| Cordelia | giugno 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di giugno 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#CASTIGLIONCELLO - Inequilibrio
VIAGGIO IN ARMENIA (di S. Castiglioni e G. Guerrieri)
Al Castello Pasquini di Castiglioncello ci sono delle sale speciali, non pensate per il teatro in origine, ma in cui di certo è stato lungamente pensato il teatro. Per esempio la Sala del Ricamo, una stanzetta lunga e stretta, con decori troppo evidenti per fare il buio necessario, che porta un numero abbastanza esiguo di spettatori (una trentina, a vista); le sedie sono posizionate in modo strategico per vedere la scena, improvvisata, su una parete corta, ma certo non è facile vedere tutto quanto lo spettacolo possa offrire. A meno che. Ecco. A meno che non si pensino progetti che proprio qui possano prendere forma e vita, che possano sfruttare questo spazio per quello che è, così da renderlo indispensabile. La scelta di Inequilibrio 2025, quest’anno e in continuità con la sua storia lunga 28 edizioni: “abitare” il Castello, “indagare l’invisibile” dice il programma di quest’anno, forse perduto nel troppo visibile. Il Viaggio in Armenia firmato da Silvio Castiglioni (anche in scena) e Giovanni Guerrieri rappresenta esattamente questa intenzione. La storia narrata dall’attore milanese prende libero spunto dal libro autobiografico omonimo di Osip Mandel’stam che, inviato in Armenia come osservatore degli effetti del piano quinquennale staliniano, scorge e narra i caratteri di una civiltà sottostante ma fiera, ricca di una cultura che faticherà a mantenersi viva sotto la teca asfissiante dell’URSS. Il volto di Castiglioni emerge nel buio da un fascio di luce verso l’alto, sembra provenire da un altrove ma subito si sostanzia proprio lì sulla scena; la storia si dipana – così anche la luce – in una forma diaristica, ma è il libro che la porta avanti, depositario di una testimonianza necessaria che l’antico linguaggio sa rendere al presente. Un mobile di legno come un acquario di vetro sporco sfuma l’immagine nel tempo, il color seppia ne traccia la distanza, la voce di Castiglioni è minuta, cadenzata, le immagini d’Armenia si proiettano su un panno che le mani d’attore sostengono, perché le parole possano fluttuare da un’immagine all’altra, da un’epoca all’altra, da una regione remota al centro della capitale di un mondo concluso in sé stesso, come quello sovietico. (Simone Nebbia)
Visto al Castello Pasquini, Inequilibrio 2025. Crediti: riduzione e adattamento Silvio Castiglioni e Giovanni Guerrieri; interprete Silvio Castiglioni; oggetti, scene e costumi Giulia Gallo; immagini Patrizio Esposito; regia Giovanni Guerrieri; una coproduzione Celesterosa / I Sacchi di Sabbia, per il festival Le Parole di Hurbinek 2025
NON SOLO PANE (di Luca Oldani)
Quando devi raccontare un amico che non c’è più si fa fatica, perché le esperienze e le emozioni si torcono l’una nell’altra e si finisce per restare muti nel silenzio. Ma quando c’è da raccontare un amico degli altri, che magari è stato un poeta, un musicista, un fotografo, uno street artist in una vita breve durata 21 anni appena, allora c’è bisogno di una cura diversa, perché lì le parole sono il tuo mestiere e devono uscire, interpretare il silenzio di chi è rimasto. Alberto Dubito, cresciuto nella provincia di Treviso, ha fatto sentire una voce dirompente e ricca finché ha potuto; ora sta a Luca Oldani ripercorrere il tracciato di una vita, cercando di capire cosa ci sia dietro le scelte definitive. Non solo pane - Alberto Dubito, poeta nato incerto poco prima dell'inverno, al Castello Pasquini per Inequilibrio 2025, è un viaggio per parole e musica – in scena, di Davide Barbafiera, crea paesaggi e sentieri – che Oldani compie in presenza e attraverso estratti documentari di interviste agli amici di Alberto, oppure con la proiezione di un racconto per immagini che cerca di recuperare il clima della provincia, uguale nel mondo. Il meccanismo del racconto è quello della digressione, che riguardi Londra, Leopardi, il possesso di un motorino da adolescente, la narrazione viene costantemente spezzata da ricorsi a qualcosa che continua a lavorare nella mente, anche quando si è cambiato discorso; forse è questo che accade alle menti geniali, dove l’ordine ha caratteri divergenti e si ricompone attraverso ingranaggi originali, forse è questa la chiave per comprendere Alberto Dubito, il cui nome torna come un ritornello che rimandi, sempre, alla sua presenza dietro quella dell’attore. Oldani, prima dietro poi davanti al telo delle proiezioni, con il casco in testa mai allacciato, fa apparire il protagonista – e la sua fine – con un presagio nefasto, scrive una drammaturgia forse ancora acerba e a volte spiegata ma vitale, accentra su di sé l’attenzione del pubblico, ma lo fa curiosamente per allontanare da sé, portando i presenti a spaziare fino a scovare in lui il poeta perduto, creando così un ascolto che fonda insieme poetico e politico in un’unica idea di ribellione al conformismo. (Simone Nebbia)
