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domenica 28Aprile 2024
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 | Cordelia | giugno 2023 

 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di giugno è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#PANTIN (FRANCIA)

RELIC (di Euripides Laskaridis)

Straordinario e travolgente, il greco Euripides Laskaridis ha presentato, allo Studio 3 del CN D di Pantin, il suo famoso assolo Relic (2015). Una figura trasfigurata nell’anatomia da gommapiuma e larghe protesi, interamente fasciata di collant, abita la scena non come l’utopia di un corpo futuro, ma come reliquia, relitto, retaggio, se non addirittura cimelio, di qualcosa che sopravvive e resiste dal passato: «A thing left behind, be it memory, object, language or being». Questa cosa ‘lasciata indietro’, che come la morte livella ogni gerarchia di valori fra parole, cose ed esseri viventi, torna neo-zombie in un processo trasformativo di resistenza al tempo della cancellazione e dell’indifferenza. E sembra non dover rispondere a nessuno, talmente alto è il mimetismo con il circostante, la presa sulla forza del passato. È un lavoro generato come risposta alla crisi greca di quegli anni, e mette alla prova i confini di ogni norma contro le ideologie rassicuranti sulle sorti progressive del futuro. L’atmosfera domestica di una casa (con tanto di pianta salottiera e wc neoclassico) qui viene letteralmente fatta saltare. Con i mezzi del cabaret e del vaudeville, in una fisicità sfrontata piena anche di humor nonmeno che di (finti) pudori, tutti da primo piano, come una sacerdotessa acrobata, una fattucchiera arcaica o una pitonessa da speculative fiction. Tutto è ribaltato, e riscattato, financo il tempo della vita. La performance di Laskaridis è piena di bizzarrie e anche di chincaglierie, di trovate in sequenza a disposizione di un immaginario domestico, da ‘teatro fatto in casa’, pure selvaggio, artificiale, per accumulo. Alla fine, l’impressione è che non manchi proprio niente. Quel che resta è già tutto quel che serve per destabilizzare dogmi e norme. Come nella retrotopia descritta da Bauman, andare a ritroso con il passato può trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. (Stefano Tomassini)

Visto al CN D (Pantin/Parigi). Director, choreographer, set designer and performer, Euripides Laskaridis; Artistic collaboration, Tatiana Bre; Dramaturgy consultant, Alexandros Mistriotis; Costumes, Angelos Mentis; Sound design, Kostas Michopoulos; Sound installation & live operation, Kostas Michopoulos, Giorgos Chanos, Nikos Kollias, Kostis Pavlopoulos.

JÉRÔME BEL (di Jérôme Bel)

È incredibile che siano passati quasi trent’anni. Faccio fatica a tenerne il conto (oggi, poi, che tutto ci ha segnato...). Jérôme Bel di Jérôme Bel, che è del 1995, è riapparso intatto, in tutta la sua forza (e retorica) nel programma del camping estivo del CN D di Pantin a Parigi. Il seminale lavoro di Bel, qui anche con due degli straordinari interpreti originari (Frédéric Seguette e Claire Haeni), risente della lettura di Le Degré zéro de l’écriture, e ammicca evidente al Barthes di Roland Barthes. Cinque corpi nudi fanno a pezzi le strutture verbali e i significanti che sorreggono il dispositivo teatrale, con l’uso soltanto di una lampada (con un effetto perenne di grotta platonica), la voce che solo canticchia (brani, credo, della Passione di Matteo) e la scrittura che designa (i nomi) e trasporta (i significati attraverso i significanti) anche per cancellazione (così della scritta JOHANN SEBASTIAN BACH non resta leggibile che ABBA, e sùbito parte Dancing Queen). La richiesta di una scena senza gerarchie estetiche e coercizioni culturali, la ricerca inesausta di un neutro possibile (ma che resta simbolico) capace di giustizia, è sapientemente inseguito (e assorbito) non senza l’uso di forti metafore e inevitabili allegorie. Tuttavia ciò che maggiormente, alla fine, sorprende in questa evidenza tutta ragionamento sul come e sul cosa dei meccanismi della performance, riconosciuti e smontati ed esposti, è che non crea nostalgia alcuna. L’ultimo interprete compare in scena di tutto punto vestito, per partecipare al meccanismo che lo celebra, giusto il tempo per gli altri performer di uscire di scena, e lasciarlo solo, per gli applausi finali. Dopo trent’anni, tutto accade di nuovo ma nel tempo allenato della memoria, senza l’oblio necessario al sentimento della nostalgia. Come per quei saggi critici, fondamentali e formativi, che una volta bene assimilati e resi operativi, alla rilettura risultano poi freddi e frenanti, incapaci di deriva. (Stefano Tomassini)

Visto a Les Laboratoires d’Aubervilliers (Pantin). Crediti: di Jérôme Bel, con Éric Affergan, Yaïr Barelli, Michèle Bargues, Claire Haenni, Frédéric Seguette.

#ROMA

DOVE HANNO TREMATO LE PLACCHE (di Valerie Tameu)

Valerie Tameu, autrice e performer italo camerunense, spiega il processo di Dove hanno tremato le placche, mentre si asciuga il sudore, riprende fiato, in dialogo con la studiosa e ricercatrice Ilenia Caleo che, rispettosa del tempo di “ritorno alla realtà” a fine performance, inizia a impostare l’esaustivo talk tenutosi tra i "resti" splendenti di questa prima apertura del lavoro; prodotta da Spazio Griot e ospitata al Mattatoio La Pelanda, dove martedì si è conclusa la rassegna Rifrazioni curata da Johanne Affricot. «Quando ho iniziato a disseminare le foto di famiglia per casa, mi sono resa conto che avevo già riempito tre stanze». L’indeterminatezza fluttuante propria alla natura della performance è qui “vestita”, letteralmente, dalla concretezza delle azioni e dalla tangibilità degli oggetti: l’archivio di blackness sulla storia della migrazione della famiglia di Tameu viene incorporato, prima indossandolo – la performer si aggira sui pattini ricoperta di strati di vestiti trovati negli armadi – e poi spogliandosene, per iniziare un gioco di memory con quelle stesse foto posate sul tavolo, poi sul corpo, viso, capelli. «La componente visiva dell’archivio non bastava, dovevo poterla maneggiare, perciò l’inserimento del sonoro è stato determinante per creare una narrazione del materiale». Tra i suoni, sia gli estratti documentari dell’omicidio di Jerry Essan Masslo (1989), che diede rilevanza mediatica alla violenza razzista e allo sfruttamento imposto dal caporalato nel Sud Italia, che quelli delle lotte operaie alla Fiat Mirafiori. Riprendendo il titolo, le placche tremano: la geografia delle stratificazioni di memoria, come quella terrestre, muovendosi giustappone archivi personali e collettivi in un’opera di costruzione e decostruzione compiuta dalla performer che, con il tocco deciso ma delicato di una racchetta da tennis, attiverà un effetto domino in grado di disintegrare il monumento/monolite rifrangente al centro della scena. (Lucia Medri)

Visto a Rifrazioni Spazio Griot Crediti: di e con Valerie Tameu, frutto della residenza artistica di SPAZIO GRIOT in collaborazione con Fondazione Polo del '900, Foto di Andrea Pizzalis

LA MANO SINISTRA (di Industria Indipendente)

Secondo l’inveterata tradizione, canonizzata nel Vangelo di Marco (XXV, 32) il Figlio di Dio siede alla destra del Padre. Lì, pare, la realtà si offre particolarmente nitida allo sguardo, tanto da poter sentenziare “E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra” e ancora “[…] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. A sinistra, dunque, le fiamme della dannazione, fragore di corpi e anime liquefatte, lo scarto magmatico di una pulsione ordinatrice che, appunto, discrimina, segrega. Immaginiamo un paesaggio dove ogni cosa, liquefatta com’è, potrebbe sconfinare anche in altro. Industria Indipendente, aka Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, riparte dalla progettazione di un paesaggio eccentrico, disegnato con La mano sinistra, quella del demonio, così come lontano da ogni centro era quel locus remoto di Klub Taiga, un po’ club, un po’ distesa boreale. Ci troviamo in sala come a sbirciare nella penombra alla fine di una festa, quando alcun* si ostinano a bisbigliare e ondeggiare fuori orario, mentre i più hanno svuotato lo spazio. In quell’atmosfera da balera anni ’70, densamente kitsch e misteriosa, un impasto di luci e suoni domina il linguaggio, distorce la vocalità, ubriaca il movimento. Quella de La mano sinistra non è una scrittura sopra le righe, né tra le righe, piuttosto è una pagina squassata, un palinsesto murale underground dove ogni autorialità è complice nello squattare l’architettura scenica. Come epifanie intermittenti si stratificano la coreografia trasognata di Annamaria Ajmone, la scrittura ipnotica di Galli e Ruggeri, il sound immersivo e straniante di Ruggeri, Iva Stanisic e Steve Pepe, le architetture luminose sempre impeccabili di Luca Brinchi, la presenza magnetica di Silvia Calderoni, ringmistress immaginifica e suadente. Echeggiando parole e metodi di Klub Taiga, La mano sinistra non ne costituisce però un secondo capitolo, così come non si danno indice e sinossi nei sogni, piuttosto un B side, che ricopre la stessa superficie del lato A, è fatto della stessa materia, ma emana un suono diverso. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro India. Testi e regia Industria Indipendente (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri); arrangiamenti musicali Steve Pepe, Iva Stanisic, Martina Ruggeri; luci e video Luca Brinchi, Erika Z. Galli; con Annamaria Ajmone, Silvia Calderoni, Martina Ruggeri, Iva Stanisic

