del Pia

PIGIAMI PARTY (di Collettivo Badalam B-side)

Uno spettacolo mai avvenuto e un’intervista incentrata sulla presunta messinscena. Sono queste le premesse su cui si fonda Pigiama Party di Collettivo Badalam B-side. Tra Alessia Sala, Giacomo Tamburini e Antonio “Tony” Badalam, che prendono posto in scena su tre sedie di plastica rossa, si delinea una dinamica che vede instaurarsi una relazione dialogica tra intervistatore e intervistati. Questi ultimi, come ci è dato intuire, sono gli attori che hanno appena calcato le scene, in una sovrapposizione tra il ruolo fittizio e la loro effettiva funzione sul palcoscenico. Vengono ripercorse verbalmente scene chiave della presunta messinscena, che ha tutta l’aria di essere stata mastodontica, cedendo alla più sfrenata fantasia. Lo spettatore non può che vivere lo spettacolo mai visto visualizzandolo tramite le parole di chi lo racconta in maniera frammentata, con continui riferimenti a elementi che si presuppongono condivisi nel patto silente tra attori e pubblico, ma che non sussistono. Sottilmente, l’intento sembrerebbe quello di insinuare in chi guarda un vago senso di FOMO, “fear of missing out”, con cui si intende la paura di essere rimasti indietro o essere stati lasciati da parte rispetto a un contenuto o una nozione che pare dominio di tutti, per quanto non si abbia modo di accertare la sua veridicità. Ci sentiamo inevitabilmente tagliati fuori, affaticati nel cercare di tenere il passo con una società che va sempre più veloce, che ci ingozza di informazioni, senza darci il tempo di assimilarle o verificarle. È dunque con una leggera sensazione di panico che assistiamo al dispiegarsi di scene sempre più assurde, dal momento in cui l’attrice si mette ad allattare un peluche dichiarandolo suo figlio, a quando nel provare una scena extra finiscono per uccidere il presentatore, con tanto di schizzo di sangue finto. L’assurdo e lo scopo decostruttivo si intrecciano in una struttura definita che rinchiude all’interno di un recinto il potenziale distruttivo della messa in discussione. Di quell’onda imponente non ci arrivano che poche gocce. È solo questione di tempo, prima che collassi su di noi.  (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi. Ideazione Antonio “Tony” Baladam, Rebecca Buiaforte drammaturgia e regia Antonio “Tony” Baladam interpreti Alessia Sala, Giacomo Tamburini, Antonio “Tony” Baladam co-produzione Teatro Gioco Vita, La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale. Foto Luca Del Pia

DK R ADIO Funeral Party (di Tony Clifton Circus)

Nello studio di DK RADIO ( titolo dello spettacolo prodotto da Tony Clifton Circus con con Iacopo Fulgi, Enzo Palazzoni, Werner Waas) DJ Groucho Marx si appresta a inaugurare la sessione di jam serale. Dall’alto della sua postazione radiofonica, eretta di fronte al palcoscenico, il DJ armeggia con la sua console. Il sottofondo sonoro culla lo spettatore nell’illusione di star ascoltando la radio durante una guida notturna, solo la voce dello speaker a fare compagnia nel percorrere la strada deserta. Siamo all’aperto, e la notte, con il suo manto stellato, splende con quel luccichio giocoso sul pubblico, curioso di scoprire chi si cela all’interno del maggiolino parcheggiato nello spiazzo adibito a palcoscenico. Ne escono due individui peculiari, dall’identità non ben definita, tanto più che questa varia di continuo: un momento prima sono Vladimiro ed Estragone, elegante citazione ad Aspettando Godot di Samuel Beckett, un attimo dopo sono la renna Adolf e Babbo Natale, quello successivo Karl Marx e Friedrich Engels e così via, in un gioco di continue agnizioni. L’elemento che li accomuna è che tutti loro sono in attesa di qualcosa: aspettano la morte. Nel mentre, ingannano il tempo, ascoltando la radio, che è sintonizzata sulla stazione DK RADIO, o improvvisando una grigliata a base di würstel. Per un momento fugace pare che la stasi si infranga e che i personaggi, persi nel nulla, sappiano finalmente che direzione prendere per sfuggire all’indolenza della loro attuale condizione. Ma è un’impressione illusoria: come avviano la macchina, ecco che il cofano e il bagagliaio si aprono e due sky dancer si gonfiano, ergendosi sopra le teste degli spettatori, per poi afflosciarsi, come i protagonisti, svuotati dell’impeto iniziale. Non ci resta, dunque, di fronte al fallimento della possibilità di dare una direzione alla nostra vita, che attendere la morte, in compagnia di buona musica. Diventa così un funeral party, un party pre-funerale. Fogli di carta appesi a un filo sventolano nell’ora ultima della notte, disperdendo nel vento le ultime parole degli spettatori. Sopra il beat pulsante, ci si può ancora illudere di avere tutto il tempo del mondo. (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi di e con Iacopo Fulgi, Enzo Palazzoni, Werner Waas una produzione Tony Clifton Circus e SCARTI Centro di Produzione Teatrale d'Innovazione con il sostegno di Casa-Teatro Vallegaudia (PU) / Teatri Mobili (VT). Foto Luca Del Pia

AQUILEE (di Mattia Cason)

Suono lontano di campanacci riempie improvvisamente la stanza. La porta di sicurezza si spalanca e una persona che indossa un costume da yak, con tanto di corna decorate da nastri, fa il suo ingresso. A ogni suo passo, il campanaccio oscilla, produce un suono ridondante che permea lo spazio, per poi uscire di scena. Mattia Cason, nel ruolo di “danzattore”, danzatore e attore al tempo stesso, vestito come Pier Paolo Pasolini durante la sua visita ad Aquileia, si muove selvaggiamente sopra la proiezione dei mosaici della Basilica della città, purtroppo poco visibili per la maggior parte del pubblico sulle gradinate. Un suonatore di fisarmonica accompagna la sua danza sfrenata, intervallata da proiezioni di citazioni in varie lingue sullo sfondo nero alle sue spalle, che si ferma a recitare. I caratteri fenici si mescolano con quelli dell’alfabeto greco ed ebraico, con i geroglifici e le ben più note e intelligibili lettere latine. I riferimenti si ammassano, echi di un passato i cui eventi si susseguono, sfuggendo a una logica di linearità temporale e alla comprensione. Lo spettatore può solo assecondare il flusso mentre frammenti di storia, come le tessere di quei mosaici, vengono accostati gli uni agli altri. Nessun elemento viene citato per caso: ai presenti viene distribuito un volantino che, dispiegato e letto, contestualizza tutte le informazioni fornite, invitando chi guarda ad espandere con materiale extradiegetico l’interpretazione della messinscena. Alla fruizione, risulta più chiaro come l’intento sia quello di creare un ponte di collegamento tra Asia, Africa ed Europa, scavando nelle nostre radici per trovare le influenze nascoste a partire dall’avvicendarsi di grandi civiltà. E sono sempre quelle radici a legarci a doppio filo alle sorti delle coste nordafricane e asiatiche, animate da conflitti a lungo incancreniti. Dalla striscia di Gaza alla “verità per Giulio Regeni”, Cason fornisce una grandinata di suggestioni che rimangono lì, isole separate, in attesa che il nostro sguardo indagatore costruisca le connessioni mancanti. (Letizia Chiarlone)

Visto a Terreni Creativi con Mattia Cason, Ahmad Kullab ideazione, drammaturgia e coreografia Mattia Cason luci Jaka Šimenc proiezioni Omar Ismaili costumi Primož Klinc, Chiara Defant, Vladimir Vodeb. Foto Luca Del Pia

#DRO - Radical Love

LOOK CLOSER (regia di Francesca Pennini)

La penombra è sempre più densa nella sala Forgia di Centrale Fies e il paio di casse che occupa la scena sembra lentamente sprofondarci dentro. L’insieme, scabro, rugginoso, con un portone di legno a sovrastarci, ricorda i primi momenti di Stalker di Andrej Tarkovskij. Una voce femminile fuori campo contrasta con questa austerità: melliflua, guida la nostra respirazione e ci pone domande da metodo Feldenkrais, del tipo «Come sente il dentro delle mani?» o «Tu ci credi alla schiena?». Poi osserva che «c’è molto invisibile a cui credere» e ci invita, a questo proposito, a «non credere a quello che dico: credi all’eco del palato, alle tue proporzioni, al tuo alluce, a David Bowie, all’ultimo bacio che hai dato». Nel frattempo sullo sfondo iniziano ad alternarsi scritte che, pur rimandando alle parole echeggianti nello spazio, infastidiscono lo stato di concentrazione in cui la voce è riuscita a immetterci: occupano il nostro sguardo, lo costringono a concentrarsi su qualcosa di esterno da noi. Fin da subito, infatti, la forza di Look Closer sembra basarsi sull’eccitazione delle capacità immaginative dello spettatore attraverso la parola pronunciata. E in effetti Abracadabra, espressione di probabile origine ebraica traducibile con “creo mentre parlo”, è il titolo dello spettacolo di cui Look Closer è solo lo studio: Francesca Pennini, entrata in scena con luci più livide e fredde delle precedenti, ce lo descrive, da una parte assicurando sulla sua prossima circuitazione, dall’altra evocando scenari soprannaturali, quasi borgesiani, che vedrebbero la performer emergere da una scatola/geode e, dopo aver aspirato il suo stesso corpo, ballare assieme una gallina addestrata. Una delle traduzioni possibili di “abracadabra”, ci dice Pennini, è “sparisci come questa parola”. Non è un caso che ce lo dica alla fine, invitandoci a uscire dalla sala restando in silenzio, come se ci fosse stata rubata la voce: per recuperarla, spiega, è necessaria una delle caramelle distribuite poco oltre la soglia. Incantati, obbediamo. (Matteo Valentini)

