Meredith Monk in conversazione con Bonnie Marranca
Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi (studioso e docente) curano per la casa editrice Sigaretten Edizioni Grafiche una collana di piccoli e preziosi libri collegati...
SEMBRA AMLETO (di Francesco Zaccaro, Regia Ivano Picciallo)
Un saltimbanco, un giullare, un figurino da varietà, un buffone con le converse. Un ragazzo, un adulto, un figlio. Francesco Zaccaro occupa tutto lo spazio che ha attorno e dentro di sé e attiva tutto il suo corpo – voce, muscoli, capelli – in un monologo che è un attraversamento, una parabola umana, un rito di crescita. In una lingua musicale e ironica, assistiamo a un dialogo mancato, quello con la tomba di un padre il cui fantasma, in spietato silenzio, tarda ad apparire. Ma vediamo anche un confronto diretto (o forse sognato?) con una madre che ormai è altrove, a una distanza indecifrabile, muta anche lei eppure presente e incombente. Il non detto, il sopito, l’eredità di valori e vincoli pesano come un macigno sulla vita di questo quasi-Amleto che non può fare altro che intrattenere i propri morti, riseppellirli dopo averli animati, rimessi in scena: il dispositivo metateatrale più celebre dell’opera shakespeariana qui diventa avanspettacolo, tra tradizione e tradimento, offrendo tanto l’esercizio godibilissimo di sintesi del classico quanto un affondo laterale inedito sulla figura di Gertrude. Zaccaro ripercorre a zigzag la vicenda del principe di Danimarca, spostando nei suoni la latitudine, ma restando ancorato al portato tragico di un’anima persa che prima di tutto è quella di un orfano. Sulla scena la regia di Ivano Picciallo mette solo terra e pochi essenziali simboli (un fiore, uno specchio, una croce), quelli di un teatro di evocazioni che si regge sul corpo dell’attore, sulla sua espressività generosa e scanzonata e su una lingua poetica e immediata, viscerale. Tra le sue mani l’Opera, l’Amleto, è la bussola per non perdere la rotta, o il segno ineludibile di un destino avverso, granitico, che «sta scritto» e contro cui, invece di prender l’armi, giocarsi le rime. Fino a una finale liberazione, rito di imprecazioni impronunciabili, fiume rotto d’amore e dolore, rabbia e resa. Elsinore e Matera stanno a un passo, se di sangue, radici, identità si tratta. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Lo Spazio. scritto e interpretato da Francesco Zaccaro. Regia di Ivano Picciallo. Scene Alessandra Solimene. Luci Joseph Geoffriau. Organizzazione Sonia Polimeno. Produzione IAC Centro Arti Integrate - MALMAND TEATRO
BAÙBO (regia di Jeanne Candel)
«All’inizio abbiamo parlato», tema «cos’è l’amore». Poi una fuga, fermata dal mare. Come mangi il riso, la vergogna d’essere nudi, inventare una lingua perché è solo nostra questa storia. La tua nuca sul collo, starsene chiusi in stanza. E perdersi senza motivo: «È così che l’amore si disintegra?». Agathe ci parla in proscenio, a telo chiuso, con l’uomo accanto che non sa né può tradurre ciò che dice e che prova. Capiamo che: sono passati 647 giorni e 9362 sigarette, lei è «rimasta in albergo», si sente morire. Sipario. Interno, letto sfatto, viso al cuscino. Una sedia a terra, resto d’una sfuriata, una donna in nero (il lutto della sconfitta sentimentale) e un fucile da pesca che Agathe punta al petto. Non s’uccide – altre donne, convocate per un canto funebre la denudano e lavano perché torni a vivere – ma ammazza lui invece simbolicamente, tant’è: va via arrotolato in un tappeto, «è normale abbia fame?» chiede, essendo un morto non morto davvero. Terza parte. Musica, corteo d’oggetti ostentati (il fucile, una pala, un’armatura) per dire che l’uomo è seppellito, la ricerca dello sguardo del pubblico mostrando il pube stampato a mutanda, in ossequio al mito che ispira l’opera: Baùbo, che rimise al mondo Demetra mostrandosi nuda. La regista Jeanne Candel dice che tocca a noi dare senso ai segni proposti. Provo: ripudio d’una mascolinità (sociale, politica, culturale) tossica, il femminile come fertilità salvifica, la dismissione di genere del patimento emotivo. Il passaggio dalla logicità inerte delle parole alla vitalità sussultante del corpo. O una trama di dolore e rinascita. Interessante, ma non per la forma, piena di stereotipie: frontalità, frantumazione testuale, (s)montaggio a vista della scena, richiami alla platea. Tra segni da decriptare e una lunga parte in cui non c’è altro che i musicisti e le musiciste che suonano. Mi chiedo: che ce ne facciamo d’un teatro che non racconta né genera visioni ma s’adopera invece solo ad agire i meccanismi alla base di racconti o visioni? Occhio alla noia, penso citando Peter Brook: dice che qualcosa stasera non ha funzionato. (Alessandro Toppi)