#NARNI

IO ERO IL MILANESE (di Mauro Pescio)

Accade raramente, ma accade quando la purezza e la genuinità di un racconto oltrepassano gli strumenti necessari a diffonderlo. Perché Mauro Pescio, autore del podcast Io ero il milanese, appena premiato come documentario dell’anno e che vanta oltre due milioni di ascolti, avrebbe potuto godersi questi frutti e invece ha scelto ora di adattarne una versione teatrale, non per spremere la materia finché si può, ma perché questa storia ha bisogno di presenza, ascolto dedicato, vicino. Insomma, di teatro. È una storia di criminalità che il protagonista, incontrato la prima volta nel carcere di Padova, racconta liberamente: il podcast è reso in frammenti, Pescio lo dirige dal palco e, aiutato da alcuni disegni proiettati sul fondale, commenta, determina, approfondisce quanto la viva voce off di Lorenzo S., questo il nome, può esprimere della propria vita. Si genera presto una partecipazione nel pubblico, offerta dalla forma dialogica, che permette di essere, sentirsi, dichiararsi presenti mentre gli avvenimenti si stringono attorno al protagonista. Io ero il milanese, il verbo è declinato all’imperfetto. Questa è infatti una storia da dopo, raccolta in un tempo in cui Lorenzo, che assunse il titolo onorifico criminale de Il Milanese, ha già compiuto i passi necessari all’emancipazione da una vita rimasta alle spalle; e con essa la reclusione, le conseguenze nefaste che le scelte – o non scelte – hanno determinato. In precedenza il senso di avventura, l’ebrezza, l’adrenalina del gesto criminale lo hanno nutrito, tanto da fargli accumulare una lunga punitiva condanna, finché grazie al lavoro, l’amore, la solidarietà, così come proprio la fiducia nel racconto, tutto è cambiato. Ma questa non è una storia morale, nel definire gli eventi della vicenda l’intenzione di Pescio è ben lontana dal giudizio su uno stile di vita, quella del protagonista più che una redenzione è l’effetto di una crescita interiore che, nata dall’odio per sé stesso, per sé stesso ha scoperto l’amore.(Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di Mauro Pescio e Lorenzo S; con Mauro Pescio; grafiche di Lorenzo Terranera; produzione Raiplysound

MOLTO DOLORE PER NULLA (di Luisa Borini)

Ha un abito rosso, semplice, che le cade giù sul corpo; sembra un abito per un appuntamento senza troppe aspettative, o per mille appuntamenti diversi e tutti uguali, in cui essere bella, avere l’ansia, portare pene e disordini e incontrarsi con qualcuno che possa, chi lo sa, fonderli insieme. L’attesa di un appuntamento, sembra questa l’immagine entro cui inizia il Molto dolore per nulla di Luisa Borini: lei sola in scena, circondata di led e di tutti quanti gli uomini che ha incontrato e che presenta in una lista, seguendo un ordine da stand up comedy, attraverso una recitazione frontale, divertita, che fa partecipare la platea al proprio disagio, corredando la propria narrazione sulla “lista di fidanzati” con estratti di canzoni celebri che ricalcano uno stereotipo amoroso. Eppure, tra le mani ha un microfono con il filo. Ed è allora che tutto cambia. Il racconto brillante pian piano le si stringe attorno con il filo del microfono, è ciò che le dà la parola ma allo stesso tempo è l’elemento che la incatena: l’incontro con il fratello del suo coinquilino di Bologna, un ragazzo incredibilmente bello, interessante, avventuroso, premuroso, ma che via via si trasforma in un mostro che le toglie dignità e libertà di essere sé stessa, che la convince di essere una nullità, annienta le sue necessità accecato da una gelosia soverchiante. La leggerezza della prima parte, dunque, non è che una deviazione illusoria rispetto all’obiettivo finale: l’amore può trasformarsi nel suo opposto e raramente ci si accorge mentre accade, o forse sì, ma per vergogna si nega. Borini, al primo testo e prima regia, interpreta una storia semplice, diretta, capace di una linearità strutturale, che di certo è alla ricerca di una approvazione e ciò mitiga un necessario conflitto scenico, ma pur timidamente appare una riflessione che sembra il punto nodale: tra essere e sentirsi sbagliata c’è anche la scoperta sorprendente del proprio ruolo in una storia in cui si è vittima ma in cui, allo stesso tempo, è tanto difficile accettare la propria responsabilità. (Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di e con Luisa Borini

#MILANO

L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA (di Emanuele Aldrovandi)

In un tempo pressoché indefinito e dalle tonalità neutre, ma così simile al nostro, un’epidemia virale che trasforma gli esseri umani in tacchini costringe l’umanità all’isolamento domestico. Salvo emergenze eccezionali e mansioni quotidiane necessarie, a nessuno è consentito uscire dal proprio confine abitativo, nemmeno per un po’ di jogging. È questo l’ingranaggio che aziona la macchina scenica e drammaturgica del lavoro di Emanuele Aldovrandi: il cortile interno di un palazzo, rievocato negli ambienti metallici di Francesco Fassone al pari di una cella, è il luogo di scontro tra le posizioni morali di un colorito vicinato. L’opposizione tra coppie, Mario e Andrea, Giulia e Anna, è lo strumento di innesto tra i dialoghi, che pongono la questione sul rispetto delle norme, sul bene pubblico, sulla fine del mondo, sulla speranza nel futuro. Le conversazioni tra i condomini si sviluppano così attraverso una verbosità schietta e concitata, tramite incastri di domande-risposte e si susseguono nell’evocare riflessioni, immagini, parole di un lessico che rivela soprattutto il suo sostrato traumatico (contagio, positivi, restrizioni). La scrittura apparentemente semplice di Aldovrandi, ma in fondo di una complessità rara e precisamente calibrata, chiede però allo spettatore di prendere parte a questo dibattito, perché testimone “neutro” delle argomentazioni trattate. E lo spettatore - che siamo noi in sala, noi che quelle fratture di moralità e pensiero le conosciamo bene, noi che quel periodo di isolamento l’abbiamo vissuto sulla pelle - finisce per immedesimarsi, cambiare punto di vista, facendo vacillare la propria presa di posizione, comprendendo la problematicità delle riflessioni di ognuno. È chiara, qui, l’intenzione dell’autore e regista di raccogliere le diverse visioni e di «spingerle alle loro più estreme conseguenze, non de-costruendole col tipico approccio post-moderno, ma piuttosto iper-estendendole, fino al punto di rottura, o al paradosso». E nel paradosso, abitando nuovi confini, queste visioni respirano e sopravvivono, anche alla inevitabile trasformazione collettiva di uomini in tacchini. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: testo e regia Emanuele Aldrovandi, con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi, con la partecipazione vocale di Elio De Capitani

#POLVERIGI-Speciale Inteatro Festival

Speciale Inteatro Festival 2023

Da decenni Villa Nappi è il cuore della ricerca performativa marchigiana: spazio residenziale e apertura internazionale con lo storico festival Inteatro. Alle spalle c’è il tric, Marche Teatro, diretto da Velia Papa che nella rassegna estiva vede la possibilità di sperimentare i nuovi linguaggi anche attraverso le visioni e le poetiche di giovani artisti. Quest’anno ad esempio Inteatro ha aperto un bando dedicato ad opere site specific che incontrassero il tema della salvaguardia ambientale. Lo spazio pubblico all'aperto si è così popolato di immagini, corpi, scritture coreografiche in cerca di una relazione con il parco che circonda la villa ottocentesca. E poi il Teatro della luna, spazio scenico atipico per nascita e conformazione: la struttura ricorda quella di un palazzetto dello sport (con l’ultima ristrutturazione hanno sistemato dei pannelli fonoassorbenti che scendono dal soffitto come una sorta di installazione permanente) e fu costruito nel 1982 con la collaborazione del Teatro Valdoca, all’epoca giovane compagnia.