Visto al Castello Pasquini, Inequilibrio 2025. Crediti: di e con Luca Oldani; musiche e video Davide Barbafiera; produzione Fondazione Sipario Toscana
#VENEZIA - Biennale Teatro
BLINDED BY SIGHT – AN OEDIPUS MONOLOGUE (di e con Princess Isatu Hassan Bangura)
I synth e il riff di chitarra di Free, celebre brano di Florence and The Machine, si sentono fortissimi dall’esterno: è una scarica adrenalinica che accompagna il pubblico mentre prende posto nella Sala d’Armi. Rispetto alla seriosità di altri lavori visti durante Biennale Teatro, questo Blinded by sight – An oedipus monologue, scritto e interpretato da Princess Isatu Hassan Bangura, arriva come una scossa partecipativa, coinvolgente, sensuale, ironica che nonostante il tema serissimo, si prende davvero molto poco sul serio e ciò agevola l’empatia. La riscrittura dell’Edipo da parte della performer è innanzitutto una risposta all’asfissiante realtà quotidiana; per questo lo spettacolo si apre con la canzone Free e con Bangura che danza liberamente e gioiosamente al centro della scena su un piedistallo. Solo dopo una quindicina di minuti circa, questa leggerezza, apparente, si piega su se stessa, facendo assumere a Bangura la posa di una furia che cova rabbia, paura, sgomento e consapevolezza rispetto il presente, fatto di perdita, dolore, menzogna. L’ineluttabilità tragica del mito si impossessa allora del corpo e della voce della performer e tramite di essa si esprime in una disamina impietosa e crudele. Bangura/Edipo sciorina, cadenzandoli con ritmo solenne, versi appartenenti a una visione spaventosa, e allo stesso tempo spaventata, che si contrappone alla danza del prologo come un netto ribaltamento: dalla luce, dal dinamismo, dal calore passiamo così alla densità drammatica di una dolorosa invettiva, che procede gradualmente, lentamente, cristallizzandosi in una statuaria posa, e nella quale anche noi cadiamo. Mezz’ora di spettacolo, breve, intenso, sold out da subito con molte persone rimaste fuori che fino a pochi minuti prima dell’inizio speravano in una lista d’attesa. (Lucia Medri)
Visto a Biennale Teatro, Sala d’Armi: Scritto e interpretato da: Princess Isatu Hassan Bangura, Musica: Edis Pajazetovic, Traduzione e adattamento sovratitoli: Matilde Vigna, Produzione: NTGent. Foto Biennale Teatro
THEATRE NO THEATRE – THE INANNA PROJECT (regia di Thomas Richards)
«Quest’anno volevo portare persone che conoscevo, con cui ho lavorato, di cui seguo il lavoro. L’anno prossimo farò qualcosa di diverso». Willem Defoe, direttore di Biennale Teatro, è stato molto onesto nella sua selezione, e tale coerenza la si rintraccia in molte delle scelte fatte. Tra cui, quella di Thomas Richards: classe 1962, ex direttore del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards chiuso definitivamente nel 2022, e per sempre erede e testimone del maestro polacco Jerzy Grotowski, i cui insegnamenti, poetica, e sacra povertà rituale sono stati messi in scena con The Inanna Project. La mitologia sumera attorno alla figura di Inanna trascende le barriere del tempo e della lingua per calarsi nella contemporaneità attraverso un linguaggio sincretico e meticcio, in cui l’indole femminile guerriera e materna della dea viene tradotta nelle lingue, canti e posture espressive dei e delle performer - Hyun Ju Baek (Corea del Sud), Ettore Brocca (Italia), Kei Franklin (Stati Uniti d’America), Alejandro Linares (Spagna), Jessica Losilla-Hébrail (Francia), Fabio Pagano (Italia). Gli attori e le attrici sono guidati da Richards per far bruciare, ancora, quella sacralità da Grotowski, e dalla sua enclave, tanto agognata. Il libretto si poggia sulle cosiddette Actions che nella pratica del Workcenter corrispondono a delle strutture performative basate su canti tradizionali, con linee di azione fissate che, se all’epoca non venivano mostrate al pubblico, oggi invece, e in questa occasione, vengono condivise come parti strutturali di un rito esteso e collettivo. Una lunga, vivida e passionale esperienza di comunità teatrale che traccia una linea con l’edizione di Biennale 1975 diretta da Luca Ronconi, in cui si presentava quello che sarebbe stato definito “new theatre” e di cui Grotowski, e quindi Richards, come anche il Living Theatre e Richard Schechner sono stati i pionieri. The Inanna Project permette al pubblico di conoscere, chissà per la prima volta, e alle studiose e agli studiosi di recuperarne la memoria e lo studio, quella modalità di fare teatro sulla quale si basano oggi molte delle pratiche di training, relazione, processo creativo, educazione alla scena. (Lucia Medri)
Visto a Biennale Teatro, Teatro alle Tese: Regia: Thomas Richards Assistente alla regia: Jessica Losilla-Hébrail Con: Hyun Ju Baek (Corea del Sud), Ettore Brocca (Italia), Kei Franklin (Stati Uniti d’America), Alejandro Linares (Spagna), Jessica Losilla-Hébrail (Francia), Fabio Pagano (Italia), Thomas Richards (Stati Uniti d’America). Foto Biennale Teatro
I MANGIATORI DI PATATE (di Romeo Castellucci)