Visto Centrale Fies. Radical Love regia Francesca Pennini | dramaturg, brainstorming Angelo Pedroni | azione e creazione Angelo Pedroni, Francesca Pennini | azioni e creazioni invisibili Carmine Parise | testi e voce Francesca Pennini | musiche e cura del suono Simone Arganini | scenografia Alberto Favretto | luci e tecnica Alice Colla

#CIVIDALE (Mittelfest)

MITTELFEST 2025

Una forbice taglia per il lungo la parola Tabù: su questa volontà di rottura si sviluppa il programma denso e multiforme dell’edizione 2025 di Mittelfest. Oltrepassare i confini comodi e noti della nostra percezione del mondo è l’esercizio cui dovrebbe sempre esporci l’esperienza artistica, specie in momenti storici come quello presente, dove il caos spinge noi nati dalla parte fortunata del mondo ad addormentarci nell’indolenza del dato o, ancor più colpevolmente, ad assorbire interpretazioni della realtà platealmente inaccettabili. La contaminazione e il dialogo sono gli anticorpi indispensabili. Ma il rilascio è lento, l’effetto non è immediato. Per questo è fondamentale la persistenza di presidi culturali come Mittelfest, giunto quest’anno alla 34esima edizione. Lo sguardo programmatico di Giacomo Pedini, alla direzione del festival friulano dal 2020, solidifica un lavoro orientato a quella vitalità centroeuropea di cui in Italia solo in rare occasioni giungono gli echi. Cividale si fa centro di raccolta di energie e forme inedite: percorsi internazionali di ampia varietà convergono tra le strade di pietra e il verde acceso del Natisone. Durante l’ultimo weekend di festival, affollatissimo in ogni tipologia di appuntamento – la musica ha qui un ruolo cardine, con una ricca proposta di occasioni di alto livello e in forme spesso poco usuali per l’Italia - modula nella maniera più organica intrattenimento e ricerca, presente e futuro. Lo stesso pubblico si trova così davanti alla ferocia di una mascolinità in faticosa decostruzione con i giovanissimi Lidi Precari (vincitori con C19H28O2 dell’ultima edizione di Mittelyoung), per poi immergersi nei Lieder di Schumann e Schubert declinati in lingua inglese e arrangiamenti pop degli austriaci ErlKings, o ascoltare una giovane orchestra multietnica (la CEMAN ORCHESTRA, Central European Music Academies Network Orchestra) che da Mozart a Britten attraversa il tema della paura. Tutto con lo stesso attento entusiasmo e anche talvolta una certa sana e attiva distanza critica. (Sabrina Fasanella)

#BASSANO

APPUNTI PER IL SOLE (di Daniele Albanese)

Prima ha messo alla prova i fusibili della Chiesa di San Giovanni (quella con la monumentale facciata neo-palladiana che versa su Piazza Libertà, a Bassano, e libera mille visioni di santi tutti bianchi) dove ha performato, facendo accendere e spegnere dagli stessi performer le luci a più riprese dell’intero edificio, come per non scendere mai a patti con la luce. Poi ha messo alla prova i due corpi degli interpreti, bravissimi pur diversissimi, con un lavoro di forte intensità e presenza ma quasi sempre sur place, in una stasi febbrile e inquieta, come per mettere a nudo la stabilità, forse il bisogno di sicurezza che tanto conforta chi guarda. E per di più in una tenuta asimmetria gestica dei due danzatori, Fabio Pronestì e Diego Spiga, in modo che non fosse mai possibile assimilarli né metterli in relazione così, solo per mera evidenza. Il responsabile di quanto descritto è il coreografo Daniele Albanese che a Operaestate ha portato questi primi suoi Appunti sul sole. Mica all’aperto, magari in pieno giorno, in un atto performativo ecocritico: macché. A contrasto, invece, in questa bellissima chiesa, che sullo sfondo dell’altare centrale, un poco nascosta, ha pure una pietà (forse lignea) tutta nera. Il sole, allora, è un concetto più sottile, va inseguito nell’interiore: è rincorso qui dentro, in questi corpi e in questa danza, come se fosse qualcosa scomparso, che è andato a nascondersi (come la pietà nera). Ma che si può ritrovare nel momento del suo ritorno: la temporalità qui è infatti circolare, mentre il movimento è dato per intensità, per concentrazione e frequenza, perfettamente conforme e sintonico con le intense vibrazioni sonore di Simon Balestrazzi. Una danza fatta di danza nello spazio e nel tempo dell’ascolto, anche danza aleatoria per sfuggire alle attese più consolidate e ai luoghi comuni più resistenti (e verrebbe da dire: finalmente! dopo tutte le spacconate sceniche, le debolezze dei vocabolari, la pochezza dei princìpi compositivi che abbiamo digerito fin qui, in questa difficile estate...). (Stefano Tomassini)

Visto alla Chiesa di San Giovanni con: Fabio Pronestì, Diego Spiga Coreografia: Daniele Albanese Musica: Simon Balestrazzi Produzione: Fuorimargine – Centro di Produzione di Danza e Arti Performative della Sardegna Coproduzione: Insulae Lab, L’Altra Associazione Con il sostegno di: Europa Teatri

LANDLESS (ideazione e coreografia di Christos Papadopoulos)

Landless di Christos Papadopoulos è un intenso assolo nel corpo di Georgios Kotsifakis. È diviso in due parti assai dissimili: nella prima, il performer a terra ci osserva con sguardo obliquo poi riceve nel corpo i colpi a ripetizione di una traccia ritmica; il micro-movimento è tutto un procedere a scatti, in una lenta cadenza motoria senza quasi variazioni; dal suolo in piedi nella distesa di una incomponibile frammentazione. Nella seconda il performer manipola una luce che lo tiene sempre in controluce (e ti aspetti che parta, da un momento all’altro, Heroes di Bowie), tutto sempre in una calcolata e ostentata semplicità. Al debutto, questo assolo ha ricevuto immediati consensi: da qui l’attesa. L’ho visto in prima italiana al Festival Operaestate di Bassano, e penso sia lavoro regressivo e generativo insieme. Regressivo perché retrocede la performance a un atto di (alto e apprezzabilissimo) virtuosismo comunque fine a se stesso, per di più dominato nel sincrono da una musica elettronica esausta, essenzialmente ritmica e molto didattica, elementare, presto fastidiosa (responsabile Jeph Vanger). Generativo perché è performance tutta consegnata alle doti dello straordinario interprete, che qui viene portato al limite leggibile del suo sforzo, ed è impossibile non solidarizzare con questo corpo mitragliato dai colpi di una monotonica drum-machine. È un corpo che resta sempre in gioco in questo (involuto) massacro che in fondo, soprattutto ai nostri occhi, lo esalta. Poi tanto buio e tanto fumo per intensificare l’invisibile di una presenza in realtà trasparentissima, e per questo godibilissima. Di certo è lavoro a bassa, bassissima densità coreografica: ha una sola idea di movimento e la porta nel corpo del solista per l’intero tempo della sua performance, senza alcuna trasformazione sviluppo o drammaturgia oltre la sola resistenza dell’interprete. È lavoro figlio di questi tempi, senza dunque vocabolario, senza complessità, incapace di immaginazione e di mondo oltre la soglia della prestazione. Per dovere di cronaca volentieri segnalo che a Bassano il lavoro ha riscosso un vero e pressoché unanime consenso da parte di un pubblico folto e plaudente. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Remondini, Operaestate Festival, ideazione e coreografia Christos Papadopoulos, Georgios Kotsifakis danzatore Georgios Kotsifakis musica Jeph Vanger luci Eliza Alexandropoulou produzione LAC Lugano Arte e Cultura

#SANSEPOLCRO (Kilowatt Festival))

KILOWATT FESTIVAL 2025

Chi volesse avere una fotografia del teatro italiano contemporaneo dovrebbe prima o poi passare per Sansepolcro: nel borgo toscano - celebre per aver dato i natali a Piero della Francesca e che ancora si salva dall’overtourism - si contano ormai 23 edizioni di Kilowatt, quest’anno con ben 45 spettacoli. Ogni giorno si comincia almeno alle 17, a volerli vedere tutti forse sono troppi (e con quello delle 22,45 si fatica un po’), ma qualità e diversità sono segni riconoscibili della kermesse. Quest’anno non ho trascorso a Sansepolcro i soliti due giorni veloci ma mi sono dato la possibilità di un attraversamento più ricco e ho avuto la possibilità di assistere a una partecipazione popolare incredibile: non solo artisti e operatori ma tanto pubblico affollava le platee. D’altronde sono più di quaranta le spettatrici e gli spettatori che hanno scelto di far parte dei Visionari, ovvero lo storico progetto che vede proprio gli abitanti di Sansepolcro misurarsi con la selezione di una parte degli spettacoli in programma: decine di persone che durante l’inverno si ritrovano a guardare video di teatro e danza per poi scegliere le opere preferite. Ho un’immagine per raccontare la devozione di Lucia Franchi e Luca Ricci (fondatori e direttori del festival) per Kilowatt: durante uno spettacolo, non ricordo quale, sala pienissima come al solito, la solita calura dell’ Auditorium di Santa Chiara, i due direttori entrano per ultimi e si siedono in terra su uno scalino. Accade anche in altri luoghi, certo, accade quando un festival riesce ad essere una festa sia per la comunità di artisti che per la città. Eppure anche qui si sono contati un po’ di punti persi all’ultima misurazione della commissione ministeriale; ma nell’ambito di una vetrina come Kilowatt, rispetto alla sua funzione sul contemporaneo, è davvero difficile chiedere di più a questo progetto. (Andrea Pocosgnich)

ABDOMEN (La Grive Compagnie)