ULTRA (di Nicola Galli)

Di Nicola Galli avevamo scritto parlando di quello spettacolo prezioso che era Il mondo altrove. Nel panorama della giovane danza contemporanea italiana (o del teatro fisico) Galli si contraddistingue per una ricerca improntata anche alla creazione artigianale (per il lavoro precedente si pensi alle maschere e agli oggetti, oltre che allo spazio scenico) che in questo nuovo Ultra si manifesta in un paesaggio total black. Una sorta di ghiaia nera ricopre il palcoscenico del Teatro della Luna, per lunghissimi minuti l’unica azione è rappresentata dall’accendersi e spegnersi di alcune luci emananti da alcuni parallelepipedi bianchi, piccoli totem lucidi. Poi lentamente quelli che sembravano due dossi di un paesaggio montuoso in miniatura cominciano a muoversi: sono umani? Lo sono ancora? Sentiamo respiri affannati, come se provenissero da uno scafandro sott'acqua. Sono i due abitanti di un mondo nuovo e senza speranza, strisciano, combinano le proprie figure diventando altro; prima di raggiungere una posizione eretta possono sembrare due vermi. In questo caso Galli (in scena insieme a Massimo Monticelli) non utilizza la maschera ma non rinuncia a negare l’esposizione dei volti al pubblico. I due si muovono, lentamente, ripetendo gesti e posizioni, dentro a dei costumi neri che sembrano spesse tute aliene, con un copricapo da cui discendono lunghe treccine nere. Nonostante una certa fatica nella parte centrale, il lavoro d’altronde non concede snodi narrativi e la coreografia non sempre sorprende o suggestiona, vi è una una forza visiva e installativa notevole. Ultra interroga lo spettatore proprio attraverso l’assenza di parole e segni con cui spiegare e fare chiarezza. La visione di Galli - al di là del pessimismo - è spietata e misteriosa. L’artista emiliano è il creatore di un teatro di enigmi e in questo caso non ci sentiamo spettatori di fronte a una distopia fantascientifica: quel magma nero è il nostro futuro, quegli esseri ultra-umani che si muovono come vermi sotto terra siamo noi, se continueremo a non prenderci cura di ciò che ci circonda. (Andrea Pocosgnich

Teatro della luna, Inteatro Festival 2023. Concept, regia e coreografia Nicola Galli danza e creazione Nicola Galli, Massimo Monticelli allestimento e luci Margherita Dotta, Nicola Galli dramaturg Giulia Melandri

WORK.TXT (di Nathan Ellis)

Era da un po’ che non si vedevano spettacoli di teatro partecipativo, vera e propria moda per qualche stagione fino a 4,5 anni fa. Allestita nella versione italiana per la prima volta da Marche Teatro, l’idea del regista britannico Nathan Ellis parte da un presupposto simile a quello visto nella Conferenza degli assenti di Rimini Protokoll, non ci sono attori, gli spettatori devono dare voce alla drammaturgia. Le istruzioni, come fossero delle didascalie, appaiono sul fondale: i livelli di interazione sono due, uno più semplice e immediato, il pubblico dai propri posti deve leggere le battute che appaiono, oppure uno più rischioso nel quale viene chiesto a dei volontari di salire sul palco e leggere al microfono o ripetere quello che ascoltano grazie a delle cuffie. Ora, è chiaro che la croce e delizia del teatro partecipativo, lo abbiamo scritto altre volte, è in quella variabile umanissima rappresentata da chi vi partecipa. Uno degli spettatori darà il nome al protagonista, nella nostra serata si chiamava Filippo, la vicenda prende le mosse da un gesto di opposizione passiva di Filippo, il quale durante una giornata lavorativa, nel proprio ufficio, a un certo punto si sdraia in terra rimanendo in quella posizione per sempre. C’è qualcosa di Calvino e del suo Barone, ma soprattutto nel gesto c’è un rimando alla questione lavorativa che è tornata al centro del dibattito internazionale con la pandemia. Il testo è infatti la qualità migliore di uno spettacolo che risulta però teatralmente troppo esposto alla capacità del pubblico di organizzarsi. Al debutto ad esempio la voglia di partecipare era tale da risultare scomposta, con sovrapposizioni e rallentamenti; in questi casi il rischio “Corrida” è dietro l’angolo. Peccato, perché la drammaturgia nel finale ha mostrato ancora una volta qualità poetiche e ironiche, con il racconto di un tempo infinito trascorso dopo l’azione di Filippo, un tempo in cui viene scandito - sempre con la tecnica della didascalia proiettata sullo schermo - il passaggio di migliaia e milioni di anni; Filippo non si sarà mai rialzato e intanto l’universo avrà fatto a meno degli esseri umani.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. Scritto e diretto da Nathan Ellis prodotto da Eve Allin produttore originale Emily DavisPer la versione italiana produzione Marche Teatro Crediti e cast completi

Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro (Alessandra e Roberta Indolfi)

Dopo aver visto la breve performance ripensata per uno spazio all’aperto di Villa Nappi si rimane abbastanza sbalorditi nel sapere che Alessandra e Roberta Indolfi hanno non più di 22 anni. Sono gemelle, vengono da Monopoli e ogni tanto rischiano di rispondere insieme, hanno le idee chiare e probabilmente andranno all’estero per approfondire la loro formazione cominciata, per la danza, con il triennio della Paolo Grassi. Avevano già presentato questa performance a Dominio Pubblico, il festival romano dedicato agli under 25; a Polverigi hanno potuto condividere il programma con artisti più esperti, confrontandosi con visioni, attitudini e poetiche differenti. Di fronte a “Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro. il pubblico è attento e suggestionato, da un’atmosfera tesa e inquietante nella quale i due corpi identici si incontrano entrando e uscendo dalle aperture laterali per creare il più classico degli effetti illusionistici, poi il gioco sul doppio rimane, ma si affina. Lo spazio attorno diventa scenico nel momento in cui le due performer cominciano a utilizzarlo: una in bilico supina su una ringhiera, l’altra a corpo morto su un cancello. In shorts e top monospalla bianchi, un viso che non tradisce emozione se non quel filo di perturbante inquietudine negli occhi. Si alza un  po’ di polvere, si sente il rumore della ghiaia che scricchiola sotto ai piccoli e veloci piedi delle gemelle, si scambiano di posizione, una delle due fa una smorfia, mostra i denti prima di dare il là a una veloce partitura coreografica.Nel finale la relazione tra i corpi, a tratti simbiotica, a tratti complementare, esploderà in una tensione quasi violenta e le due stringendo con forza l’una i pantaloncini dell’altra, cominceranno a spostarsi verso l’uscita della villa. Noi in lontananza vedremo una danza che diventerà una lotta inquadrata in un campo lungo cinematografico; verrebbe voglia di seguirle, ma l’immagine si staglia, grazie alla lontananza, con efficace pervasività su un paio quasi surreale.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. coreografe ed interpreti Alessandra e Roberta Indolfi musica Undular – Caterina Barbieri drammaturgo Diego Pleuteri

#CASTROVILLARI -Speciale Primavera Dei Teatri

I GRECI, GENTE SERIA! COME I DANZATORI (Quotidiana.com)

Quattro minuti di silenzio, le braccia immobili e tese in avanti: “stavo pensando”, dice infine Roberto Scappin, sussurrando. Un’immobilità energica che racconta la fatica del pensiero senza prenderla sul serio: è la sintesi estrema dell’ultimo lavoro dei Quotidiana.com, che debutta a Primavera dei Teatri dopo aver vinto il Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2022. La cifra del duo romagnolo è sempre riconoscibile: arguta abilità di un dire flemmatico che trasfigura la densità del pensiero in leggerezza devastante. Qui il corpo, impegnato in una coreografia esistenziale a velocità 0.20x, gareggia con la parola; mentre questa rimbalza tra Scappin e Paola Vannoni, consueta altalena ironica e amara, i corpi si allineano in una danza sincrona, dapprima accennata, poi sempre più rigorosa. La mente pensa e il corpo danza, o succede il contrario? Non ci si raccapezza. Allora serve rifarsi ai Greci, gente seria, come recita l’adagio del filosofo virale. Non trascurare più il rapporto tra vita intellettuale e dimensione corporea, porvi rimedio, significa scoprire che anche le fibre muscolari sono capaci di astrazione e possono ottenere ciò che la parola non può raggiungere. La mente però non perde il suo piedistallo: tramite la parola, abracadabra che crea, può agire sul corpo (“se uno mi dice cretino vado in vasodilatazione”). Il doppiofondo di questo teatro sta tutto nei contrasti che ne sono l’ossatura: la perizia mascherata da gesto goffo, l’ironia celata dietro i volti neutri e un po’ contriti dei due, la voluta fiacchezza della loro presenza in stridente contrasto con il moto continuo dei corpi. Persino il contesto teatrale e la dimensione scenica sono smascherati, dichiarati strumenti utili a una (non) rassegnata curiosità per l’umano. E allora mettiamoci il fumo in chiusura, un pezzo dei Placebo a tutto volume e inventiamoci una fine amara e potente, ché fortunatamente, come i Greci, sappiamo di esser mortali. (Sabrina Fasanella),