Guardando l’opera Angelus Novus di Paul Klee, Walter Benjamin disegna un’inquietante allegoria nelle sue Tesi di filosofia della storia: uno spirito alato «con il viso rivolto al passato» ma costretto a proseguire avanti risucchiato da una tempesta; al passato e alle sue rovine questi volge le spalle. Di certo Romeo Castellucci ha presente l’immagine, quando crea l’azione I mangiatori di patate, al desolato sito del Lazzaretto Vecchio di Venezia, per Biennale Teatro 2025. Guidati da una debole torcia, compiamo una catabasi gelidamente organizzata in tre stazioni. Nella prima un essere agita gli ultimi sussulti dentro a un sacco di plastica; poi un braccio meccanico che oscilla dinoccolato da un cavo compie un ritmico martellare al disturbante suono dell’ingranaggio. La visione frontale tanto cara al regista si ricompone nella terza: osserviamo la schiena dell’angelo. Compiuto il proprio viaggio verso il fondo buio, la statua lascia il posto a un gruppo di performer in abiti da minatori, che ci riporta all’omonimo quadro di Van Gogh, testimone della sofferta umiltà di un’ennesima cena. Pelle annerita dal fumo si tira su fisionomie rocciose, che qui – con picconi maneggiati e mai davvero usati, legati alla bieca intelligenza del braccio meccanico – rivivono in un’improbabile danza all’unisono, preparazione al rituale. Una donna senza veli è trasportata in proscenio, sul suo corpo bianco latte scorre un rivolo di sangue, ferita antica e imprecisabile, mentre alla voce si sostituirà un disturbante rantolo (torna la laringectomia di Giulio Cesare), quasi il monologo in lingua morta di una posseduta. A ghiacciare lo sguardo è il precipitare in un buio pesto, riempito solo da un vortice d’aria frontale in grado di far perdere l’equilibrio. Scostando le tende che danno sulla laguna, i minatori risultano ombre gravi e plastiche: inconsapevoli astri di una costellazione di simboli muti, alludono a un’umanità grottesca e monolitica, figure sottoesposte in una camera oscura da cui non uscirà alcuna stampa. Se il lavoro di Castellucci sempre chiama uno sguardo privato d’innocenza, si assiste qui in diretta al manifestarsi di un’eretica teofania, l’opportunità di lasciarsi andare al mistero; la statua adesso ci mostra la fronte, ma la fronte non c’è: la testa è assente come in una desolante Nike di Samotracia. Se noi eravamo il futuro che l’angelo stava cercando di guardare, ci troverà con espressione smarrita. «Ciò che chiamiamo il progresso – chiudeva Benjamin – è questa tempesta». (Sergio Lo Gatto)
Visto a Biennale Teatro. Crediti: Di Romeo Castellucci; Musica e voci Scott Gibbons, Oliver Gibbons; Drammaturgia Piersandra Di Matteo; Con Luca Nava, Sergio Scarlatella, Laura Pante; Crediti completi
SPIRA (musica di Daniela Pes, regia e scenografia di Alessandra Mura)
La musica di Daniela Pes è senso sonoro, propagazione emotiva, spazio mentale nel quale far riaffiorare un'istintualità primigenia e tramite cui visualizzare la realtà che ci circonda. È corpo bruciante in viaggio verso i nostri sensi, a volte sembra che si scagli con dirompenza da anni luce di distanza, altre da un millesimo di istante prima. Racchiusa nel suo album d’esordio, Spira (2023), prodotto da Iosonouncane, c’è una mostruosità meravigliosa fatta di una lingua sacra in versi che attinge al gallurese antico e lo trasforma in un linguaggio umano e animale indefinito che si muove, ansima, si contorce, si libera esaltandosi in una partitura di sette schegge sonore. Dalla collaborazione tra Pes e Alessandra Mura, costumista e scenografa che cura gli abiti dell’artista durante il tour dell’album in corso, è nato questo evento parallelo per Biennale Teatro che dà a Spira, come riporta il libretto di sala, «una dimensione teatrale». Il disegno illuminotecnico costruito attorno alla figura di Pes è infatti quello di uno spettacolo che, tramite un’abbondanza di luci di taglio, mette in risalto la potenza dell’artista: al centro della suggestiva sala del Teatro alle Tese, lei è china su un tavolo dal quale suona, con malia stregonesca, i suoi brani servendosi di synth, sequenze e loop machine. Sarebbe bastata anche solo una luce a illuminare la totalizzante performatività di Pes senza che la sua figura venisse accostata a un’estetica non solo poco organica alla musica stessa ma appartenente a un immaginario teatrale ormai desueto (dai movimenti e costumi della danzatrice Lucrezia Zuliani, agli oggetti come le corde, i finti massi, l’abito appeso, il fumo). Il tappeto bianco viene illuminato a tratti dal palesarsi confuso dei gobos delle teste mobili alternate ai sagomatori di taglio e alle strobo, quest’ultime forse le più coerenti tra le scelte registiche. La teatralità del suono di Daniela Pes è insita nell’orecchio di chi la ascolta; “portare in scena” la sua musica è sicuramente una prova coraggiosa che però deve fare i conti con un progetto, quello di Spira, che si configura già come una creazione assoluta bastante a sé stessa. (Lucia Medri)
Visto a Biennale Teatro, Teatro alle Tese: musica di Daniela Pes, regia e scenografia di Alessandra Mura. Foto di Andrea Vezzù
#NAPOLI
LA PRINCIPESSA DI LAMPEDUSA (di R. Cappuccio, regia S. Bergamasco)