In opposizione a spaesamenti virtuali di cui tanto si parla, a convincermi sempre di più, negli scenari dell’ipercorpo e delle immersioni fisiche (in presenza) che non smettono mai di rendersi fondativi, sono certe pratiche artistiche esploranti i linguaggi organici, i territori fisio-biologici, i contrasti epidermici. Detto in parole semplici, ho appena assistito a un combattimento di addominali, a un antagonismo performante basato su violentissimi colpi del ventre cui con vigore di sfida scenica si lasciano andare due partners senza mai concedersi tregua: il potente e ostile passo a due, l’esperienza sensazionale e rituale di Abdomen è ospite del Kilowatt Festival 2025 di Sansepolcro, crocevia energico delle arti diretto da Luca Ricci e Lucia Franchi, e protagonisti del match sono qui i fondatori (nel 2019) della compagnia di danza contemporanea La Grive, gli agonistici Clémentine Maubon e Bastien Lefèvre, associati al Théâtre Louis Aragon di Tremblay-en-France. Si presentano con divise arancione, alludono inizialmente a movimenti di boxe, scoprono presto un sustrato di costumi da bagno, e altrettanto in tempi brevi svelano entrambi il tronco, avviando una sistematica ricerca di scontri frontali a mezz’aria, una lotta fatta di urti, di percosse, di impatti di pettorali ad alto regime di aggressione, di impeto, di lucida competizione. C’è qualcosa di misterioso, di convenuto e animalesco, nel loro duello strusciante e testardo di toraci, busti e costati che si sfidano per una battaglia forse anche carnale (e procreativa?), oltre che bestiale. Io assisto alla scompigliatezza dei capelli di lui incollati alla fronte come quelli d’un torero, e alla naturalezza asettica dei seni di lei esposti in modo severo. Sono complici o antagonisti, viene da pensare, Clémentine e Bastien? Quelle inesorabili botte di petto sono l’armonia sintonica di un wrestling che ha bisogno di fluttuare e di percuotersi? O quella sfida tremenda di addomi nasconde un ‘sentimento della pelle’? Ah, saperlo… (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Chiostro di San Francesco, Kilowatt Festival interpretazione Bastien Lefevre, Clementine Maubon direzione tecnica Jerome Houles coproduzione CNN de Bourgogne Franche-Comté (FR) con il sostegno di Centre Culturel de La Ville Robert (FR), Le Cent Quatre Paris (FR), CNDC Angers (FR

LE PALESTRITI (di Simona Bertozzi)

Al chiostro di San Francesco si accede tramite una scala che immette nello spazio scenico e nelle platea che lo circonda, è un’entrata tanto lenta, uno per volta, quanto suggestiva, per il pubblico, un po’ rituale forse o che potrebbe ricordare l’entrata in una piscina. Nel mezzo della bianca scena un telo con la raffigurazione guida di questa opera coreutica, Le palestriti, un mosaico della villa romana del Casale a Piazza Armerina, nel mezzo della Sicilia; parliamo di un reperto mosaicale tra i più importanti dell’epoca romana, del IV secolo, in cui sono rappresentate dieci figure femminili impegnate in vari esercizi e giochi atletici, con tanto di oggetti vari. Le quattro interpreti raggiungono la scena in momenti diversi, ognuna è portatrice di un segno coreografico in cui si riconoscono le impronte dei movimenti sportivi: riconosciamo certe posizioni di sumo, il lancio del peso, i salti, le corse, ma in generale cogliamo lo sforzo sportivo e il tentativo di queste quattro splendide interpreti (diverse per qualità del movimento, fisicità ed età) di catturare lampi di agonismo e atleticità inserendoli in una danza di corpi che sfruttano tutto lo spazio per poi stringersi come in una lotta; a questo punto ognuna afferra un angolo del telo, lo sollevavano, ne fanno gioco collettivo. Erano singolarità, come campionesse di sport solitari, e ora sono una forza collettiva, un unisono; il ritmo aumenterà e l'insieme si sfalderà ma senza cancellare negli occhi di chi guarda quel senso di maturazione collettiva. Ora sono squadra: una piccola nenia viene intonata a voce bassa, poi spaccate a bloccare il tempo, sospiri, piccole grida e abbracci, prima che arrivi Road to Nowhere dei Talking Heads e poi un presagio ancora, il gruppo si dividerà, si troverà di nuovo in lotta, come nel Rugby. Perché questo spirito collettivo va difeso, da egoismi interni come da attacchi esterni. Quanta inventiva, vitalità e sensibilità in questo lavoro coreografico di Simona Bertozzi, tra i silenzi, negli slanci fisici e nei sussurri, siamo empaticamente con queste giovani donne, fino alla fine. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Chiostro di San Francesco. Kilowatt Festival. ideazione e coreografia Simona Bertozzi preparazione vocale Meike Clarelli interpretazione Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa, Paola Drera, Valentina Foschi musica originale Meike Clarelli, Davide Fasulo produzione Nexus Factory

VEGLIA (Menoventi)

Menoventi è una compagnia, più precisamente un duo, che negli anni ha interrogato la realtà della scena e lo spazio di relazione con la platea bombardando spesso la quarta parete, cercando di andare oltre il concetto di rappresentazione, si veda il recente gioco drammaturgico di Ivan Vyrypaev, Entertinment, che ribalta la scena focalizzandosi su due spettatori, oppure il più complesso Odradek che è una sorta di favola distopica in cui il nome del personaggio kafkiano diventava il marchio di un delivery che recapita pacchi mai acquistati. Ma si pensi anche ai titoli precedenti: c’è sempre qualcosa che fa scricchiolare la realtà, una sotterranea e misteriosa ricerca che attraversa il teatro di Gianni Farina e Consuelo Battiston. Allora questo Veglia visto nello spazio del chiostro di San Francesco di Sansepolcro per Kilowatt Festival è un ennesimo corpo a corpo con la realtà, senza tentativi di torsione, in un incontro purissimo con gli spettatori e le spettatrici che abitano tre lati della scena. Consuelo e Gianni interpretano se stessi (il drammaturgo e regista non saliva sul palco da decenni): la veglia è “una serata trascorsa in compagnia, a raccontare delle storie”, ma è anche un rito che ci mette in contatto con la morte, durante la veglia si accudisce la salma… qualcuno qui allora dovrà prestarsi a fare il morto, qualcuno dal pubblico. Non è uno spettacolo, è una festa questa di Menoventi, si brinderà, come nei migliori veglioni, al futuro e a chi non c’è più, ai 20 anni di attività della compagnia, si ricorderà Goffredo Fofi, si racconteranno scherzi e momenti imbarazzanti. Le piccole storie antiche (mercanti persiani, partite a scacchi con maestri zen, scommettitori nel Far West…) si alterneranno ai momenti di partecipazione del pubblico, tutto accompagnato dalla musica dal vivo (a Sansepolcro quella di Muni, ma il musicista cambia in ogni piazza). Apparentemente non siamo di fronte a uno spettacolo, ma c’è quello che il teatro promette di essere, soprattutto nella nostra epoca ipermediatizzata, la condivisione del tempo e l'accoglienza, nel tentativo di guardare e allontanare la morte. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Chiostro di San Francesco. Kilowatt Festival. di e con Consuelo Battiston, Gianni Farina ospite musicale Muni con un’incursione di Luisa Borini consulenza sonora Mirto Baliani organizzazione Marco Molduzzi amministrazione Stefano Toma, Marco Molduzzi produzione E Production, Drama Teatro

BOVARY (regia Stefano Cordella)

Quello di Madame Bovary è un personaggio che spesso si affaccia nel teatro italiano, ne ricordo almeno tre in questi ultimi anni che hanno colpito la mia memoria: l’allestimento di Andrea Baracco e poi due lavori più piccoli, in forma monologante ma molto preziosi, uno con la regia di Luciano Colavero e l’interpretazione di Chiara Favero, l’altro vedeva Lorenza Senestro del Teatro della Caduta portare lo storico romanzo di Flaubert nella moderna Piemonte. La vicenda d’altronde si presta alla riscrittura, come nel caso dello spettacolo diretto con maestria da Stefano Cordella visto in anteprima a Kilowatt Festival. Un muro sul fondale, un divanetto sulla sinistra e una panchina sulla destra, Anahì Traversi - che darà tutta se stessa, in equilibrio tra tecnica e passione sfiorando di tanto in tanto la leziosità - in gonna corta, calze bianche ricamate, uno stivaletto rosso bordeaux; il marito, il charles del romanzo, è Pietro De Pascalis, anche lui con un completo chiaro e gli straccali e un’interpretazione piena di umana verità. Emma è una correttrice di bozze, è riuscita a raggiungere il lavoro che desiderava, come le fa notare il marito, eppure è infelice, alla ricerca di altro. E’ un’insoddisfazione questa di Emma, tutta moderna, a tratti può sembrare una grottesca maschera della nostra epoca, fatta di un bovarismo scadente che non può esistere perché tutto c’è nella nostra società, tutto è a portata di mano. Ma è grazie alla tagliente ironia che la drammaturgia di Elena C. Patacchini tiene lontana la retorica e la banalità. Charles è protezione e amore, ma c’è altro oltre la noia di una relazione tranquilla, l’insoddisfazione è una radice che deve trovare il proprio corso: la coppia ci prova, vanno a vivere nella grande città, "qui tutti hanno così tanto da vivere” dice Emma piena di nuova eccitazione, ma basterà poco alla radice per tornare a battere di quel dolore. E non si può non provare empatia per quell’uomo che verrà lasciato per un altro “mi hai scelto perché sono sacrificabile”, Emma intanto si è infilata il costume nero dello storico personaggio, in una sorta di corrispondenza che va oltre le epoche. (Andrea Pocosgnich)

Visto all’ Auditorium Santa Chiara. Kilowatt Festival. da Madame Bovary di Gustave Flaubert ideazione e regia Stefano Cordella drammaturgia Elena C. Patacchini con Anahì Traversi e Pietro De Pascalis scene Marco Muzzolon costumi Giulia Giovanelli disegno luci Fulvio Melli suono Gianluca Agostini assistente alla regia Marica Pace delegata di produzione Susanna Russo produzione Manifatture Teatrali Milanesi

LA CARA DEI VECCHI (di E. Buonocore, regia P. Carbone)