Visto al Teatro Sybaris, Primavera dei Teatri – Prima Nazionale ideazione, drammaturgia e messa in opera di Roberto Scappin e Paola Vannoni coproduzione quotidianacom, Tuttoteatro.com, Kronoteatro con il sostegno di Regione Emilia Romagna Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2022

FELICISSIMA JURNATA (Putéca Celidònia)

Fumo denso e ambrato e uno stridere di strada accompagnano il pubblico del Teatro Sybaris verso una sagoma imponente in penombra. Un’immagine suggestiva chiama da subito in causa lo spettatore, accecandolo con un fascio di luce calda che dall’alto e dal fondo disegna una figura umana. Antonella Morea appare in cima all’altissima struttura conica (vulcano, vestito), dalla quale troneggia e nella quale è incastrata. È la Winnie di Giorni Felici, ma siamo a Napoli, nei vicoli della Sanità dove nasce e vive la giovanissima compagnia Putéca Celidònia, animata da artisti e maestranze under 30. Frutto di un lavoro di anni nei bassi del quartiere, questa esplicita riscrittura (presentata in prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri) sovrappone la grazia raggelante di Beckett con la risoluta concretezza partenopea, mondo che ruba luce alla penombra, dove la felicità non è un obbligo borghese, ma un canto tra le macerie. Come lava palpitante, una colata di parole sgorga dalla gola ruvida e calda di Morea, nel cui vestito/prigione si nasconde Lello (Dario Rea), un Willie/Calibano docile, incastrato nell’arredamento irrazionale tipico del basso napoletano. Le voci raccolte nei vicoli e cucite insieme da Emanuele D’Errico sullo scheletro beckettiano a tratti irrompono reali, registrazioni di racconti quotidiani, quasi un omaggio o un monito di realtà. Ma è la poesia che le eleva ad archetipo, impastando lingua e colore, in un articolato collaborare di suono, luce e voce. Così l’orizzonte desolante di Giorni Felici diventa tenerezza e dignità, cambiando di segno l’assunto beckettiano: forse è felicità anche la solitudine che non si piange addosso, il calore dei dolori conosciuti, la confidenza con il dubbio e il suo sapore amaro. Non più plurimi e generici momenti di gioia posticcia, ma il superlativo di un solo momento apicale, dove fine e inizio coincidono in un’unica Felicissima Jurnata. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Sybaris, Primavera dei Teatri. Drammaturgia e regia Emanuele D’Errico. Con Antonella Morea e Dario Rea e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità. Scene Rosita Vallefuoco. Musiche originali Tommy Grieco. Suono Hubert Westkemper. Luci Desideria Angeloni. Costumi Rosario Martone. Aiuto regia Clara Bocchino. Produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia. In collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022. Con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania

CITTÀ SOLA (Lacasadargilla)

Scrive in prima persona Olivia Laing, facendo dell’incontro tra autobiografia e saggistica la sua cifra: l’aneddoto personale si fa pretesto per un’indagine profonda e ampia di luoghi e soprattutto persone. Città sola, il suo primo lavoro pubblicato in Italia, rientra in questa definizione di saggio intimo. Lacasadargilla ne coglie spunti e temi per farne materia di lavoro teatrale. L’esperienza di solitudine e la suggestione proveniente dallo spazio urbano di New York porta l’autrice a interrogare e farsi amici i fantasmi di grandi artisti e grandi solitari come Wharol, Hopper, David Wojnarowicz, Klaus Nomi. Emerge la conferma di come l’arte sia cura, ascolto, presenza, medicina o veleno, in ogni caso eredità. Il carattere compilativo del testo non lo rende immediatamente traducibile in drammaturgia: non a caso il primo approccio della compagnia lacasadargilla al bestseller è un progetto sonoro, un podcast che ricalcava sulla metropoli milanese l’idea dell’attraversamento urbano, proponendo allo spettatore l’ascolto in cuffia delle parole di Laing (la stessa formula, rimodulata sul parco di Tor Fiscale, verrà proposta durante il festival Attraversamenti Multipli 2023). A Primavera dei Teatri ha debuttato la versione scenica di questo lavoro modulare. Nel trasporlo dal solo suono alla messa in scena, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni ne affidano la mediazione al corpo vagante della regista. Insieme lettrice della Laing e Laing stessa, Natoli dispiega i sette capitoli di questo percorso circondata dalle immagini mutevoli di una scenografia proiettata e sostenuta da un denso ambiente sonoro. Il percorso tra immagini e biografie si articola dando ampio spazio alla parola scritta, la cui presenza è enfatizzata dal corposo interagire di Natoli con libri e dispositivi di lettura. Il risultato è una sorta di conferenza spettacolo sull’arte contemporanea che dice più che tradurre in segno teatrale la solitudine che racconta. (Sabrina Fasanella)

Visto al Capannone Autostazione di Castrovillari per Primavera dei Teatri. Di Olivia Laing. Traduzione Francesca Mastruzzo. Riduzione e drammaturgia Fabrizio Sinisi. Regia Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli. Con Lisa Ferlazzo Natoli. Voci registrate Emiliano Masala, Tania Garribba. Ambienti visivi/spazio scenico Maddalena Parise. Paesaggi sonori Alessandro Ferroni. Luci/direzione tecnica Omar Scala. Costumi Anna Missagllia. Sound design Pasquale Citera. Aiuto regia Matteo Finamore. Coordinamento artistico Alice Palazzi. Una produzione lacasadargilla, Angelo Mai, Bluemotion, Teatro Vascello La Fabbrica dell’Attore. In coproduzione con Theatron Produzioni. In collaborazione con Piccolo Teatro Milano. In network con Margine Operativo/Attraversamenti Multipli

#ROMA

L’UNIVERSO NELLA TESTA (di D.Ninarello, C.Donà, S.Lanza)

«Dentro a una vertigine che danza» vorticano nelle onde vocali le parole di Universo della cantautrice Cristina Donà nell’Arena del Teatro India. Sul palco bianco, vestita di nero con due punti di luce al lato degli occhi, è una visione che ci incanta e canta di altri spazi, di orbite planetarie, di protoni che si incontrano, amorevolmente. Tra il pubblico di Fuori Programma Festival, alcuni intonano sommessamente i testi delle sue poesie, dark metropolitano da sempre un po’ stellare, che ora dialoga con la danza del coreografo Daniele Ninarello e la ricerca sonora della voce, chitarra e live electronics di Saverio Lanza, già produttore e collaboratore di Donà. L’Universo nella testa è una galassia creativa inedita, una triade nata per caso nel progetto Perpendicolare, durante una residenza che gli artisti stavano svolgendo singolarmente a Fabbrica Europa. Ma torniamo all’inizio, quando i corpi dei tre performer “sono caduti” a terra o seduti, e di spalle alla platea, Ninarello ci invita a sentire proprio la nostra materia, la nostra fisicità. Con un verso di Siamo vivi, poco dopo Donà, capelli al vento e occhi socchiusi, chiederà «Da quanto non ascolti il tuo silenzio?». E anche se alcuni di noi vorrebbero alzare la voce sull’incedere affannato di Triathlon, quell’energia da concerto, dopo sollecitata dalla cantante, si traspone, mimeticamente, nell’osservazione della danza di Ninarello che, muovendosi intorno alle due figure musicali, delinea una coreografia di raccordo impostata sui moduli che contraddistinguono la sua cifra di geometrie flessuose: corse, salti, braccia agitate come fendenti, pugni, smorfie anche, rotazioni, le quali si intersecano ai glitch sonori e campionamenti. «È così chiaro se ci pensi, noi che siamo niente, divinamente nell’eterno» dice il brano L’infinito nella testa, e nell'elegante forma di questo ensemble, tutto viaggia nella connessione di infinitesimali frammenti di voce, suono, gesto condivisi, imitati, che si aprono alla vastità dell’emozione, del ricordo, e scende la luce sul solstizio d’estate. (Lucia Medri)

Visto a Fuori Programma Festival Crediti: Voce e chitarra: Cristina Donà; Coreografia e interpretazione: Daniele Ninarello; Piano, chitarra, elettronica: Saverio Lanza; Produzione: Fondazione Fabbrica Europa, Associazione CodedUomo, Foto di Giuseppe Follacchio