All’ingresso in sala il sipario è già aperto su un quadro cifrato al fondo dall’orizzontalità di una schiera di spighe di grano, i cui toni ambrati faranno da orizzonte materico per i cambi di cromia di un tetto che le luci decreteranno riflesso dal blu al turchese, dal giallo al verde, dal nero al rosa. Appesa al centrale dei tre archi in pietra e metallo dorato c’è un’altalena in legno e corda. Diventerà il principale polo di costruzione del dinamismo della dimensione scenica del monologo che Sonia Bergamasco fa diventare spazio con la leggiadria cosciente del suo corpo avvolto dalla leggerezza velata di un vestito panna, a impastarsi a tratti a un tessuto sonoro ove i fuori campo (il canto ritmico dei grilli, la musica del Valzer Brillante di Rota ispirato a Verdi, la sua stessa voce, il crepitare sottinteso dei bombardamenti, …) faranno da controcanto di sconfinamento della scatola ottica. Unica cacofonia nella qualità della presenza quella di un’inflessione siciliana non del tutto armonica all’orecchio. La derivazione è dal romanzo edito da Feltrinelli nel 2024. L’adattamento è dello stesso Cappuccio che affida a Bergamasco regia e interpretazione di Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, donna aristocratica e altera, principessa affascinante e mondana, eterea e densa, personalità iridescente collocata sul crinale di un’epoca che cambia i propri paradigmi tra le esplosioni della Seconda Guerra Mondiale, madre dell’autore Giuseppe Tomasi di Lampedusa e del dolore di una figlia morta troppo presto. Il fulcro della narrazione delinea il presupposto de Il gattopardo nel profilo della donna, spostando la linea della Storia sull’asse di un femminile che qui definisce anche un passaggio dell’eredità concettuale e materiale, quindi un filo di continuità ed evoluzione nella figura della giovane Eugenia, cui la principessa offrirà sostegno e ispirazione sulla via dell’emancipazione e dell’affermazione del sé. Come sovente accade, l’adattamento, fisiologicamente assoggettato dal libro a una compartimentazione, lascia l’impressione di una compressione che, seppur organica e coerente da seguire, non riesce – fuori dall’impegno attorale e registico – ad affrancarsi del tutto dalla parola letta per tramutarla in lingua scenica e consegnarla alla tridimensionalità del Teatro. (Marianna Masselli)
Visto al Campania Teatro Festival di Ruggero Cappuccio diretto e interpretato da Sonia Bergamasco musiche Marco Betta, Ivo Parlati scena Paolo Iammarone e Vincenzo Fiorillo costume Carlo Poggioli luci Cesare Accetta produzione Teatro Segreto
(H)AMLETO (Factory compagnia transadriatica)
Un lampadario a due ordini di luci campeggia in sospensione al centro in alto, è inclinato come per derivazione degli smottamenti, dei dubbi, dei sommovimenti interiori e della tensione alla caduta, quel richiamo, quell’indagine del fondo dei baratri più o meno interiori che l’Amleto come nessun’altro ha saputo restituire alla storia, per la scena e oltre essa. In questo adattamento prodotto dalla salentina Factory Compagnia Transadriatica di Tonio De Nitto, che lo ha curato insieme a Fabio Tinella, il principe di Danimarca è sdraiato nel mezzo della dimensione delimitata dall’arco di proscenio, il teschio lo porta addosso, disegnato sulla maglia. A contornarlo la semicircolarità degli altri interpreti, in principio tutti presenti nel blu del tono delle luci che poi si scioglieranno naturali salvo incursioni di cesura (rosa, azzurro, …). L’essenzialità di un ambiente di nero immersivo, su cui la corte di figure si disegna netta, sarà smorzata da una feritoia triangolare che si aprirà solo a tratti più avanti, per segnare il crinale tra la vita e la morte. C’è il nostro (H)amleto in tenuta ginnica, Claudio che si muove su una bici dorata come i suoi paramenti regali e la madre con l’abito purpureo e la corona in testa, c’è Ofelia con i fiori in prossimità del capo e poi certo ci sono Guilderstern e Rosencrantz, Polonio e Orazio, Laerte e la compagnia dei comici a riprodurre l’assassino paterno, ci sono i due becchini e lo spettro del padre che cifrerà uno dei quadri visivamente più incisivi nella persistenza della fruizione agli occhi. Il lavoro “è il punto di arrivo della ricerca di Factory su teatro e disabilità, un’indagine sul corpo non conforme, …” ove il testo trova la propria scaturigine nell’assemblamento di una lunga raccolta di pensieri, messaggi e lettere di Fabrizio, l’attore (con sindrome di Down) qui nel ruolo del protagonista. Della vicenda originale nulla si perde, in un adattamento, anzi in una vera e propria riscrittura che ha tra i tratti testuali principali quello del meccanismo della ripetizione a centrifugare certi lemmi magnetici per la condensazione semantica che racchiudono, come “amore” “mio” “essere” solo per citarne alcuni e che non abdica in nessun modo alla ricerca di una precisa prospettiva estetica. (Marianna Masselli)