Visto al Teatro Bellini. Crediti: basato sulle opere di Buxtehude, Musil, Schütz e altri materiali, regia Jeanne Candel, di e con Pierre-Antoine Badaroux, Félicie Bazelaire, Jeanne Candel, Richard Comte, Pauline Huruguen, Apolline Kirklar, Pauline Leroy, Hortense Monsaingeon e Thibault Perriard; direzione musicale Pierre-Antoine Badaroux, scene Lisa Navarro, costumi Pauline Kieffer, luci Fabrice Ollivier, collaborazione artistica Marion Bois e Jan Peters, produzione la vie brève-Théâtre de l’Aquarium, coproduzione Théâtre National Populaire, Villeurbanne; Tandem, scène nationale Arras-Douai; Théâtre Dijon Bourgogne, CDN; Comédie de Colmar - CDN Grand Est Alsace;Festival dei Due Mondi, Spoleto; NEST Théâtre - CDN de Thionville -Grand Est; Théâtre Garonne, scène européenne - Toulouse
LE ANIME MORTE (di Peppino Mazzotta)
Le anime morte senza dire i nomi dei personaggi perché la città di N. sia quella di Gogol’ quanto la nostra. Solo una ruota del calesse, degli interni resta una tavola con sopra gli ologrammi di ciò che caratterizza di volta in volta incontri e figure (il grande ricamo, cibo, il fuoco, le candele per una fede falsa quanto l’immagine che vediamo). E dalle 416 pagine la cara struttura dialogica su cui si basa(va) la scrittura teatrale, per la regia fuori-moda e perciò significativa di Peppino Mazzotta, che crede nel valore del testo che ha scelto (nessun riduzionismo pop, nessun abbassamento di livello) e lo coniuga in scena con rigore. Dettagli: il binario/tappeto su cui scivolano le poltrone (l’attraversamento territoriale del libro, che procede per episodi in successione); le proiezioni degli oggetti, coerente con la smaterializzazione delle cose attuata in un romanzo in cui si vendono e acquistano nomi e cognomi defunti; un sentore linguistico meridionale, come fossimo nel Sud de Il gattopardo o I Viceré (la stessa marcia aristocrazia che trasmette modi e immoralità allo Stato borghese). L’orizzontalità che Nabokov vede nella trama resa fisicamente (Cicikov che dorme, il servo che riposa poggiando la testa sulla valigia, la vecchia e l’ubriaco a terra: è la vita già intrisa di morte); un finale che spinge burocrati, possidenti e politici attorno a una giostra (l’eterno meccanismo d’inganno e potere, direbbe Jan Kott) dopo essersi illusi d’aver incastrato Cicikov che, venuto, svanisce: demone tentatore, ha smascherato la nostra corruttibilità. Due pensieri. Il primo, la qualità degli interpreti (nomi nei crediti): in tempi di frontalità, visioni ridotte al proscenio e performer che dicono solo di sé fa bene sapere che resiste la funzione-responsabilità dell’attore (vecchia due millenni) d’incarnare la vita d’un altro per mostrarla al pubblico perché una comunità si rifletta. Secondo: se lo spettacolo non torna l’anno prossimo sarà stato materia gogoliana: sembrava cosa viva, invece il sistema teatrale l’aveva già uccisa. (Alessandro Toppi)
Visto al San Ferdinando. Crediti: testo e regia Peppino Mazzotta, collaborazione alla drammaturgia Igor Esposito, adattamento da Le anime morte di Gogol’, con Federico Vanni, Milva Marigliano, Gennaro Apicella, Raffaele Ausiello, Gennaro Di Biase, Salvatore D’Onofrio, Antonio Marfella, Alfonso Postiglione, Luciano Saltarelli, scene Fabrizio Comparone, costumi Eleonora Rossi, luci Cesare Accetta, contributi digitali Antonio Farina, musiche Massimo Cordovani, produzione Teatro Nazionale di Napoli, Stabile del Veneto-Teatro Nazionale
BACCANTI Fare schifo con gloria (di Giulio Santolini)
Dioniso è caos, bellezza, violenza, sesso, erotismo, potere; è bestemmia e canto, buco nero ed eccesso, rapimento e liberazione, religione e sacrilegio, croce e delizia dell’umano. Dioniso sono loro, siamo noi, è l’Altro/a, è Me stesso/a. Il debutto coreografico di Giulio Santolini (già performer per CollettivO CineticO, Sotterraneo, Enzo Cosimi) si avvale della drammaturgia di Lorenza Guerrini (pure nella stessa compagnia fiorentina) e ha come punto di partenza la più misteriosa delle tragedie. Euripide non avrebbe mai visto in scena le sue Baccanti e forse nessuno avrà davvero capito i significati profondi di questo dilaniante apologo sulla vendetta, sulla ribellione della divinità contro sé stessa, dove serpeggiano – per noi figli del Novecento – i fondamenti estetico-filosofici della “peste” artaudiana. Nella trama si compie la sanguinosa punizione ai danni di chi non crede nella natura divina del figlio di Semele. Nella proposta di Santolini, però, la sorte delle tebane e il sanguinoso culmine orgiastico sono pretesto per un più astratto affresco sulla forma, il movimento e i suoni del rituale. Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari, nude in scena (e in platea, dove strisciano come serpenti), sono come lembi energici strappati al corpo di questo dio indefinibile. Incantano e provocano il pubblico, parlano un affascinante grammelot che nella musicalità rievoca il greco antico, raccolgono dalla platea il proprio Penteo, che ha il corpo dello stesso coreografo e la voce femminile del coro che le stesse tre officianti consegnano, per completare lo smembramento. Estremamente curata e però liberata da vincoli di partiture troppo rigide è la coreografia di questo generoso corpo collettivo; ingegnosa, se ancor meglio accompagnata, sarebbe l’intuizione di vedere nel regista il virus che ferma una completa liberazione del teatro. Se ancora si assapora un gusto acerbo nella gestione dei significati manovrati dalla drammaturgia, colpisce la fluidità con cui un quadro s’inanella all’altro e questa prova pare un ottimo inizio per un percorso autoriale appassionato e complesso. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Fontana. Crediti: di Giulio Santolini; performers Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari; drammaturgia Lorenza Guerrini; assistenza Coreografica Ilaria Quaglia, Elisabetta Solin; sound design Simone Arganini; light design Lucia Ferrero , Marco Santambrogio; tecnica di compagnia Lucia Ferrero; progetto sostenuto da CollettivO CineticO nell’ambito del progetto IPERCINETICO, da SIAE e MiC all’interno del progetto “Per Chi Crea” e da Sotterraneo
FEDRA (di Jean Racine, regia Federico Tiezzi)
Scritta nel 1677, Fedra di Jean Racine è la tragedia del desiderio impossibile, della nefandezza dell’inconscio, dove la sintassi si fa sempre più inquieta, intrisa di colpa e vergogna. Nello sviscerare la passione erotica di una donna non corrisposta, Racine guarda però alla radice classica, a Euripide e a Seneca, anche se la sua è una tragedia tutta interiore, di cui Federico Tiezzi - con la traduzione di Giovanni Raboni – decide di intercettare e dilatare l’eco psicoanalitico, da Freud a Lacan: si tratta di «un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che non può esser detto». La scena, cofirmata dallo stesso regista, ricostruisce questa complessa e tortuosa architettura mentale e “confessionale” assumendo un carattere metafisico, sia dominato dal nero abissale che i personaggi abitano sia solcato da tagli di luce fredda, talvolta interrotti da atmosfere magenta che pulsano sanguinose nel dramma. Anche il contrasto tra la radice mitica della vicenda e l’estetica contemporanea – con busti grechi e un quadro di Guido Reni sullo sfondo minimalista – produce un’astrazione segnica conturbante, di straniamento e caos. Di questo linguaggio scenico pulsante, non intravediamo tuttavia un coerente corrispettivo interpretativo, che sia in grado di restituire quella densità letteraria raciniana: come già accaduto nell’ Antigone, i personaggi non modulano complessivamente le sfumature del tragico. Fedra, nella febbrile performance di Elena Ghiaurov, sprigiona fin dal principio solo l’acume del climax tragico, inghiottendo di acuti tutta la scena, mentre l’inquieto Ippolito e la torva Enone, o lo ieratico Teseo, cercano di controbilanciarne l’intensità con un pathos più distaccato, che riesce ad essere esclusivamente cornice marginale rispetto alla tragicità della figura femminile e non ciò che invece la informa. Dilaniato dall’amore impossibile per il figliastro Ippolito, il corpo della donna grida come simbolo di una colpa viscerale che la porterà alla morte. Qui la tragedia collassa nel nero monotono del personaggio, lasciando irrisolto il significato della parola incarnata, tra suono, senso e sua necessaria trasmissione. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: di Jean Racine, traduzione Giovanni Raboni, regia Federico Tiezzi, con Catherine Bertoni de Laet, Martino D'Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro, scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi, costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini, canto Francesca Della Monica, movimenti coreografici Cristiana Morganti, regista assistente Giovanni Scandella, costumista assistente Lisa Rufini, scenografa assistente Erika Baffico, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi
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