#NAPOLI

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO (di Davide Sacco)

Destinato per nome ai fasti del potere, Napoleone II fu imperatore solo per due giorni prima di vedere il cugino, Luigi III, portargli via il titolo. Se ne andò, a causa della tisi, ventunenne, nel 1832; era dunque già morto quando nel 1840 tornarono in patria le spoglie del padre. La morte di Dio di Davide Sacco insomma non può essere uno spettacolo storico, e dunque dalla storia prende solo ispirazione per mettere in scena un figlio frustrato che piange il padre. Vorrebbe essere invenzione metaforica e poetica, ma il ricordo del giovane corre sul filo del sentimentalismo. In scena una lunga panca, della terra, due comprimari relegati a servi di scena, una (Simona Boo) canta di tanto in tanto e l’altro (Amedeo Carlo Capitanelli) gestisce delle azioni fisiche per movimentare quello che difatti è un monologo con l’interpretazione pulita ma abbastanza monotona di Lino Guanciale. Sul fondale un telo e una grande scacchiera di fari caldi che poi verranno puntati sul pubblico. Il testo prende le mosse da Victor Hugo che in un libricino, I funerali di Napoleone, raccontava con abilità e dettagli documentaristici la celebrazione delle esequie in quel 15 dicembre 1840 e difatti i momenti drammaturgicamente più riusciti sono quelli in cui si fanno spazio le immagini e i racconti della storica giornata. Ma si ha difficoltà a comprendere l’idea di teatro che dovrebbe emergere da questo allestimento: Guanciale, con una maglia scura abbottonata da un lato, usa la prima persona, si strugge nel ricordo di questo padre rimanendo chiuso in un approccio finzionale poco credibile e non giustificato dagli elementi drammaturgici. Se questo personaggio non è il figlio di Napoleone, chi è? Da dove parla e in quale relazione è con la platea? Non basta la voce rotonda e affabile di Guanciale. Il pubblico del Campania Teatro Festival applaude, qualcuno alza i telefoni per fotografare il protagonista ai saluti, a loro sì, basta il proprio idolo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Politeama, Campania Teatro Festival. drammaturgia e regia Davide Sacco con Lino Guanciale scene Luigi Sacco luci Andrea Pistoia aiuto regia Claudia Grassi organizzazione Ilaria Ceci, Luigi Cosimelli comunicazione Raffaella Martellotti, Emiliano Luciani ufficio stampa Carla Fabi, Roberta Savona produzione LVF

CIRCUS DON CHISCIOTTE (Di R. Cappuccio, regia A. Latella)

Guardiamo dall’alto dei palchetti la platea del Mercadante svuotata dalle abituali poltrone: nello spazio una serie di sedute diverse tra loro, semplici sedie, comode poltrone in pelle, pezzi di arredamento vintage o di design, su queste sedute verranno accompagnati una ventina di uomini e donne, più o meno anziani; di fronte a loro comodini, o tavolini per fare da appoggio a vecchi televisori a tubo catodico. Sul palco, dalla graticcia, pende un tabellone in cui di tanto in tanto scorrono lettere e numeri, e sul quale si formeranno parole chiave. Questa scena, firmata da Giuseppe Stellato, suggestiva nella nebbia che si alzerà e nelle luci di Simone De Angelis dobbiamo guardarla per due ore sporgendo la testa dalle nostre balaustre perché gran parte dello spettacolo avviene nello spazio della platea. Ma la stanchezza non è solo fisica, come dirà un’amica dopo lo spettacolo: “è un corpo a corpo tra il testo di Ruggero Cappuccio e la regia di Antonio Latella e a rimetterci è lo spettatore”. Il teatro può essere una fatica per chi guarda? Certo, ma non uno sfiancamento (penso alle emozioni dei lunghi spettacoli latelliani). Il regista di fronte alla drammaturgia di Cappuccio - barocca, poetica, debordante per immagini e lingua, eccessiva - ha risposto con la carta del gioco attorale da un parte - sono splendidi Dalisi e Cacciola, soprattutto il secondo dimostra un talento cristallino nei cambi, nelle esplosioni, nella gestione del dialetto napoletano. Dall’altra ha edificato ulteriori stratificazioni di senso: le silenti presenze degli ospiti dell’ospizio in platea (generazione di poveri cristi assuefatti davanti alla tv), i colori che inondano la scena durante lunghe pause, gli spifferi di fumo dai televisori e nell’ultima scena dal corpo di Salvo - il nome dato dall'autore a Sancho Panza in questa riscrittura del celebre romanzo di Miguel de Cervantes (già messa in scena da Cappuccio nel 2017, che in quel caso era anche attore e regista). Forse con maggiore semplicità, anche nella drammaturgia, avremmo apprezzato di più il gioco delle maschere di questi due demenziali cavalieri, l’utopia di rincorrere il mondo; e la fatica nostra si sarebbe specchiata in quella degli attori. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Mercadante, Campania Teatro Fetsival. DI RUGGERO CAPPUCCIO REGIA ANTONIO LATELLA CON MARCO CACCIOLA E MICHELANGELO DALISI SCENE GIUSEPPE STELLATO COSTUMI GRAZIELLA PEPE MUSICHE FRANCO VISIOLI SOUND DESIGN FRANCO VISIOLI E DARIO FELLI LUCI SIMONE DE ANGELIS ASSISTENTE AL PROGETTO ARTISTICO BRUNELLA GIOLIVO

#FIRENZE

Il GIARDINO DEI CILIEGI (regia di Roberto Bacci)

Alla sua terza esperienza di regia con il Giardino dei ciliegi, Roberto Bacci incontra gli allievi dell’accademia del Teatro della Toscana. L’esito è un lungo tableau vivant allestito su un lago di petali bianchi. Una fisarmonica, allegra e malinconica insieme, raccoglie e guida gli spettatori del Teatro della Pergola verso il Saloncino Paolo Poli, per poi scandire tutta la vicenda. I personaggi riempiono il palcoscenico omogeneamente, in un gioco di primi piani alternati, mentre il fruscio della carta accompagna ogni loro passo. L’adattamento drammaturgico di Stefano Geraci condensa il testo in un atto unico intermezzato a più riprese da canti della tradizione russa, ucraina e georgiana. Il cast risalta per freschezza ed energia; non c’è differenza anagrafica tra i ruoli e questa omogeneità produce l’effetto di traslocare nel presente i nodi checoviani, pur così strettamente legati alla Russia di inizio secolo. Così questo vaudeville si consuma leggero sulle gambe di un gruppo variegato di trentenni che si congeda da un mondo in rovina, quello contemporaneo. Generazione di mezzo, che ha ereditato il concetto di possibilità, ma è cresciuta vedendolo assottigliarsi, inventando sopravvivenze e illusioni di felicità. Il goffo incedere di Epichodov che perde ripetutamente fiori dal suo bouquet finché a cadergli inavvertitamente è una pistola, nero presagio sul letto bianchissimo della scena; la vaghezza di Ljuba, anestetizzata dal dolore e rossa di passione; la concretezza di Lopachin che ha sposato il sistema; le speranze di Trofimov e l’austera operosità di Varja: sono tutti possibili ritratti, senza forzature attualizzanti, di una generazione che oggi vede le certezze del mondo sgretolarsi, un sistema economico che mostra sempre più i suoi limiti, una crisi climatica incombente e la guerra così anacronistica e sempre più vicina. Non a caso Firs chiude lo spettacolo pronunciando le battute finali in lingua originale: quel non aver vissuto risuona di nuova amarezza su labbra giovani. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro della Pergola. Di Anton Čechov con Maddalena Amorini, Davide Arena, Maria Casamonti, Davide Diamanti, Ghennadi Gidari, Annalisa Limardi, Alberto Macherelli Bianchini, Claudia Ludovica Marino, Luca Pedron, Marco Santi, Nadia Saragoni, Sebastiano Spada, Emanuele Taddei. Regia e scene Roberto Bacci. Adattamento drammaturgico Stefano Geraci. Costumi Elena Bianchini.