Visto al Campania Teatro Festival di (H)amleto liberamente ispirato ad Amleto di William Shakespeare una produzione di Factory compagnia transadriatica a cura di Tonio De Nitto e Fabio Tinella assistente Carmen Ines Tarantino testo Fabrizio Tana con Alessandra Cappello, Lara Capoccia, Anna Giorgia Capone, Nicola De Meo, Francesca De Pasquale, Francesca Peluso, Alessandro Rollo, Antonella Sabetta, Stefano Solombrino, Diomede Stabile, Fabrizio Tana, Carmen Ines Tarantino, Silvia Lodi, Fabio Tinella, Elena Urso luci Davide Arsenio costumi Lilian Indraccolo scene Egle Calò VoiceOver Lorenzo Paladini musiche Paolo Coletta
IN RIVA AL MARE (regia Francesco Frongia)
C’è un pannello al fondo per le proiezioni, a sinistra l’architettura dello spazio si impenna in una colonna con la sommità spiovente di un tetto chiusa da due sportelli sul fronte, a destra due blocchi - che uniti ne fanno uno solo – recano due vani cavi e quadrati, scopriremo solo poi che custodiscono dell’acqua, uno dei pochi segni scenici. Il microfono all’asta, avanti a sinistra suggerisce già che assisteremo a un monologo, d’altronde il titolo è lo stesso del romanzo pubblicato da Véronique Olmi nel 2002 (edito in Italia dal 2004 per Einaudi). La linea narrativa è incentrata su una madre con due figli di cinque e nove anni che decide di portare in vacanza al mare per la prima volta. Gli entusiasmi sbiadiranno sotto la pioggia battente, annegheranno in una moltitudine oscura e agitata che nulla ha a che vedere con le acque adamantine delle immagini delle vacanze, si tramuteranno in una sequela di piccole e gigantesche sconfitte, di ordinarie e terrificanti frustrazioni, di solite e cosmogoniche delusioni, negli occhi di lei, che continua a ripetere e a ripetersi «Aspettano tutti il passo falso» per dar voce all’invisibile e monumentale tragedia una donna sola in un mondo di solitudini, destinata a giungere sino al punto di non ritorno. Il grigio dominante della scena di Mimmo Paladino restituisce la dimensione percettiva e psicologica del personaggio interpretato da Ginestra Palladino, la sua lente di osservazione del mondo, mentre le proiezioni in bianco e nero fanno da elemento visivo di rimando sul piano suggestivo, sfuggendo alla didascalia e rimanendo al contempo accessibili e coerenti, unico differenziale momentaneo quello di una sagoma umana irraggiata e irragiante il cromatismo deciso di luci da festa per segnare il passaggio dei tre alla fiera del paese. Alla presenza in scena della Paladino è demandata la gestione di uno spazio che diventa campo d’azione attraverso un’articolazione misurata che, tuttavia, non ci strappa del tutto a una certa fatica dovuta all’impressione che l’asse di trasposizione non riesca a fare il salto per acquisire una necessità drammaturgica compiuta, restando a tratti ancora troppo sbilanciato sul fronte del libro piuttosto che della messinscena. (Marianna Masselli)
Visto al Campania Teatro Festival di Véronique Olmi regia Francesco Frongia con Ginestra Paladino collaborazione artistica Mimmo Paladino luci Cesare Accetta Teatro dell’Elfo, Fondazione Campania dei Festival
ORGOGLIO E PREGIUDIZIO (regia di Nino Graziano Luca)
Il destino di certe artiste timide, affascinanti e però anche capaci di misteriose alzate di carattere può essere segnato da un nomen omen. Al Campania Teatro Festival, al teatro Trianon Viviani, col suo serio e delicato carisma Laura Morante s’è impegnata come voce recitante in una lettura/performance di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, e noi che conosciamo (anche grazie a certe sue acute e ‘orgogliose’ riflessioni maturate in un’intervista di Antonio Gnoli) il suo non facile stato d’animo con la zia Elsa Morante, ora, qui, nei suoi interventi scenici sulla vasta trama della famiglia delle ragazze Bennet alle prese con i giovanotti Bingley e Darcy ci rendiamo conto della sua insinuante e autorevole forza d’attrice al culmine dello spettacolo, quando lei entra nelle parole e nel ruolo della sgradevole, inopportuna, invadente e molesta zia di Darcy, Lady Catherine De Bourgh, che pretenderebbe lei s’astenesse dall’avere rapporti col nipote. Fatemi dire che il tono alterato, l’emotività ostile e la rabbia in fin dei conti esplicita di questa figura di donna m’ha non poco fatto sovvenire, molto in tema con la locuzione nomen omen, la trascorsa barriera di incomunicabilità del non-confronto Morante versus Morante. Affermerei che proprio nel dialogo tra Lady Catherine e Elizabeth (la quale ultima si rifiuta di dar seguito alla caratteriale intimazione della zia del suo Darcy, in vista ormai del doppio matrimonio di lei con lui, e di Jane con Bingley), in quell’alterco borghese di primo Ottocento c’è l’immagine sonora che Laura Morante sa dare a un passaggio di cultura, a un’evoluzione di coscienza, a una conquista della libertà. I suoi timbri duramente importuni e vittoriosamente saldi sono il suo patrimonio di artista ex timida. Cui consiglieremmo solo di non usare montature d’occhiali e abiti così occultanti la sua armonia. L’evento s’è avvalso di countrydances, quadriglie e valzer della Compagnia Nazionale di Danza Storica diretta (anche a voce) da Nino Graziano Luca. (Rodolfo di Giammarco)