Prendersi cura degli anziani, nella nostra società attuale, è tema di particolare urgenza. Con l’innalzamento dell’età media e i progressi della medicina, unito al crollo delle nascite, l’invecchiamento del paese è una condizione ormai ineludibile che ha bisogno di regole, nuove strutture sociali, ma soprattutto di tanta umanità. Quando non è possibile ricorrere a centri di accoglienza o all’aiuto privato e dedicato di una persona che accompagni ogni passaggio della fase senile, tocca a qualcun* di famiglia caricarsi il peso emotivo, psicologico e fisico della cura. È da qui che prende spunto La cara dei vecchi, testo di Elvira Buonocore vincitore del bando di produzione NdN per la nuova drammaturgia, in scena sul palco del Kilowatt Festival, a firma Progetto Nichel, con in scena la sola Anna Carla Broegg, diretta da Pino Carbone. C’è un doppio piano di narrazione per il monologo: con un banco-regia e un microfono l’attrice è al lato della scena, sullo schermo l’interno casalingo con cui è in dialogo, in cui letteralmente entra con i gesti e la voce. All’interno dell’immagine i due nonni di cui si prende cura, affrontando i disagi e le inadeguatezze del caso; i due anziani hanno malattie diverse, lei via via diventa pratica nella gestione delle loro giornate, ma sempre in agguato è l’errore, oppure l’imprevisto che cambia tutto e produce l’inevitabile crisi. La precarietà della situazione emerge in modo sempre più pressante, al punto che la giovane rischia di impazzire seguendo le necessità dei vecchi; ecco un tema svolto con efficacia dal testo che ha una certa freschezza e originalità, soprattutto integrando una serie di modi di dire “da vecchi”, proverbiali, nelle espressioni della ragazza e usando con acutezza il linguaggio surreale, ma che si perde in una serie di incongruenze e linee espressive meno funzionali alla coerenza generale, da focalizzare meglio. Nel tempo uguale, i vecchi diventano paesaggio, la casa di mobili polverosi il loro habitat. La giovane coltiva amore e odio, dedizione e cinismo, cercando di non annegare in quella sorta di acquario immobile che è la vita degli anziani. (Simone Nebbia)

Visto all’ Auditorium Santa Chiara. Kilowatt Festival. Drammaturgia Elvira Buonocore; regia Pino Carbone; con Anna Carla Broegg; in video Alfonso D’Auria, Darioush Forooghi; scene Giuliano la Spina; musiche Antonio Maiuri, Marco Messina; coproduzione Teatro Libero Palermo, Fondazione Luzzati/Teatro della Tosse, Network Drammaturgia Nuova; color e montaggio Rossella Frezza; prod. esecutivo video Marcos Vacalebre Spaghetti Film; edizione Francesca De Nicolais

#SANTARCANGELO

SANTARCANGELO FESTIVAL 2025

I soliti sold-out e la colorata comunità nomade di artist* che abita il borgo romagnolo per un paio di settimane: c’è aria di festa in città, nonostante i risultati ministeriali. Anche perchè qui siamo in Emilia Romagna e gli enti locali hanno risposto con una dimostrazione di forza, facendone ancora di più una questione politica, il Presidente della regione De Pascale ha preso parola proprio all’apertura in difesa del Festival e il direttore artistico Tomasz Kireńczuk si è fatto stampare la scheda con i punteggi ministeriali su una maglietta, quasi a rivendicare quel -12 come frutto di un'alterità culturale e politica. D’altronde la destra vorrebbe un altro Santarcangelo, lo sappiamo bene, basta andarsi a cercare le affermazioni di chi siede in parlamento con Lega o Fdi o dei politici locali. Vorrebbero un festival non “divisivo”, depoliticizzato, non schierato insomma. Certo le critiche in questi anni sono arrivate anche da parte di osservatori e giornalisti (ma sempre nel merito dei contenuti artistici) e se è vero che come tutte le espressioni radicali il festival rischia di essere una bolla rispetto al mondo circostante - la porosità va detto può e deve migliorare (in termini di apertura e dialogo) - è pur vero che se c’è un luogo che di quella radicalità ha fatto la propria natura questo è proprio Santarcangelo. Gli spettacoli visti qui devono spostare lo sguardo verso un altrove, devono essere divisivi, di rassegne che mettono d'accordo tutti ce ne sono in abbondanza, qui si viene a fare esperienza del limite, sui corpi, sulle asimmetrie sociali, sulle minoranze e sulla possibilità di indagare dunque la nostra posizione nel mondo. Quest’anno tra le tante visioni intercettate nei due giorni in cui abbiamo girato per le venues santarcangiolesi ne selezioniamo alcune per un racconto tra diversi linguaggi e idee. Il corpo continua ad essere elemento politico, per il suo colore, la sua origine geografica, oppure per l’uso strumentale, come oggetto di lavoro e servizio per l’Occidente benestante, ma può essere anche un corpo sul quale rimangono impronte sociali e addirittura religiose e corpo auto-sessualizzato in una sorta di sacrificio al piacere. (Andrea Pocosgnich)

THREESOME (ideazione e coreografia di Wojciech Grudzinski)

È un lungo assolo in presenza, dello stesso Wojciech Grudzinski, mentre il terzetto del titolo è dei fantasmi qui evocati (nella bella ambiguità terminologica del sesso-a-tre). In una densa astrazione, sono le biografie dei leggendari ballerini Stanisław Szymański, Wojciech Wiesiołłowski e Gerard Wilk, cresciuti nella Polonia comunista del dopoguerra (due di loro alla fine emigrarono, mentre uno scelse di rimanere nel suo paese natale) che qui ritornano come ipotesi di un inedito archivio queer spettrale, capace di posterità. Ci riescono? Credo di sì: allo spettatore è richiesta però molta complicità, perché i tempi sono dilatati, la musica invasiva e non sempre a beneficio, mentre le immagini proiettate sul fondo sono utili e bellissime (documentano anche il mondo del balletto nordeuropeo in anni di forte contrapposizione ideologica e di guerra fredda). I mezzi sono quelli della rievocazione postuma, della trasformazione somatica, della citazione per frammento. Anzi, la sparizione è qui garanzia che ciò che ritorna, nelle forme più parziali e libere in scena e nel corpo di Grudzinski, è proprio ciò che si deve poter salvare dalle storie, che invece cancellano e nascondono corpi e presenze fuori norma. Ciò che non c’è vive più pienamente perché si è sottratto al controllo e all’ordine (e al consumo) dei discorsi che non ammettono deviazioni; deve solo essere intercettato di nuovo, in corpi che non hanno vergogna, e sono capaci di evocazione. Nella prima parte, si ripetono pose di sculture greche, anche se poi l’attenzione si concentra a lungo sui glutei del performer, in un assillo che è rivendicativo. Nella seconda, la ribellione contro le convenzioni è simboleggiata, tra le altre cose, da una ossessiva e ipnotica interpretazione della danza oberek: una danza popolare polacca di ritmo ternario dal caratteristico accento sui tempi deboli delle battute pari. Eccola qui, allora, una più intensa spiegazione della lunga scritta serpentina in rosso che trascorre più volte sul fondo: «THE POWER OF THREE WILL SET US FREE». (Stefano Tomassini)

Visto alle Ex-Corderie, Santarcangelo Festival ideazione, coreografia Wojciech Grudziński collaborazione artistica Igor Cardellini supporto drammaturgico Joanna Ostrowska, Klaudia Hartung-Wójciak testo Klaudia Hartung-Wójciak consulenza artistica Miguel Angel Melgares video Rafał Dominik costumi Marta Szypulska luci Jacqueline Sobiszewski direzione tecnica Thibault Villard musica, suono Lubomir Grzelak, Wojtek Blecharz grazie a Emilia Cholewicka produzione Wojciech Grudziński / 910113 Foundation residenze Cité Internationale des Arts

CINEMA IMPERO (di Muna Mussie)

Ciò che più sorprende, al festival di Santarcangelo, confesso anch’io come già Andrea, è il pubblico. Incredibilmente numeroso anche a metà settimana. Sono andato in giorni “di transito” (infrasettimanali...), e la visita si è trasformata sùbito in festa. Non tanto fra colleghi e amici (che pure ve n’erano), o fra performance ed eventi (da non contarne). Quanto, piuttosto, per il clima affollato, festante, intergenerazionale delle platee e degli spazî, sempre pieni, in una calca sempre feconda. Difficile ipotizzare di penalizzare una programmazione come questa: quanta maggiore impressione politica avrebbero ricavato le istituzioni, invece, premiando. Qui ho visto un lavoro di grande forza progettuale, e di grande scrupolo spettatoriale: Cinema Impero di Muna Mussie. Senz’altro in questa mia due giorni, la performance più potente, e imperdibile. Prende spunto dall’omonimo cinema di Asmara, costruito nel 1937 durante il regime fascista. È per spettatore unico (nessuna generica coscienza collettiva è qui convocata, ma intima e individuale). Infatti, vengo accompagnato in mezzo alla platea, vuota, mentre scorrono le prime immagini dall’archivio storico dell’Istituto Luce (e da quello privato dell’artista), accompagnate dalla voce fredda generata dall’intelligenza artificiale. Ma nel buio della sala intanto la performer mi siede accanto e mi parla in tutt’altro tono, sommessa, in una prossimità, in una confidenza, in una complicità senza distanze che mi questiona sùbito. I piani sono molteplici: cinematografico, IA, archivio storico e personale, memorie sovrapposte di conquista e oppressione, di perdita e di scoperta. Gli effetti metavisivi: il cinema che contiene un cinema, che contiene narrazioni coloniali e di propaganda in parallelo al corpo-memoria della performer che potremmo essere noi. Ma è tutto abbastanza fulmineo, e lo spettatore resta letteralmente senza fiato né direzione perché come immerso fra mille specchi riflettenti. Vorresti trattenerla lì, domandarle, rilanciare questioni, perfezionare la comprensione, gli affondi sull’uso dei materiali, delle immagini, delle memorie, ma lei già non c’è più. Dissolta nel buio. Perché ora i conti con la nostra storia, passata e presente, tocca farceli da soli. (Stefano Tomassini)