#FOLLONICA

CENERENTOLA (Zaches Teatro)

La Cenerentola di Zaches Teatro è una fiaba materica che sfrutta un ampio spettro di linguaggi teatrali e restituisce un’esperienza di suggestioni. Dalla luce alle voci e all’ambiente sonoro, ogni elemento concorre con precisione alla parabola della protagonista, al suo viaggio dalla cenere alla luce. Tra le più antiche fiabe dell’umanità, Cenerentola è una storia di libertà e di autodeterminazione, i cui contorni oscuri sono ricalcati dalla regia di Luana Gramegna quasi a suggerire di farceli amici, di non temere di esplorarli: conoscerli è necessario. Così l’inquietudine diventa leggerezza, l’oscurità affascina, col fumo e la cenere si può giocare. Questo teatro guarda le nuove generazioni negli occhi e non dall’alto, appellandosi a quel senso di meraviglia che viene da un’esperienza avvolgente e completa, pulita, organica. Un tetto diventa un camino per poi farsi palazzo, fulcro della scena dall’inizio alla fine. Tre corvi, tre spiriti animati da Gianluca GabrieleAmalia Ruocco ed Enrica Zampetti commentano, raccontano, aiutano la protagonista che ha le fattezze misteriose e innocenti del pupazzo. Lo spettacolo è una carillon dark in cui ogni elemento, in costante movimento, si trasforma con generosità, accompagnando la protagonista verso quello scrigno di luce potente e liberatorio: finalmente in carne ed ossa, un sorriso arioso e un vestito rosa, Cenerentola corre libera lontana dalla cenere, dal passato, da quel principe azzurro che è solo una silhouette in controluce. Il suo pupazzo inerte rimane sulla scena, immerso nel fumo, simulacro del viaggio, come la pelle del serpente. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Fonderia Leopolda di Follonica. Con Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti. Regia, drammaturgia, coreografia Luana Gramegna. Scene, luci, costumi, maschere e pupazzi Francesco Givone. Progetto sonoro e musiche originali Stefano Ciardi. Produzione Zaches Teatro con il sostegno del MIC, Regione Toscana, Teatro Fonderia Leopolda di Follonica e Giallo Mare Minimal Teatro. In collaborazione con Fondazione Teatro Metastasio, Fondazione Toscana Spettacolo onlus, Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni.

#ROMA

L’APERTO (di Lucia Guarino)

Tra la flora disordinata e selvatica di Villa Mercede, di fronte la Biblioteca Tullio De Mauro, un corpo esile e illuminato dalla luce a neon del lampione incede lentamente; agli angoli, alti alberi fungono da quinte. Nel buio, con la testa china, la danzatrice e performer Lucia Guarino, in questo suo L’aperto perlustra l’ambiente procedendo a piccoli, minimali e graduali passi, a ricordare la poetica della Nexus Factory di Simona Bertozzi della quale Guarino è artista associata. Prendendo le misure e circoscrivendo lo spazio attorno a sé, tiene in mano quella che, a primo acchito, risulta essere un’asta/bastone, funzionale proprio a quell’operazione di avanscoperta. De Il versante animale di Jean-Christophe Bailly, testo da cui l’autrice trae ispirazione, rintracciamo l’attitudine al non addomesticamento, alla coabitazione di un habitat attraverso l’imprevedibilità della relazione tra le specie. L’asta allora diventa un pannello steso e poggiato dalla danzatrice al centro della “scena”, come un visore, la cui rifrangenza metallica segna un’ulteriore simbiosi coi metalli nativi che si trovano in natura. La musica, è una dimensione sonora che affina percettivamente i sensi della vista e dell’udito, non è invadente ma contigua al movimento e allo stare del pubblico astante, seduto a terra e sulle panchine. Il corpo umano, dopo la quasi immobilità iniziale, si espande in una gestualità fluida e direzionale a tracciare diagonali, costruita su una frontalità variabile, che si allarga tra le piante, i cespugli, gli alberi, respirando del respiro dell’ambiente circostante. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Lucia Guarino

SIMPATIA N.6 CONCERTO PER CAMPANILE E CORPO (di F. Lilli e V. Sansone)

Con la testa all’insù verso il campanile, un gruppo di persone attende in silenzio, nonostante si senta in lontananza quell’ansia del traffico, dei clacson, di frenate e ripartenze. Una zona di decompressione, in cui ascoltare lo sfrecciare delle rondini, le risate dei gabbiani, il vociare da tavolino da bar e partecipare a Simpatia n.6 Concerto per campanile e corpo di Filippo Lilli (sound artist e musicista) e Valentina Sansone (performer), programmato durante la prima edizione della Festa della Danza nel piazzale antistante la Chiesa di San Giorgio in Velabro, nel rione Ripa. Dopo aver scongiurato l’eventualità del diluvio, Lilli e Sansone salgono sulla torre del campanile romanico dando inizio a questo diletto gioioso, relazione vibrante e sinestetica tra musica, corpi (della performer e dell’architettura), spazio, persone e, anche, sacralità. Come fosse un rito medioevale, l’inizio di una giostra, Sansone scioglie dei lunghi nastri che accarezzano la torre seguendo il rintocco della campana sostenuto da Lilli, la cui partitura fissata si concede però delle "improvvisazioni ambientali". La danza, aerea, dei nastri in alto dialoga con quella di Sansone articolata in basso, alla base del campanile, in corrispondenza dell’arco degli Argentari, i cui bassorilievi fungono da ulteriore scenografia. Il costume (di Vittorio Gargiuolo) è un’imbracatura leggera di nastri che riprendono il colore di quelli sciolti dalla torre, e legati da anelli a suddividere il corpo in una serie di parti, alle estremità delle quali i merletti ricordano delle gorgiere, che prima di diventare dei colletti per l’abbigliamento facevano appunto parte delle armature. Il dindondare si incarna nella coreografia, che ne dà rappresentazione tangibile e vivente, liberata e entusiasmante nell’espressione del volto di Sansone, un’estasi coinvolgente, semplice e evocativa che termina, e ascende, svanendo nella rarefazione di fumogeni colorati. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Filippo Lilli e Valentina Sansone, costume Vittorio Gargiuolo

TOM À LA FERME (di M. M. Buchard, Regia di G. Bucci)

Tante complesse tematiche convergono nella pièce canadese Tom à La Ferme, con la menzogna come comune denominatore. Persino il titolo è una bugia fuorviante, come dichiara l’autore Michel Marc Bouchard. Il testo pluripremiato (Xavier Dolan ne fece un film nel 2015) è densissimo, carico di sfaccettature al limite con l’eccesso: non si limita a denunciare pregiudizi non ancora superati verso l’omosessualità, ma le insidie esistenziali della stessa, l’esperienza della morte che scardina certezze, la disarmante violenza delle verità postume, l’imprevisto e pericoloso assottigliarsi del confine tra attrazione e repulsione. La messa in scena firmata da Giuseppe Bucci è dunque giustamente essenziale: nel dipanare la mole di spunti tragici ne esalta i tratti ironici, a volte indugiandovi. Una parete luminosa di fondo presenta i personaggi dapprima in controluce: sagome che entrano in scena per svelarsi lentamente nell’intimità dei propri lati oscuri. Tom (Salvatore Langella) è un brillante ragazzo di città che si trova calato in un contesto estraneo con la violenza di un evento tragico: la morte del suo compagno Guillaume. Langella stesso compie un percorso attoriale che asseconda il viaggio di formazione del personaggio, inspessendosi gradualmente in intensità e adesione. Al polo opposto Francis (Lorenzo Balducci), l’incarnazione della paura che si fa violenza, della fragilità vestita di muscoli e rancore. La sua prova è statica, conformemente a quanto richiesto dal ruolo, che pure avrebbe potuto meritare maggiore tridimensionalità. Tra i due Agathe, madre in lutto, ingenuamente bigotta ma capace di perdono e comprensione materna, resa con notevole efficacia, misura e profondità da Marina Remi. La messa in scena di Bucci è funzionale e sentita, pur se l’avvicendarsi non sempre fluido delle scene, il cui ritmo è frammentato da ripetuti cambi a vista, rischia di togliere forza al climax finale. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Belli. di Michel Marc Bouchard. Con Salvatore Langella, Lorenzo Balducci, Marina Remi, Maria Lomurno. Musiche Pericle Odierna. Regia, luci e spazio scenico Giuseppe Bucci

#BOLOGNA

ONDE (di Simona Bertozzi)