Visto al Teatro Trianon, Campania Teatro Festival “Orgoglio e pregiudizio” da Jane Austen Con Laura Morante e la Compagnia Nazionale di Danza Storica con regia e coreografie di Nino Graziano Luca un’idea di Elena Marazzita Aidastudio produzioni Costumi. Andreas Di Dio e Farani Sartoria Teatrale Teatro Trianon Viviani, 14 giugno 2025
#ROMA
NEURAL FUGUE (di Giuliano Logos)
A leggere il foglio di sala di Neural fugue, quindici minuti di prova a scena aperta di Giuliano Logos - poeta, rapper e primo italiano vincitore nel 2021 del campionato mondiale di poetry slam - si parte l’aspettativa di una sperimentazione tra poesia declamata e intelligenza artificiale. L’incontro effettivamente avviene in scena: tra l’idea classica di condivisione del verso poetico per tramite di un novello aedo e una forma “sostenibile” di machine learning in grado di produrre un tappeto sonoro che si adatta alla prosodia/flow del discorso pronunciato (sostenibile perché meno dispendiosa sul profilo energetico, ci rivela in scena, questo progetto sviluppato dall’Università di Tor Vergata, A-MINT). Eppure, questo è forse l’aspetto più debole della performance, perché per quanto la macchina sia in grado di processare ritmi in continuo mutamento, non riesce ancora a rispettarne toni e volumi, sovrapponendosi alla voce dell’artista le cui parole per le file più lontane sono diventate di difficile comprensione. Ma, tolto il “problema di soundcheck” non appena la tecnologia sarà presto in grado di affinarsi ulteriormente, l’aspetto più interessante della prova sta non nel dispositivo, ma nel pensiero. Il cuore più interessante dell’esperimento, inserito nella sezione Digitale dello Youth Fest di Dominio Pubblico, è nella riflessione di Logos sulle possibili vie d'uso, negative e positive, con le tecnologie. Dopo una parte introduttiva (che serve al pubblico per comprendere i dati in campo e a lui per testare la macchina), prosegue con due racconti immaginifici, raccontando applicazioni di tecnologie diverse: una del passato, legata a rituali di mare, dove la tecné vocale del “tagliatore di trombe d’aria” diventa magia salvifica in grado di riportare a casa le barche che uscivano durante le tempeste. La seconda diventa racconto poetico di un possibile futuro post apocalittico, dove il mondo quasi distrutto prova a guarire grazie alle proprietà dei girasoli (in grado di assorbire radiazioni); qui l’uomo non canta più, la voce, ancora sorretta dall’uso delle figure retoriche, a volte si concede il balbettio e sonorità preverbali, quasi fossero manifestazioni tangibili del mondo spezzato, ma del quale forse qualcosa sembra ancora salvarsi. La bontà della tecnologia è sempre nell’uso che se ne fa. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro India per Dominio Pubblico Youth Fest | Prova a scena aperta di Giuliano Logos con AI speech-to-music.
REMOTE ROMA (di Rimini Protokoll)
Rimini Protokoll da oltre vent’anni esplora e reinventa il dispositivo performativo per sondarne le possibilità, indagando il presente e guardando al futuro. Con Remote X, format di audiowalk andato in scena nelle più grandi capitali del mondo ed arrivato a Roma tramite il festival Sempre Più Fuori, Stefan Kaegi e i sound designer Niki Neecke e Tobias Koch invitano il pubblico a prestarsi a un puro esperimento di eterodirezione. Quella dose di abbandono sempre implicitamente richiesta nella fruizione di questo genere – la camminata sonora - ormai molto frequentato, viene esplorata in quanto tale. Fino a che punto siamo disposti cedere la nostra libertà, rinunciare all’arbitrio? E cosa succede deleghiamo la nostra volontà a un’intelligenza artificiale cosciente di non avere una coscienza? Il percorso coinvolge circa 50 spettatori convocati all’interno del Cimitero monumentale del Verano. L’inizio è una visita guidata meditata, un invito a posare lo sguardo su pietre e lapidi e interrogandole sondare noi stessi. Nell’attraversamento, quella voce asettica esplora l’umano, lo guarda con stupore, senza celare il proprio ruolo di comando: sa che lo spettatore glielo riconosce pienamente. Così si attraversa la strada solo ad un suo segnale e non quando il buon senso ci dice che è più sicuro. Si giudica il paesaggio urbano nella sua incoerenza. Si improvvisa una manifestazione senza fondamento. Si scopre di essere un’orda, un insieme di individui isolati ma tutti al servizio di una volontà che non ha corpo. Si violano degli spazi riservati ad un altro tipo di attraversamento: un reparto di un ospedale, una cappella. Ci si ritrova divisi in gruppi con prerogative e privilegi diversi. Ma con la forza e l’autorizzazione del gruppo ci si libera anche di inibizioni, pose sociali, convenzioni. Si balla nei vagoni della metro, ci si guarda negli occhi attorno a una fontana. Finché, con un’ultima scalata in cui la coscienza si mescola alla fatica, si raggiunge il punto più alto: lì tutto si dissolve, la città riprende i contorni che per routine gli diamo e ognuno torna – suo malgrado? - responsabile di se stesso. (Sabrina Fasanella)
Visto in anteprima al festival Sempre Più Fuori Ideato e diretto Stefan Kaegi, sound design Niki Neecke e Tobias Koch, co-produzione internazionale Cranpi, Rimini Protokoll e Goethe-Institut Roma.