Visto al C’entro – Supercinema, Santarcangelo Festival “Cinema Impero” è un progetto scritto e diretto da Muna Mussie con la collaborazione del filmmaker / editing video Luca Mattei, dell’ant(i)ropologo africanista Simao Amista, della curatrice d’arte contemporanea Martina Angelotti, del musicista Matteo Nobile, del sound designer SimonLuca Laitempergher e della traduttrice Susan Zuckerman grazie a Filmon Yemane per la condivisione della tecnologia di intelligenza artificiale dedicata a persone cieche e ipovedenti

MONGA (di Jéssica Teixeira)

Lo spazio per il pubblico è allestito sui tre lati. Vi sono anche ampi schermi e videocamere sparse in giro. Musicisti, sul fondo, e due tecnici, dietro a una consolle, ci attendono pazienti. Ai lati della scena anche tre, smaglianti, interpreti simultanei in LIS (e sarà, la loro, quasi una performance a parte, un mondo parallelo di segni che potenzierà il nostro sguardo, e già anche la ricezione della performance, proprio nella misura della partecipazione attiva di questi corpi ai significati catturati nella [e per la] descrizione di ciò che accade). La brasiliana Jéssica Teixeira appare all’improvviso, come una diva d’altri tempi, tutta nuda, tutta esposta nella sua stortura anatomica eppure capace di ironia, e di battaglia (ma, se intesi bene, sono quasi sempre sinonimi) contro ogni rettitudine imposta, normata, attesa. Si tratta di MONGA, performance multidisciplinare contro la paura che censura i corpi e l’immaginazione. La prima parte della performance è scandita con grande sapere teatrale, nelle forme anche dell’interrogazione diretta del pubblico, sugli stereotipi della visione, le prigioni culturali dello sguardo. Teixeira richiama anche figure storiche come Julia Pastrana, donna messicana del XIX secolo esibita nei freak show. In tanta rievocazione emerge, insieme al sapere critico dell’alterità, anche una malinconica pietas per la stessa finitudine che ci imparenta a questi corpi, e che domanda attenzione. Teixeira recita, balla, canta e intrattiene, incorporando proprio tutto ciò che del corpo è stato rifiutato, messo da parte, già deriso e poi dimenticato. Paura e disagio e qualche ghigno divertito sono gli affetti che attiva nel pubblico. Nella seconda parte prevale la performance musicale, anticipata da una bevuta alcolica collettiva gentilmente offerta, e la telefonata conclusione del ballo di tutti con tutti su tutto perché vale tutto (infatti a una certa, parte pure Whitney Huston, se ben ricordo, e Daniele seduto accanto a me, col quale poco prima avevamo riflettuto sull’uso di Deleuze e i massimi sistemi in questa performance, attacca imperioso e convinto con una voce intonatissima e una impensata memoria: un po’ come quando al Cassero parte la Carrà, e allora ciao). (Stefano Tomassini)

Visto all’ITSE Molari, Santarcangelo Festival. Regia drammaturgia, performance Jéssica Teixeira direzione artistica Chico Henrique direzione musicale, chitarra Luma direzione tecnica, luci Jimmy Wong video, fotografia Ciça Lucchesi preparazione del corpo Castilho zabumba Juliano Mendes direzione di scena Aristides Oliveira produzione Rodrigo Fidelis - Corpo Rastreado distribuzione internazionale Corpo a Fora, Farofa con il supporto di Creative Ceará

ENTEPFUHL (Alina Arshi)

Ci attende in piedi, di lato, in questa sorta di non luogo in disuso (ci facevano le corde, ma prossimamente verrà abbattuto per lasciare spazio a qualche appartamento turistico), ha un dito in bocca, come per mangiarsi le unghie ma sarà simbolicamente qualcos'altro questo suo contatto ossessivo con la cavità orale. Per interi minuti, forse troppi vista la breve durata della performance (20’), Alina Arshi fa pochissimo, ci guarda immobile o spostandosi nello spazio delimitato da teli colorati con varie fantasie. Veste un paio di pantaloncini scuri al ginocchio e una canottiera arancione, si gira, si tocca una treccia e continua a tenersi un dito in bocca mentre il sottofondo sonoro di una città rumorosa si fa più evidente. Il canto si sprigiona come qualcosa di naturale, come la radice di una cultura di appartenenza e poi di nuovo la mano che comincia a ostruire sempre di più la bocca fino soffocare la melodia. La bocca è ora apertissima, Arshi sembra voler mangiare qualsiasi centimetro della propria pelle prima che una linea ritmica potentissima possa portarla da un’altra parte: ora è il corpo in fiamme, spasmi, contrazioni, le braccia si lanciano in alto il busto si inarca, il viso cerca di contenere l’incontenibile. Se scattassimo una foto ora vedremmo una posa che avrebbe a che fare con l’iconografia induista, come nel finale, suggestivo proprio per questo rimando e per la radicalità con cui l'immagine si esprime: l’artista si posiziona sul limitare destro dello spazio, scenico, è immobile e di profilo, con il corpo in avanti, la lingua di fuori e la saliva che gocciola sul pavimento di cemento. La ventottenne, nata in India e trasferitasi in Europa (diplomata alla mitica Manufacture di Losanna proprio con questo solo), parte dal concetto di smarrimento - Entepfuhl era il nome di un villaggio in Germania protagonista anche di un romanzo filosofico di Thomas Carlyle del 1836 -,  ma qui la riflessione  è tutta in quel corpo, nelle mostruose contrazioni, nella lingua della Dea Kali che sbava sul pavimento (Andrea Pocosgnich)

Ex Corderia, Santarcangelo Festival. Coreografia Alina Arshi consulenza Jessica Allemann, Nicole Seiler, Robinson Filomé Starck produzione La Manufacture nell’ambito dei lavori di Bachelor della Promozione F grazie a Les Urbaines per la ripresa e ad Arsenic per l’ospitalità negli spazi studio progetto realizzato con il supporto di Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia

FERAL (di Josefina Cerda)

L’arte ha un’evidente difficoltà a relazionarsi con il sesso inteso come fonte del piacere, spiega Josefina Cerda dopo che il pubblico ha occupato qualsiasi centimetro quadrato della piccola stanza di un appartamento privato da cui si accede sotto i portici di Piazza Ganganelli. Luci rosse, aiutanti a volto coperto, con una calza rosa o con una di quelle maschere da cane usate nei giochi di ruolo erotici. Per l’artista di Santiago del Cile il sesso è stato da sempre una necessaria passione, fin dalla precoce età di otto anni e questo spettacolo è il tentativo di unire le due anime, quella di attrice e quella di dominatrice sex worker, ”soy una putana” afferma. Su un tavolo una serie di sex toys, che verranno utilizzati durante la performance, e il solito arsenale tecnico con mixer e loop station, ma in Feral (dallo spagnolo, ferino in italiano) la musica elettronica si mescolerà con vocalizzi ed esplosioni orgasmiche. Cerda rivendica il diritto di essere un oggetto sessuale, di procurare piacere per qualcun altr*, oltre che per se stessa, arriva a citare Donna Hareway e aspira al superamento dell’umano e all’identificazione con l’oggetto sessuale. Ma lo stile dello show è ironico, piacevolmente divertente e pieno di una sana stupidità quando è il pubblico ad essere chiamato in causa con la possibilità di interagire con un dildo o assumendo il controllo a distanza di un vibratore. Chi lo desidera può anche provare una piccola esperienza BSDM facendosi sculacciare con veri strumenti da mistress - non sono mancati volontari e volontarie naturalmente. Eppure al di là del sacrosanto gioco ciò che rimane è il grido di libertà di questa donna, la sua epica e selvaggia ricerca del piacere. Sarà politica anche questa, no? (Andrea Pocosgnich)

Casa privata, Piazza Ganganelli, Santarcangelo Festival. Creazione, performance Josefina Cerda maschera Pedro Gramegna, John Alvarez protesi O’Ryan Lab amministrazione, produzione, distribuzione Ébana Garín, Roni Isola – Fundación Cuerpo Sur Josefina Cerda è artista associata di “Fundación Cuerpo Sur”. La presentazione di “FERAL” a Santarcangelo Festival è realizzata grazie alla collaborazione con Belluard Bollwerk Festival

QUI A PEUR (di Davide-Christelle Sanveea)

Chi siamo nello spazio pubblico, di cosa abbiamo paura? Ci è mai capitato di sentire gli sguardi delle altre persone, indagatori, durissimi, persino violenti? Il Teatro Petrella di Longiano viene ripensato come luogo site specific dal duo Davide-Christelle Sanvee, il pubblico viene fatto accomodare su piccoli sgabelli, non c’è linea di demarcazione tra platea (in assenza delle poltrone) e scena. Due enormi pali ospitano dei fari e delle telecamere, solo successivamente capiremo di essere sotto controllo. Sanvee entra bendata, una voce off la guida tra gli spettatori. “Certe persone hanno paura del mio odore”, recita in francese, chi ne ha bisogno deve cercare i due alti schermi per leggere la traduzione. Al centro della narrazione c’è proprio lo sguardo, quello delle persone bianche europee su quella bambina nera appena arrivata a scuola, in Svizzera. Chi ha paura dell'uomo nero? Personaggio da ninna nanna, protagonista di filastrocche che si incidono nelle menti dei bambini. Le vicende personali si incrociano con quelle storiche: James Baldwin e la sua permanenza in Svizzera, Claudette Colvin e Rosa Parks le due attiviste che hanno rifiutato l’apartheid sui mezzi pubblici in Alabama e poi il controllo sociale: “vi abbiamo osservato per tutta la settimana” recita la voce fuori campo mentre il pubblico inquadrato appare proiettato in alcuni punti del teatro. Lo spettacolo nonostante l'idea di partenza non convince a causa della frammentata tessitura drammaturgica e di un allestimento che vorrebbe essere immersivo, ma non riesce a farci sentire davvero in pericolo e anzi certe scelte risultano un po’ grottesche: la mazza agitata dall'artista tra gli spettatori, le porte che sbattono, l’altro performer (Steven Schoch) che arriva saltando da un palchetto. Con chi parlano questi artifici posticci? Con chi è già d’accordo, con una bolla culturale che non ha bisogno di essere spaventata (anche solo per gioco); suggestiva invece la scelta di far apparire figure di spettatori neri dietro a velatini prontamente illuminati; ci guardano, tranne una persona sono gli unici spettatori neri in sala. (Andrea Pocosgnich)