Visto in anteprima a Bologna, poco prima dell’imminente debutto al Festival Danza Estate di Bergamo (8 giugno), il nuovo lavoro di Simona Bertozzi, Onde ispirato all’omonimo antiromanzo di Virginia Woolf (The Waves, 1931), sembra già fra quelli imperdibili di quest’estate. A partire dai performer (Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi), giovanissimi e perfettamente centrati e imbrigliati fra loro in un flusso che è forza e insieme fragilità, sempre singolari eppure plurali. (La creazione, la trasmissione e la consegna del gesto, quando avvengono senza ricatto di pratiche opache e impotenti, disseminano speranza.) Dal soundmaker, anch’egli in scena, Luca Perciballi, ‘ribaltato’ già di suo il giusto, in consistente sintonia con il progetto compositivo e la presenza dei corpi che lo precedono, capace quindi di esistere in solitudine o di balzare a gamba tesa (a voce spiegata...) perché «tutto è velocità e trionfo». E poi alla composizione coreografica, davvero articolata, complessa, propositiva pure bizzarra. Vi sono temi di movimenti ricorrenti, come la sospensione, la spirale, l’ondulare naturalmente, l’oscillare, il tremolare intenso e vibratile, il vacillare fluttuante, l’asincrono e poi il sincrono ma secondo una precisa drammaturgia della dissolvenza (perché, come in The Waves: «Niente dura. Un momento non conduce ad un altro»). Una partitura che senz’altro consuona in profondità con l’operazione di Woolf, che scandaglia e districa nel ritmo (della scrittura) i nodi i grovigli e gli intrecci del desiderio. Ma qui vi è molto di più: questa vita che balza nella forza dell’istante, rinuncia alla forma per stare «in acque agitate», per interporre coi corpi all’espansione dello spazio omogeneo la ricchezza espressivo-situazionale dello spazio vissuto. Con buona pace di Nadia Fusini, studiosa e (ottima) traduttrice di Woolf, The Waves non è un’esperienza di scrittura ‘sul tempo’ ma sulla sua affettiva spazializzazione. E qui, il pensiero coreografico di Simona Bertozzi, fra mille allargamenti e distensioni e contrasti, dà proprio il suo meglio. (Stefano Tomassini)

Visto in anteprima a Ateliersi; Progetto e coreografia Simona Bertozzi; Danza Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi; Musica originale eseguita dal vivo Luca Perciballi; Disegno luci Rocio Espana Rodriguez; Costumi Vicini d’Istanti; Organizzazione Roberto Berti.

#VENEZIA

IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO (coreografia di Saburo Teshigawara)

Tutto comincia, per il Barocco, con il disinganno. Fu come la rottura di una diga: «y solamente | lo fugitivo permace y dura» («solamente | il fuggevole ormai permane e dura»: così il Quevedo del nostro Bodini). Mentre molti discorsi sul moderno sono all’origine della Barok Renaissance: le iperboli di Gaudì come le visioni dei Ballets Russes dialogano tutte in flagranza con la musica barocca (di quella romantica non se ne poteva quasi più...). Per questo, l’occasione di riascoltare dal vivo il primo oratorio di Georg Friedrich Händel, composto ventiduenne a Roma nel 1707, su commissione illustre del mecenate e cardinale Benedetto Pamphilj che scrisse pure il libretto, equivale a riaprire una finestra. Teatrale ed estetica. Il Trionfo del Tempo e del Disinganno visto e ascoltato al Teatro Malibran in un nuovo allestimento affidato alle mille abilità sceniche del danzatore e coreografo Saburo Teshigawara, e alla sapiente, efficacissima, direzione musicale di Andrea Marcon, combina perfettamente gusto e sincretismo. Questa ipotesi scenica di una performance allegorica a quattro voci e altrettanti danzatori (a bassa densità di azione e quasi tutta risolta in un intenso bianco e nero), funziona qui benissimo. In una cura formale estremamente sobria ma efficace, come un moralista classico alla Montaigne e Pascal, Teshigawara predispone alcuni elementi cubici che incorniciano, comprendono o escludono i protagonisti, li costringono anche a un difficile (ma non impossibile) equilibrio, oppure li contengono come in uno spazio sicuro della presenza e della voce. Anche i costumi, perfetti, rendono dell’allegoria che incorporano l’essenza della loro possibilità di stare in scena. Fra le voci, il soprano Silvia Frigato (la protagonista Bellezza) è stata molto apprezzata soprattutto nel maggior impegno della seconda parte. Vi è stato anche lo spazio per un mirabile e rivelatore assolo di Teshigawara, su una musica di transizione tra gli atti, fluente e scattoso, con lo sguardo riflessivo su ciò che di Bellezza resta nel Tempo del Disinganno: è conversione di realtà. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Malibran di Venezia per VeneziaMusica e dintorni, interpreti Silvia Frigato, Giuseppina Bridelli, Valeria Girardello, Krystian Adam; danzatori Saburo Teshigawara, Rihoko Sato, Alexandre Ryabko, Javier Ara Sauco; maestro concertatore e direttore Andrea Marcon; regia, scene, costumi, light design e coreografia Saburo Teshigawara.

#MILANO

FAG/STAG. AMICI DI GENERE (di Gabriele Colferai)

Ha vinto il FringeMI nell’edizione dell’anno scorso conquistandosi un posto nella programmazione del Teatro Elfo Puccini (rassegna Nuove Storie), partner del festival. In realtà Fag/Stag. Amici di genere, prodotto da Dogma Theatre Company, è un lavoro tutt’altro che italiano, tutt’altro che milanese come il festival che l’ha lanciato. Le sue origini affondano in territori più remoti e desertici, come quelli degli orizzonti australiani: Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs sono gli autori che ne firmano la drammaturgia lasciando tuttavia ampio margine alla rivisitazione e all’appropriazione da parte di chi la interpreta. Lo sanno bene Gabriele Colferai (anche regista dell’opera) e Angelo Di Figlia che in quel testo ci sguazzano, pasticciano, giocano e si divertono mescolando teatro e stand up comedy e offrendo una nuova geografia identitaria – dai sapori tipicamente milanesi - ai luoghi che lo popolano. Qui Ludo e Giammy sono due amici single (da fag stag, etimologicamente maschio senza compagna) che si ritrovano ad essere invitati al matrimonio di una ex in comune. Sulla soglia dei trenta vivono spaesati, quasi inconsapevoli della loro stasi esistenziale, bloccati dalla paura di diventare grandi e trovando il massimo godimento nelle nottate passate a sfidarsi alla play e a “matchare” su Tinder/Grindr. Allora durante il rituale del rimorchio si fanno da spalla, ammiccano e bisticciano come accade nelle amicizie di una vita. Eppure, nulla riesce a togliergli di dosso quella sensazione di vuoto e inconcludenza. Con un linguaggio immediato e nudo, diretto e scarnificato, Colferai e Di Figlia ci accompagnano in un viaggio che fin troppo conosciamo, ma lo fanno con dolce amarezza, con lo scherno di un riso e una consapevolezza che piace e si compiace della città che racconta. Non rimane che prendere parte a quel salto finale, nelle braccia dell’altro, prendere la rincorsa e buttarsi di nuovo nel flusso della vita. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs, regia di Gabriele Colferai, con Gabriele Colferai e Angelo Di Figlia, produzione Dogma Theatre Company, spettacolo vincitore del FringeMI 2022

#SIENA - speciale In-Box dal Vivo 2023

In-Box 2023. Segnali positivi dal teatro emergente

Di rassegne, festival e concorsi dedicati al teatro emergente ce ne sono diversi, per la maggior parte sono dedicati alla creazione, come supporto produttivo di nuove opere. Il tallone d’Achille del sistema teatrale, lo abbiamo scritto più volte, è però nella distribuzione. Le nuove opere rischiano di rimanere nuove, e questo spesso vale anche per produzioni non indipendenti ma sostenute da importanti teatri pubblici o privati. Ecco allora che una vetrina come quella di In-Box, ideata quasi quindici anni fa, rappresenta un’occasione vera per incidere proprio sulle programmazioni dei teatri. Anche perché nell’edizione di quest’anno i soggetti partner (senza contare quelli dedicati al teatro ragazzi) sono diventati 55 e rappresentano un reticolo eterogeneo e variegato (festival, circuiti, teatri e centri di produzioni), distribuiti in tutta Italia, ma con una netta maggioranza nel Nord. I partner coordinati da Straligut Teatro (Fabrizio Trisciani, Francesco Perrone) si ritrovano a Siena per la prova “dal vivo” sugli spettacoli scelti tra centinaia attraverso una seleziona collettiva in video. L’edizione 2023 segna alcune importanti evidenze: la qualità generale dei progetti finalisti, mediamente alta, e alcune interessanti novità dal punto di vista delle proposte estetiche e dei contenuti. Tra gli spettacoli a cui abbiamo potuto assistere ne raccontiamo alcuni di seguito.