CANTANTI (di Mario Gelardi, regia Carlo Geltrude)
È sorprendente, chiaramente, ma va detto: dietro le storie disumane c’è sempre qualche storia umana. Cioè, ci sono esseri umani che respirano, mangiano, dormono, ma poi diversamente da altri aggiungono un elemento fuori contesto: diventano dei mostri, si macchiano di crimini inarrivabili che gettano l’umanità in un territorio irrecuperabile. Si avverte nell’aria questo pensiero mentre si assiste a Cantanti, testo di Mario Gelardi messo in scena da Carlo Geltrude anche interprete insieme a Luigi Bignone, sul palco del Teatro Argot Studio dove lo spettacolo ha vinto l’edizione V della rassegna Over, lo scorso anno. È una storia di mafia, di quelle che hanno riempito giornali e tg negli anni novanta, riguarda due personaggi noti per essere fulcro di stragi che macchiano di sangue i libri di storia: Giuseppe Brusca ed Enzo Salvatore Brusca, fratelli di mafia, uomini “d’onore” secondo un codice che di umano ha poco o nulla. La narrazione impostata da Gelardi mette a fuoco il prima, ossia il tempo in cui la mafia non è che un racconto dei grandi, un’eredità dei padri che i figli non possono, pare, sconfessare. Geltrude raccoglie la necessità di caratterizzare i due personaggi in una Sicilia rurale, vittima di tradizioni arcaiche la cui brutalità è pari solo a quella contro gli animali scannati, secondo quella ritualità antica e bruciante in cui pare sia immersa l’eternità del mondo. Eppure Giuseppe e Enzo – autori per capirci della strage di Capaci e del sequestro-omicidio Di Matteo – sono due ragazzi, prima di tutto, la mafia interviene nelle loro vite come un passaggio di consegne naturale, per loro prendere parte a un delitto è lo stesso che condurre il bestiame o rassettare le stalle, significa semplicemente diventare adulti. Agghiacciante, ma è così. È questo ciò che emerge con maggiore forza da uno spettacolo recitato con entusiasmo e misura: il desiderio di vita passa attraverso meccanismi di morte, il canto alleggerisce un racconto grave e minaccioso, che resta sotto le note della chitarra e della voce. Ma non si estingue mai. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argot Studio. Crediti: progetto e regia Carlo Geltrude; scritto da Mario Gelardi; con Carlo Geltrude e Luigi Bignone; aiuto regia Mario Ascione | Costumi Rachele Nuzzo; Argot Produzioni
L’AMORE MIO NON MUORE (di Roberto Saviano)
Di Rossella Casini, ragazza fiorentina ventiduenne studentessa di Pedagogia (lei diceva Psicologia) che dal 1977 si mise sentimentalmente col collega e coetaneo calabrese Francesco Frisina, di lei che scomparirà poi da Palmi e dal mondo in maniera orrenda il 22 febbraio 1981, è rimasta solo una fototessera che, elaborata e ingigantita, fa da copertina del libro Einaudi L’amore mio non muore di Roberto Saviano, approfonditore di storie tragiche. Lo stesso volto campeggia sul fondale della trasposizione scenica che Saviano ne trae, all’Auditorium Conciliazione. Il protagonista si rende all’inizio visibile in modo cauto, su una scrivania, oratore in cerca di sbagli, slanci, coraggi, desideri, ossessioni. S’aiuta (bene) citando Majakovskij, Apollinaire, i miti greci di Teti e Peleo, soffermandosi sul tema dell’utopia. Poi entriamo nella ricostruzione dei fatti. La famiglia di Francesco ha relazioni strette con una potente ‘ndrina di Gioia Tauro. Accade qualcosa che implica coinvolgimenti di faida, lui vorrebbe escludere lei, lei non vuole sottrarsi. Alla felicità non si voltano le spalle. C’è un paradigma di parole elleniche, anche una declinazione di neologismi intimi, barbari. E si sconfina nel Vangelo. Poi Saviano intercetta i far west umani del sud, un agguato di cui Francesco finisce vittima. Ma lei sa assisterlo, e capisce che l’unico rimedio è rompere la catena delle violenze. Parlando col boss della parte avversa. Vincente è il far leva su sigla e immagini di Fuori orario, col film L’atalante di Jean Vigo, e il brano “Because the Night” di Patti Smith. Rossella incontra il capo antagonista, chiedendo una tregua. Per amore. Il confronto avviene, e termina. Dopo verrà rapita, stuprata, mutilata, gettata in mare. La criminalità non sente l’amore. Eppure Saviano riesce a (ri)costruirne un intrigo straziante, che toglie il respiro. Recitando, parlando con calma. Teatralizzando la passione, il rischio estremo, la morte infame e anonima. (Rodolfo di Giammarco)
Visto all'Auditorium Conciliazione. Recital teatrale ricavato da e con Roberto Saviano, dall’omonimo libro Einaudi Regia di Enrico Zaccheo Produzione Savà Produzioni Creative
#MILANO
PAGINA (regia di Giovanni Ortoleva)