VIsto al Teatro Petrella di Longiano, Santarcangelo Festival. Ideazione, direzione artistica Davide-Christelle Sanvee con Steven Schoch, Davide-Christelle Sanvee assistente alla direzione artistica Dîlan Kîliç sculture Florian Bach suono Baptiste Le Chapelain luci, direzione di scena Luis Henkes in alternanza con Florian Bach responsabile video Dîlan Kîliç costume Marie Schaller montaggio video Raphaël Piguet produzione sculture Cedric Bach – CEN.Construction amministrazione Ars Longa coproduzione Le Grütli centre de production et de diffusion des Arts Vivants, L’Arsenic – Lausanne con il supporto di Fondation Ernst Göhner, Fondation pour les interprètes suisses (SIS), Loterie Romande progetto realizzato con il supporto di Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia

MAGIC MAIDS (Eisa Jocson, Venuri Perera)

Colpisce la capacità di queste artiste di tenere insieme un’atmosfera ironica e la necessità di far emergere un tema sul quale per una volta la relazione con il pubblico occidentale e borghese non è per niente scontata. Magic Maids punge dal vivo su qualcosa che riguarda molte famiglie e persone benestanti, ovvero la presenza delle domestiche, donne sempre pronte a sorridere, a pulire e riordinare le nostre case con capacità quasi magiche. C’è un preambolo - come spesso succede qui a Santarcangelo - lunghissimo, 15 minuti di noia pura in cui le due performer si muovono nello spazio con le scope tra le gambe, ma ormai siamo esperti e attendiamo con pazienza l’accendersi della drammaturgia, intanto un sottofondo spiritico (il suono è di Soraya Bonaventure) accompagna i movimenti. Eisa Jocson e Venuri Perera (da La Unión, nelle Filippine) lentamente trasformeranno la ritualità di questo lentissimo incipit in una performance prima a metà tra la danza e il circo e poi in una narrazione che coinvolge apertamente il pubblico. Sul fondale della palestra dell’Itse Molari sono disposti tutti i loro strumenti: scope in saggina di vari tipi, ne useranno numerose, tutte insieme, trasformandosi nell’immagine della dea Kali (in scena c’è anche un tavolo con un’immagine religiosa). Shrilankese e filippina sono i due nomi con cui vengono riconosciute le domestiche: chi di voi ha una shrilankese? E il pubblico italiano di fatti non capisce subito; la platea, disposta su tre lati, si diverte ma il gioco è nella forma (come nella seduzione degli sguardi e dei vestitini sexy utilizzati), anzi è il pubblico ad essere giocato, perché le due artiste con un finissimo lavoro drammaturgico (oltre alle abilità fisiche e tecniche, e al lucido pensiero sullo spazio scenico) arrivano persino a raccontare di donne sparite o uccise dai propri datori di lavoro. Eppure in ballo non c’è solo il nostro senso di colpa: Jocson e Perera fanno luce su un’umanità che si prende cura di un’altra umanità, che vende il proprio tempo, la propria fatica e i propri sorrisi a chi può comprarli. (Andrea Pocosgnich)

ITSE Molari, Santarcangelo Festival. Ideazione, creazione, drammaturgia, performance Eisa Jocson, Venuri Perera suono Soraya Bonaventure luci Ariana Battaglia consulenza artistica Rasa Alksnyte, Tang Fu Kuen consulenza testuale Ruhanie Perera consulenza spirituale Nenet Ocson Babaylan-Vaigaland presenza creativa Arco Renz supporto drammaturgico Anna Wagner, Alexandra Hennig supporto produttivo Sandro Lunin produzione Katja Armknecht, Anne Kleiner management produzione Greta Katharina Klein produzione tecnica, distribuzione Yap Seok Huila cultura Pro Helvetia

#COLLE BRIANZA

IL GIARDINO DELLE ESPERIDI FESTIVAL

C’è una residenza al centro, su una piccola piana in mezzo ai monti, attorno c’è la natura diffusa e generosa della Brianza che diventa, per due settimane ormai da ventuno estati, luogo dell’arte. È qui a Campsirago che si svolge Il Giardino delle Esperidi Festival, azione permeabile tra umano e montano, discesa dell’uno tra le pieghe, le cavità dell’altro. Michele Losi, direttore artistico, gira con un bastone, simbolo del passaggio di tempo e spazio tra i sentieri di montagna. E l’arte si muove allo stesso modo, attraversa luoghi e così scandisce momenti, affronta l’alba e il tramonto, il giorno e la notte, scendendo ogni volta a patti con la condizione che la natura offre e ci si innerva dentro, nel silenzio magniloquente dell’ampiezza. Spettacoli di teatro o danza, performance site specific, attendono che lo spazio e il tempo permettano l’unione, perché sia assoluta la compenetrazione tra due opposti intendimenti della vita, tra ciò che resta – la natura – e ciò che non resta mai – l’arte. In questa edizione, scrive Losi, il nucleo di indagine principale è la transizione, dunque quello scambio tra un tempo e l’altro che conduce l’alba nel meriggio e poi nel tramonto, finché la notte non produca una nuova alba. Sono questi i momenti – dunque scansioni di tempo – che suggeriscono l’orientamento, ossia il cambiamento nello spazio. È proprio qui che la connessione tra umano e naturale si compie nella sua totalità, quando l’attraversamento del luogo è definito da apparizioni performative che delimitano una durata; poche parole pronuncia il monaco Zen, il giapponese Seigaku, che ha guidato il cammino rituale dall’alba al tramonto nel paesaggio, alla ricerca dei sette Chakra della montagna, ma in quelle frasi è raccolta l’energia di tempo e spazio: “Ogni passo è un dojo”, ogni passo è una dimora, potremmo tradurre, un luogo raggiunto e fatto proprio, un luogo che condensa in sé tutti i luoghi del mondo, il punto più avanti di tutti nel proprio cammino, che prende il nome di vita. (Simone Nebbia)

DJ SHOW TWENTYSOMETHING EDITION STUDIO (Sotterraneo)

Ma questo giornale scrive anche dei dj set? Ma che c’entra col teatro, la danza, la performance? Eh, dipende. Perché se a fare un dj set è il Sotterraneo, in occasione del ventennale della compagnia fondata appunto nel 2005, allora il discorso cambia e pure tanto. Con ordine, siamo a Campsirago al Giardino delle Esperidi Festival. Fino a qui tutto ok. Lì dove ci si aspetta qualcosa di intimo in mezzo alla natura dei monti brianzoli. E invece poi arriva la sera e la foresta scoppia sotto le casse del Sotterraneo. Ma veramente si balla? Certo che si balla, perché l’eco di tutto ciò che accade nel mondo è proprio nel ballo che si stempera, in ogni epoca seguendo mode diverse la pista è sempre stata piena di generazioni scalmanate e desiderose di leggerezza. Bene, questo sta scritto pure nei sussidiari. Ma il Sotterraneo – idea e regia di Sara Bonaventura, Claudio Cirri, entrambi anche in pista, anche se qui c’è Lorenza Guerrini, Daniele Villa cui tocca la scrittura e anche la consolle, con Marco Santambrogio alle luci – con questo Dj show Twentysomething Edition utilizza un compleanno per attraversare la storia a partire dagli anni Sessanta, cioè dall’epoca in cui l’aggregazione del divertimento, la ricerca di quella evasione dai problemi, ha generato un progressivo disinteresse dalle questioni del mondo, sempre meno visibili, o udibili, tra i decibel prodotti dalle casse in diffusione. Le voci (magnifici in scena Cirri e Guerrini), immerse nelle nebbie di fumo e nelle onde di luci della disco dance, guidano tra le hit di epoche diverse innervando in esse pensieri e ansie di ogni tempo (e questo, soprattutto), discorsi multiformi, stralci filosofici, catastrofi naturali o depravazioni dis-umane, compiono cioè lo sforzo di tenere insieme leggerezza e complessità senza rinunciare né all’una né all’altra, stimolando a una domanda sopra tutte le altre: si può fare cultura intellettuale attraverso un dj set? Siamo pronti ad accogliere entrambe le forme – il divertimento e l’impegno – contemporaneamente? Per saperlo bisogna immergersi in quella nebbia, lasciar andare e lasciar entrare, in un tempo solo, il dovere morale della conoscenza e la spinta mordente alla sua dispersione. (Simone Nebbia)

Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival. Crediti: creazione Sotterraneo; ideazione e regia Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Daniele Villa; con Sara Bonaventura, Claudio Cirri; scrittura Daniele Villa; sound design Simone Arganini, Mattia Tuliozi; luci Marco Santambrogio; sartoria Francesca Leoni, Sara Ottanelli; produzione Sotterraneo

UN PO’ MENO FANTASMA (Kronoteatro)