SID – FIN QUI TUTTO BENE (Cubo Teatro)

Sid ha convinto 19 soggetti, 19 è infatti anche il numero di repliche vinte dal collettivo torinese che si è preso il rischio di proporre un prodotto in cui ibridare la forma teatrale e quella concertistica. Sid è il nome del giovane protagonista, un ragazzo di origine Nord Africana, sul palco del settecentesco Teatro dei Rinnovati - quasi fosse un alieno sbarcato da un mondo lontano - Alberto Boubakar Malanchino (nato a Cernusco sul Naviglio, padre italiano e madre del Burkina Faso) stringe il microfono e indossa una tuta bianca; per un’ora sarà il protagonista di un racconto su musica dal vivo, quella suonata dalla tromba di Ivan Bert e dalla batteria elettronica di Max Magaldi (vera e propria postazione musicale polivalente), in una scena vuota e nera come un antro scuro che sembra poter inghiottire tutti. Cambi di tono e di registro, bruschi passaggi verso il rap o una certa scansione recitativa che rimanda a una modalità simile a quella utilizzata dai Massimo Volume. Malanchino, - tra i pochissimi attori professionisti afrodiscendenti che ci è capitato di incontrare nella scena teatrale - è una forza sorprendente. Lo spettacolo scritto e diretto da Girolamo Lucania ha l’impatto del concerto rock. La storia procede per salti, tra le parole appare un omicidio, perché qui nessuno è innocente. Malanchino vomita fiumi di parole, l’immaginario è quello di un fumetto underground con un giovane antieroe: «Spesso sto chiuso in camera. Leggo. Leggo sempre. Di giorno, di notte. Guardo film. Se hai un cervello come il mio, non puoi che fare così. [...] Vestito di bianco Adidas, Lacoste, Fila, etc. Per il resto, si fanno cazzate. Trovi sempre qualcuno con cui fare cazzate. In generale, ci si annoia da morire.» Non manca uno psicologo da trollare, una scuola dalla quale fuggire, le periferie di una grande città e il razzismo quotidiano. Sid attraversa mondi, sembra invincibile, sembra un passo avanti agli altri, ma qualcosa gli sfugge, per non perdersi non basta leggere e ascoltare Mozart, Vivaldi, Stravinskij.

Visto al Teatro dei Rinnovati per In-box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Girolamo Lucania Drammaturgia: Girolamo Lucania Attori: con Alberto Boubakar Malanchino Sound design e colonna sonora live di Ivan Bert e Max Magaldi

STILL ALIVE (di Caterina Marino)

C’è una figura nascosta da un piumone, cammina, raggiunge un microfono: «è così che dovrebbe cominciare uno spettacolo sulla depressione? Chiedo perché non l’ho mai fatto.» La voce di Caterina Marino è piccola e gentile, ma non nasconde la coloritura suggestiva. D’altronde, come si fa uno spettacolo sulla depressione? La depressione di chi, poi? L’abbrivio di questo lavoro visto al Teatro dei Rozzi come primo finalista di In-box dal Vivo 2023 (dopo un passaggio anche ai debutti del Premio Scenario 2021) rischia di far pensare allo spettacolo a tema, generica idea teatrale su un tema importantissimo. Ma qui c’è il corpo di Caterino Marino, piegato su se stesso, seduto, nascosto, immobile in terra. C’è la scrittura, quella di parola (che in alcune occasioni subito riporta a Lucia Calamaro) e quella scenica che spiazzano e riescono a tornare sul particolare, di quella vita che sta di fronte a noi e a un certo punto ci chiede se abbiamo qualcosa da darle da mangiare - qualcuno risponde offrendo una di quelle bustine di frutta secca. Siamo allo stato zero della rappresentazione, certo nulla di nuovo, senza spettacolarizzazione e senza quarta parete, ma con una capacità di porre in relazione una verità intima con il pubblico. E poi c’è un movimento, dall’intimità di questo personaggio minuto all’esterno di un mondo che cambia e si autodistrugge. E allora si capisce che questa opera è qualcosa di più di uno spettacolo sulla depressione: è anche un piccolo manifesto generazionale. «credo di avere 83,84 anni, ma per l’anagrafe 30, posso ancora partecipare ai bandi». C’è qualcosa di felicemente improduttivo in questo lavoro, una stasi che va oltre il semplice gioco del teatro nel teatro. Colpisce la gentilezza, il modo con il quale l’altra figura silente (Lorenzo Bruno) si prende cura della protagonista. E nonostante l’aggregazione eterogenea dei materiali, e una sintassi né levigata né in cerca di effetti speciali, emerge lentamente un’inquietudine che tutti abbiamo conosciuto. Poi la stasi a un certo punto si rompe e la fragilità di questa giovane donna deve scontrarsi con le richieste di una madre, con le richieste del mondo. E non rimane che gridare, gridare forte. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal vivo 2023. Crediti: Regia: Caterina Marino; Drammaturgia: Caterina Marino ; Attori: Caterina Marino e Lorenzo Bruno

TOPI. A VENT’ANNI DAL G8 di GENOVA (Usine Baug)

Anche di Topi dei giovani Usin Baug abbiamo uno sguardo dal debutto, all’interno della rassegna del Premio Scenario di Napoli, nel '21. Sul palco del Teatro dei Rozzi c’è un interno casalingo spoglio, con un tavolo e, qualche sedia, l’abitante di questo interno è in attesa di visite, qualche amico per una cena a casa. Lentamente cominciano a manifestarsi dei suoni, sono squittii di topi. D’ora in poi l’uomo dovrà combattere con le piccole creature, che avranno la meglio fino allo sterminio finale. L’immagine del roditore è un’evidente metafora, più che esplicita, per indicare i manifestanti del G8 di Genova 2001. C’è infatti un altro racconto parallelo di cui sono protagonisti Claudia Russo e Stefano Rocco, un racconto che dalla platea scende poi verso il pubblico e lo attraversa per rompere la lontananza data dalla grande sala: i fatti vengono messi in fila con precisione e passione, drammaturgia e recitazione riescono però a mantenere un tono documentaristico e mai empatico; i fatti sono quelli di via Tolemaide, di Piazza Alimonda, della Diaz e di Bolzaneto, insomma quella geografia della violenza in cui l’abuso delle forze dell’ordine ha determinato “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea” (Amnesty International). Inoltre questo racconto arriva per bocca di un gruppo di trentenni che durante quelle giornate erano fin troppo piccoli per farsi un’idea e comprendere; c’è dunque un importante tentativo di trasmissione della memoria verso le nuove generazioni. Poco invece viene aggiunto per chi ha già consapevolezza e conoscenza di quelle giornate (se non una suggestione emotiva pur necessaria). Peccato invece per lo svolgimento teatrale del plot casalingo: a fronte dell’immediatezza della metafora, purtroppo anche le azioni sul palco risultano troppo semplici per coinvolgere un pubblico smaliziato; nel finale qualcosa fortunatamente cambia, in una sorta di esplosione che lascia incrociare i due piani, il fumo chimico con il quale l’uomo cerca di stanare i topi è il fumo delle strade di Genova. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Usine Baug Drammaturgia: Usine Baug Attori: Claudia Russo, Ermanno Sandro Pingitore, Stefano Rocco

R+G (di Stefano Cordella, Tommaso Termariello)

Riscritture shakespeariane? Il genio dello scrittorle di Stratford-upon-Avon può accogliere tutte. Quella vista sul palco dei Rinnovati è una riduzione e reinvenzione per due attori e una band musicale (come per Sid dunque un’evidente ibridazione con il concerto rock), firmata da Tommaso Fermariello (alla scrittura) e Stefano Cordella (alla regia). Dietro l’operazione ci sono anche le forze produttive di un teatro pubblico, lo Stabile del Veneto e dell’annessa accademia, dalla quale provengono i due interpreti, Caterina Benevoli, Duccio Zanone: ventenni o poco più, sono portavoce ma anche protagonisti del racconto. Cordella e Fermariello scelgono una via netta, un racconto in terza persona, i due giovani incarnano gli amanti shakespeariani ma se ne discostano, non solo per la modalità epica, ma anche per una riscrittura volta ad ambientare la tragedia nel nostro tempo (non si può non pensare a Shake, il teen drama, su raiplay ispirato a Otello). La scrittura di Fermariello evita con destrezza l’adattamento banale della trama e dei caratteri mescolando e inventando, così da prendere lo spettatore in contropiede. Insomma i presupposti per un lavoro interessante ci sono, forse manca ancora un graffio teatrale: tutto è racconto e la presenza dei due interpreti in scena non è supportata da azioni fisiche che abbiano un valore drammaturgico e scenico, non bastano le canzoni dal vivo, l’allestimento sconta comunque una freddezza, una certa lontananza, soprattutto nella prima parte. Lo spettacolo comincia a diventare coinvolgente quando la scrittura emerge nonostante la staticità scenica e tramite i nuovi snodi narrativi. Nella riscrittura di Fermariello, ad esempio, i due giovani si troveranno a fronteggiare il padre di lei che troverà della droga nascosta in camera, come nelle più classiche tragedie dei bassifondi moderni. Muore un padre dunque, non Tebaldo, e poi stacco di montaggio: siamo in teatro, il tempo di uno spettacolo con la scuola per poi salire sul tetto di un luogo abbandonato. Il suicidio è una scelta, tra fuga e pentimento. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rinnovati per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: liberamente ispirato a Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Regia: Stefano Cordella Drammaturgia: Tommaso Fermariello Attori: Attori: Caterina Benevoli, Duccio Zanone Musicista: Gianluca Agostini

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