Raggomitolato a centro scena, Marcello aspetta di narrare la sua storia. E ciò è già determinante: questo personaggio delicato, nascosto nella propria fragilità, entra a contatto con il mondo attorno attraverso uno schermo protettivo che tuttavia, invece di preservarlo, lo espone; il contatto con altri umani non può che essere strampalato, preferendo la compagnia di chi rappresenta l’eccezione, mai la norma. Mediato è dunque l’approccio al mondo di Marcello, che vive nel corpo di Tommaso Bianco e nella penna di Tommaso Cheli e Francesca Sarteanesi, che cura anche la regia di questo Un po’ meno fantasma, con Kronoteatro per Il Giardino delle Esperidi Festival. Compresso nel buio attorno, il suo monologo vive nel costume rossoazzurro piumato, istrionico – di Rebecca Ihle – che lo avvolge, è quasi un supereroe di poche minuscole parole, un suberoe, si direbbe; per l’intero racconto se ne resta fermo, immobile a considerare la vita da un angolo di osservazione laterale, il suo punto di vista emerge come considerazione fuori sincrono, spesso fagocitata dalla prepotenza delle idee altrui. Sarteanesi e Cheli confermano una particolare vocazione nel racconto di storie nascoste o, più precisamente, nel racconto delle persone che in quelle storie stanno dentro; il talento di raccogliere piccoli elementi per mettere a fuoco i caratteri di un personaggio ben si accorda con l’interpretazione geometrica e controllata di Bianco, capace di mantenersi dentro Marcello con una cura e un’eleganza sorprendenti. A spezzare quella linearità che potrebbe apparire monotona, lo spettacolo è invece divertente e vivace nel dinamismo dei personaggi incontrati da Marcello, ognuno dei quali consegna, in dialetti sempre diversi, energici consigli che tuttavia il nostro lascia posare; sembra subire le azioni, quando non le reazioni, degli altri, sembra restare fermo mentre attorno le cose continuano a muoversi, ma Marcello sta solo rispettando la propria natura che gli altri non vedono, lo incitano a volare alto ma lui si sottrae, le sue ali sono minute, ma ci vuole talento anche a volare basso. (Simone Nebbia)

Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival. Crediti: Terzo capitolo del progetto triennale La libertà dei ciottoli; ideazione Tommaso Cheli; drammaturgia Tommaso Cheli e Francesca Sarteanesi; regia Francesca Sarteanesi; con Tommaso Bianco; scene e costumi Rebecca Ihle; responsabile tecnico Alex Nesti; supervisione progetto Maurizio Sguotti; produzione Kronoteatro; coproduzione Teatro Nazionale di Genova; con il sostegno di PimOff, Spazio ZUT!, L’arboreto/Teatro Dimora, Teatro Moderno di Agliana, Gli Scarti/Fuori Luogo

BARBABLÙ (regia Michele Losi)

Quando si dice il nome di Barbablù ci si mette paura, perché nell’immaginario che la storia consegna alla percezione, nelle varie versioni e fra tutte la più nota di Perrault, il personaggio porta un carico simbolico di grande effetto che riverbera la sua figura nell’assolutezza del male. Proprio per questo è oggi così utilizzato – ne è un esempio la campagna del gruppo Amleta dedicata alle violenze di genere nel mondo dell’arte scenica: Apriamo le stanze di Barbablù – per evidenziare il rapporto tra vittima e carnefice e così sensibilizzare su una piaga di crescente entità, nella società civile contemporanea. Nello spettacolo di Campsirago Residenza, diretto da Michele Losi sulla drammaturgia di Sofia Bolognini, la figura di Barbablù è in realtà un accenno esteriore, perché la narrazione si concentra su due testimoni, due fratelli, che conducono con la loro narrazione in tante stanze di diversi Barbablù, evidenziando proprio come il segreto, la natura silente della violenza, non faccia altro che amplificarla, renderla vasta, estrema. Due sulla scena, Benedetta Brambilla e Sebastiano Sicurezza, due parti di palco speculari delimitano le due testimonianze, tra il maschile e il femminile; un mangianastri spande musica da ballo e parti parlate, un microfono diffonde attraverso le loro voci concetti chiave come l’evocazione del trauma, la crudeltà, l’identificazione impossibile e vaga dell’Uomo Nero, la taciuta efferatezza della violenza domestica, la relazione avvelenata di preda e predatore, il destino di vittime che restano marchiate dal male. Due tendaggi di tessuto jeans definiscono le quinte dello spazio scenico, che poi compone stracci di vario taglio ad accumularsi sul palco. Solo in parte la tensione su cui si insiste rimane fedele lungo l’intero spettacolo, la narrazione per frammenti se da un lato permette un ritmo leggero, di contro concede molto in compattezza, così che la storia risulta essere meno fluida e forte. Tanti Barbablù per un male totale, un fucile da cacciatore è pericoloso solo se c’è l’umano a sparare: fosse dunque che dove c’è l’essere umano non può non esserci il male? (Simone Nebbia)

Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival. Crediti: regia Michele Losi; in scena Benedetta Brambilla e Sebastiano Sicurezza; drammaturgia Sofia Bolognini; scene e costumi Michele Losi e Annalisa Limonta; suono Luca Maria Baldini e Stefano Pirovano; luci Stefano Pirovano e Alessandro Bigatti; foto Alvise Crovato; video Luana Giardino; illustrazione Nina Losi; produzione di Campsirago Residenza

#PERGINE

SIAMO TUTTI IN PERICOLO (di e con C. Caldarano e S. Pivotti)

«Di cosa hai paura?». Più volte lo sguardo intercetta la domanda per le strade di Pergine durante la 50° edizione dell’omonimo festival diretto da Valeria Raimondi ed Enrico Castellani. Insinuante e rassicurante insieme, aleggia, appare e scompare fino a dipanarsi - in resa apparente - nell’ultimo appuntamento programmato. Sui due estremi della stessa diagonale stanno Pivotti e Caldarano: l’uno riverso a terra, il viso schiacciato al suolo, le braccia piegate sotto il dorso, l’occhio obliquo; l’altra seduta a gambe incrociate dietro una parete di libri, lo sguardo acceso, irrequieto, aperto. Claudia e Sandro stanno ai due poli della stessa inquietudine in cui risuonano il privato e il pubblico, l’intimo e l’universale. Lei si affanna, il suo corpo sente tutto, vibra attraversato da mille domande, cerca invano la quiete nelle parole di grandi intellettuali. Lui la osserva con la purezza spietata dell’amicizia, la incoraggia e la smaschera, la spinge a danzare dalla sua speculare, arresa immobilità. L’uno il contrappeso dell’altra, dialogano senza parlarsi, usando la platea come vertice di questa comunicazione indiretta, sotto l’ombra pasoliniana – evocata dal titolo e da quel corpo riverso a terra – ma sempre distanti da facili retoriche. Entrano ed escono da un dispositivo teatrale per corpo e parola, in viaggio attraverso il caos dello stare al mondo, in questo mondo, assediati dalla fine, intercettati da ogni bruttura, la speranza fagocitata dalla coscienza che più cresce e più dà spazio alla paura. C’è la morte, l’impotenza, il nulla nell’orizzonte fisso; c’è il dolore che agita e atterrisce; ci sono le convenzioni sociali, la deriva di un sistema capitalistico al collasso, l’inadeguatezza di una generazione. Ma c’è soprattutto la profonda umanità di questo sentire; ci sono le parole che leniscono; i legami, specchi spietati e trampolini di volo; c’è il teatro che ci tiene insieme e ancora lascia intravedere una possibilità di salvezza, amuleto contro la paura. (Sabrina Fasanella) Visto a Pergine Festival 2025 – prima nazionale Progetto di Claudia Caldarano. Di e con Claudia Caldarano e Sandro Pivotti. Accompagnamento drammaturgico Antonio Tagliarini. Collaborazione artistica Alessandro Brucioni. Disegno luci Luca Scotton. Produzione La Corte Ospitale, mo-wan teatro. Con il contributo di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna. Si ringraziano Michelangelo Bellugi, Astrid Casali, Alice Colla, Vittorio Continelli, Maria Novella Tattanelli, Mila Vanzini, Matteo Vitanza.Finalista Forever Young 2024 – La Corte Ospitale, selezionato da progetto CURA 2023, supportato da PARC Performing arts Research Centre Fabbrica Europa (Firenze) e Residenza Arte transitiva / officine CAOS (Torino). Finalista alla Biennale College Teatro Regia 2022 di Venezia

HO UN PEZZETTINO IN GOLA (di Valentina Dal Mas)

Valentina Dal Mas guadagna il palcoscenico col suo sguardo accogliente. Invita la platea a eseguire insieme a lei una coreografia di gesti minimi, consegnando l’alfabeto ancora indecifrabile della storia che racconterà. In quei piccoli gesti è condensata l’avventura di Rosalinda, una bambina che dal lavandino del suo bagno affronta un’impresa decisiva: fare amicizia con le proprie emozioni. È un’avventura difficile: si tratta di rimuovere gli ostacoli per riuscire a far corrispondere quello che di buono si ha dentro con ciò che si esprime all’esterno. Molto più facile è far parlare il disagio, la paura, la rabbia: sentimenti che agilmente trovano la via per esprimersi e aggredire il mondo come vampe di fuoco. Dal Mas, attrice e danzatrice dall’espressività delicata e fresca, costruisce un racconto per corpo e parola, cucite insieme in una coreografia reciproca; il gesto minuto delle dita che percorrono il corpo accompagna un racconto verbale evocativo e ben scandito. Le parole incedono su un preciso ritmo sincopato, come se ognuna, faticosamente conquistata, risalisse a singhiozzi per poi precipitare dolcemente, cullata dal gesto. Il corpo partecipa, sostiene questa conquista, prende confidenza con lo spazio, ne allarga i confini. I personaggi che animano la storia appaiono in vortice, accerchiando la piccola protagonista, stimolando nel bene e nel male i suoi movimenti interiori. Un linguaggio semplice e poetico tratteggia l’orizzonte della bambina e del mondo adulto che la circonda, inadatto ad aiutarla davvero, forse troppo cinico o disilluso. Armata di uno spazzolino da denti e di un phon, Rosalinda troverà da sola il modo di liberarsi, non distruggendo ma abbracciando quel suo “pezzettino in gola”, facendoselo amico e complice. Presentato in prima nazionale al Pergine Festival, questo lavoro pensato per le nuove generazioni si rivela una visione commovente, dolorosa e liberatoria anche e forse soprattutto per il pubblico adulto. (Sabrina Fasanella)

Visto a Pergine Festival 2025 – prima nazionale Di e con Valentina Dal Mas. Produzione La Piccionaia SCS

#INEQUILIBRIO (Castiglioncello, Rosignano)

L’AVVENIRE (Silvia Rampelli/Habillé d’eau)

Al festival Inequilibrio 2025 di Castiglioncello si conferma, pur se da più parti messa in discussione, la buona salute invece della danza italiana di ricerca, da Silvia Rampelli a Elisa Sbaragli, a Elena Giannotti e Daniele Ninarello. Come pensare l’avvenire? Come una roccia sulla quale resistere, lo scoglio senza riva che salva e condanna. O come un transito, un radar, che rileva e segnala, senza nulla fermare. L’avvenire è sempre un esercizio di attesa, piú che di compimento: per Silvia Rampelli/Habillé d’eau, che sta lavorando attorno a questo mot clé, quel che alla fine appare e resta, si fa riconoscibile perché atteso in tutto il suo potenziale. È lo splendore dell’inatteso, che è tale perché già sempre qui. Di fronte a noi, eppure così pieno di dubbi, di questionamenti. In tanto domandare (che è anche richiedere) poi qualcosa accade, sempre, senza ricatti. Nel materiale, nel corpo. Senza vertigini di profondità. Senza messaggi pubblicitari. Dunque, senza falsità. Si tratta di L’avvenire portato in scena da Rampelli nei corpi di Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna e Stefania Tansini. L’avvio è dei corpi, immobili come statue esibite, e il pubblico che entra dal palco per un teatro di spettatori invisibili: è l’assenza della platea che poi ci inghiottirà. Quattro presenze sedute a specchio, le mani in grembo poi sulle gambe, si cercano come per consegnarsi nella tensione all’attesa. Non è un esorcismo, ma una lenta pulizia delle posture, dei corpi. Seguono quattro assoli incastonati in una drammaturgia di sguardi e di intese che provano, in una successione di rimozione e di vuoto, un tempo qualitativo: quindi Cristiani si incurva, scende a terra e succede in sedimentate torsioni; Chiocchini lavora sulla distanza sotto la lunga chioma che sembra contorcere il tempo; Tansini è invece piena di slanci, in una anatomia quasi dissolta, senza centro, per linee spezzate e vibrate in una attenzione che abbaglia, in una precisione che risplende. Poi Sirna, che costruisce figure in posa dietro cui sparire, per sottrazione, per dissoluzione (il lavoro compiuto debutterà a Short Theatre). A Inequilibrio 2025, storica rassegna della nuova scena che si svolge a Castiglioncello, la danza è curata con vero ardore da Angela Fumarola. La sua fedeltà all'opera di Rampelli in fondo ci insegna come, pur tra mille difficoltà, la più vera curatela è questa fiducia e fedeltà negli artisti( Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Nardini di Rosignano. Ideazione e regia Silvia Rampelli danza Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna, Stefania Tansini luce Gianni Staropoli suono Tiago Felicetti produzione Tir Danza con il sostegno di Fondazione Armunia / Festival Inequilibrio residenza artistica nell'ambito del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo residenza artistica spazioK.Kinkaleri - Centro di Residenza Regionale ringraziamenti Societas Teatro Comandini

I OFFER MY SELF TO YOU (Daniele Ninarello)

Daniele Ninarello nel mirabile Anfiteatro Giuliano Scabia ha presentato un breve trittico (non recente, del 2021, in risposta al Covid) che non avevo ancora intercettato, dal titolo I offer myself to you. Si compone di tre lavori, di suggestioni istruzioni e consegne a Ninarello da parte di Alessandro Sciarroni, Elena Giannotti e Cristina Donà. Preceduti da una corrente di performer addestrati nel laboratorio del pomeriggio, dal piazzale di lato al Castello Pasquini fino all’anfiteatro, un flusso di presenze incarnate ci hanno letteralmente attirato con una moltitudine di visioni. Ecco cosa può un festival: riconsegnare allo sguardo lavori altrimenti mancati; fare del suolo urbano uno spazio di presenza e accoglienza, non più solo di transito. Ninarello sul palco, in una espressione che sembra sempre rannuvolata, un po’ biascica sgranando gli occhi, un po’ ruota il collo in cerca di pieghe e feritoie nell’aria, di certo per far passare senza svelare la consegna di un segreto taciuto da parte di Sciarroni. Nel secondo brano, Giannotti invece ha consegnato istruzioni non lineari e con molte limitazioni affinché il movimento sposti volumi e colmi ogni disparità; qui la danza è bellissima, si chiude con le mani sulla parete di fondo che scivolano in una corrente che libera e dissolve. Per il terzo, Donà ha consegnato a Ninarello una lettera su «come placare il frenetico»: è una danza morbida e di riconciliazione, qui ogni distanza imposta e obbligante è cancellata e resa invisibile, tanto che nel finale il corpo lascia il palco libero alla sola voce registrata. (Stefano Tomassini)

Visto all'anfiteatro Giuliano Scabia. Coreografia e danza Daniele Ninarello scores Coreografia Cristina Donà, Elena Giannotti, Alessandro Sciarron produzione Associazione Culturale

SE DOMANI (di Elisa Sbaragli)

Elisa Sbaragli ha presentato, nello stesso spazio utilizzato per il lavoro di Ninarello, il compimento ultimo del suo progetto, Se domani. È un duo, e prova a congiungere due vite (in scena, due meraviglie: Alice Raffaelli e Lorenzo De Simone) che si ignorano in una cecità colpevole, in un movimento isolato e vuoto, come corpi esposti a una seduzione sempre autoriferita, a un egotismo senza sbocco, senza incontro. In tanta tensione qualcosa inciampa, cede, si piega forse al nulla di tanta distanza. E ciò che prima sembrava risibile, ora lentamente ma inesorabilmente si trasforma come potenza possibile nella prossimità fisica, nell’incontro tattile, nell’abbraccio consapevole e fermo. L’adesione alla presenza dell’Altro. Raffaelli è interprete sapiente, immensa, tutto le riesce con facilità e bellezza, ed è anche alla vista imprendibile per la forza delle sue ripartenze, per le decise distinzioni della sua gestualità. De Simone non subisce né insegue ma impone questa polarità scenica, questa differenza in tutta la sua vulnerabilità, che si risolve solo nell’accordo della fine. Più che ai due corpi, occorre guardare, in questo bellissimo lavoro di Sbaragli, alla crisi che essi stessi nel movimento mettono in campo: egoismi, personalismi, l’individualismo rivendicato come una gabbia del cuore. È un contagio, una contaminazione dello stare, l’interruzione di ciò che invece, grazie al movimento, sta per accendersi: la liberazione dell’altro dall’oppressione e dalla sovranità (che è dominio di una vita solo parziale) dell’indifferenza. (Stefano Tomassini)

Visto all'anfiteatro Giuliano Scabia Inequilibrio Festival. Coreografia Elisa Sbaragli danza Lorenzo De Simone e Alice Raffaelli dramaturg Eliana Rotella suono Edoardo Sansonne direzione tecnica Fabio Brusadin costumi Chiara Corradini cura e promozione Marco Burchini produzione Tir Danza con il sostegno di Citofonare PimOff, HOME Centro Creazione Coreografica 2023/Perugia progetto residenze di Dance Gallery, Sosta Palmizi, Cross Project, Anghiari Dance Hub, Teatro della Contraddizione, Scintille - Festival delle Arti Performative, ArtGarage

#NAPOLI

SARAJEVO (di B. Di Carlo e M. Gelardi)

A pochi giorni dal triste anniversario del massacro di Srebrenica, pronunciare la parola Sarajevo per chi c’era negli anni Novanta ha un sapore amarissimo, perché non si può non andare con la mente ai numerosi massacri dell’epoca più recente. Ma la storia è storia, e come tale produce conseguenze. Una delle meno considerate è per esempio il destino di bambini e bambine accolti in Italia, perché avessero una casa, una famiglia, una parte di ciò che avevano perduto in guerra. Di questo si occupa Mario Gelardi con Sarajevo, testo scritto con Biagio Di Carlo in scena alla Sala Assoli per il Campania Teatro Festival, con Giovanna Sannino, Luca Ambrosino e Francesco Ferrante. C’è un albero sulla scena, le cui fronde sovrastano una panchina solitaria e sono proiettate dalla luce sulla parete di sfondo; attorno alla panchina un ragazzo, si chiama Gabriele, è nervoso e attende suo fratello Davide e, forse, sua sorella Anna; non vede entrambi da tempo, perché ha deciso di partire e non è tornato neanche per il recente funerale del padre, lasciando che fossero gli altri due e la madre a occuparsi di tutto. Ma Gabriele ha un segreto che riguarda la propria infanzia, lo ha scoperto parlando con sua madre, fotografa di guerra che subisce ora gli effetti della violenza catturata in tanti anni di lavoro, vittima di aver visto troppe vittime. I rapporti sono tesi, c’è una rabbia graffiante che lega soprattutto Gabriele e Anna, mentre Davide fa di tutto per mediare; emergono i rapporti pregressi, via via gli eventi che hanno portato alla fuga di Gabriele. Tra i fratelli c’è una forte difficoltà al contatto fisico, ma l’intensità della luce ora violacea ora aranciata e della musica di pianoforte li avvicina. Pur se spesso i dialoghi girano attorno senza trovare il punto, pur se i personaggi faticano a evolvere da una condizione iniziale (eccezion fatta per la ragazza interpretata da Giovanna Sannino, la cui recitazione è molto convincente), Gelardi ha il merito di aver scavato nella storia recente un’urgenza polverosa e poco nota da portare agli occhi di una contemporaneità assuefatta al dolore. (Simone Nebbia)

Visto alla Sala Assoli. Crediti: scritto da Biagio Di Carlo e Mario Gelardi; con Giovanna Sannino, Luca Ambrosino e Francesco Ferrante; scene Di Enzo Leone; luci Alessandro Messina; costumi Giulia Contrastato; aiuto Regia Maky Montella; regia Di Mario Gelardi; produzione: Nuovo Teatro Sanità

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