Il centenario della nascita di Italo Calvino, nel 2023, ha generato sul territorio ligure un esteso corollario di manifestazioni. Tra queste, una produzione del Teatro della Tosse, intenzionata a mettere in scena la trilogia de I nostri antenati. Se non si rilevano repliche fuori dai confini genovesi per gli spettacoli ispirati a Il visconte dimezzato e a Il barone rampante, diretti rispettivamente da Emanuele Conte e Laura Sicignano, quello su Il cavaliere inesistente, diretto da Giovanni Ortoleva e scritto con Riccardo Baudino, circuita in autonomia. Lo troviamo nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, all’interno del festival Da vicino nessuno è normale. Sopra un’ampia pedana a forma di libro si trascina Valentina Picello. I suoi abiti monacali la identificano come Bradamante, la paladina ritiratasi in convento con il nome di Suor Teodora, che presta la propria memoria e la propria penna alle vicissitudini degli altri personaggi del romanzo: «A ognuna è data la sua penitenza, qui in convento, il suo modo di guadagnarsi la salvezza eterna. A me è toccata questa di scriver storie: è dura, è dura», le fa dire Calvino. Ma a vederla muoversi sulla scena, contorcersi, nera com’è, sul corpo ligneo del libro, sembra un segno sgorbiato, un incomprensibile arabesco inciso sulla pagina, e trasmette la fatica dello scrivere che è di Bradamante, che è di Calvino, ma che è anche di Ortoleva: «Una scrittura spastica che avviene per caso, come cadere. […] Parole che nessuno vuole, da buttare, da rifare. Linguaggio residuale, ma sempre linguaggio, sempre linguaggio». La breve pièce del drammaturgo fiorentino non ricalca mai letteralmente il proprio modello, ma ne trae una riflessione a sé stante sul confronto quotidiano col linguaggio, sul tradimento del reale che un autore compie quando tenta di rappresentarlo, fondendo assieme considerazioni sulla scrittura già proprie di Calvino e inedite punte di delirio mistico, magistralmente interpretate da Picello. Forse qui sta la ragione della sua fortuna. (Matteo Valentini)
Visto al Teatrolacucina. Crediti spettacolo Liberamente ispirato a Il cavaliere inesistente di Italo Calvino di Giovanni Ortoleva e Riccardo Baudino liberamente ispirato a Il cavaliere inesistente di Italo Calvino con Valentina Picello musiche Pietro Guarracino movimenti a cura di Anna Manella luci Davide Bellavia produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse di Genova
FRATELLI (di Antonio Viganò)
Fragile, luminescente e segreto. Nello spazio mentale e purgatoriale (soffitta? cantina? trans-loco?) della scena (cristalleria, deposito) pendono lampadari a varie altezze e stazionano vuote casse di legno (che saranno luci, mari in tempesta e giostre, palchi e abissi, nascondigli, sentieri, fuochi). Il corpo a corpo simbiotico, simbolico e fraterno (ma in ogni fraternità vi è pur il riverbero di Caino e Abele) è una danza densa (con tracce di Bausch) di gesti e sudore, gioco di inseguimenti, mosca cieca e nascondino, caccia a tesori, infanzia (per etimologia: muta) che affiora dalle fiabe e nel mito (da Pinocchio in cerca di Balocchi a Icaro in cera che si scioglie). Siamo nel luogo incandescente della trasformazione e dell'incastro, nella lotta/abbraccio di un fratello narratore e un fratello provocatore (che sono anche figli e genitori reciproci), nel tentativo vano e necessario di provare a dire, o anche solo sentire, e nel sabotaggio domestico che il mistero e la malattia (lo spettro dell'autismo: tratto dal romanzo di Carmelo Samonà) operano. Cura e protezione del maggiore, ma anche esasperazione, voglia di mondo e desiderio di fuga (tentazione d'indossare quell'abito che farebbe l'adulto, là su una gruccia). Un vortice dentro nel minore parla con i suoi tic, petizioni e ripetizioni, opposizioni, macigni dentro, testate opache e parole indiziarie. La diversità è nocciolo duro (ferite di cui il teatro di Antonio Viganò e la compagnia la Ribalta, per citare Otello Circus, non ha paura), è sasso nella scarpa, pietra d'inciampo (scandalo), masso di Sisifo (fatica escheriana) e sassolino di Pollicino (per tornare a casa). "Cercami, cercami ancora, anche se mi hai trovato”. Intorno a questo movente paradossale si formano e decostruiscono i gesti e la parole, gli scontri e le carezze messe in corpo da Paolo Grossi e Michele Calcari con una fisicità ri-sentita e sprizzante emozioni, in un teatro capace di evocare senza spiegare, gioie e attrito dei legami, credibile e toccante anche se (o proprio quando) la logica deve arrendersi come il cadavere dormiente di un bimbo spiaggiato, calco finale in cui la parentela intima si fa eco dello stare al mondo. (Matteo Columbo)
Visto al teatroLaCucina nell'ambito del festival Da vicino nessuno è normale Liberamente ispirato al romanzo di Carmelo Samona regia, costumi e scene: Antonio Viganò testi: Carmelo Samonà, Antonio Viganò, Remo Rostagno, Michele Fiocchi con: Michele Calcari e Paolo Grossi light designer: Melissa Pircali assistenza drammaturgica: Gianluigi Gherzi produzione: Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt in collaborazione produttiva con Balletto Civile e Gli Scarti ETS
LEXICON (di Eliana Rotella, regia Giulia Sangiorgio)
Un tentativo di dirsi l’amore continuamente frustrato dalla distanza fisica, dal traffico, dal meteo, dalla personale ingiunzione al non dire e al non dirsi. Un dialogo tra due donne, in due città diverse, a confronto con la perplessa assenza dei genitori, con la mestizia del lavoro precario, con l’avvertimento della propria impotenza. Lexicon, presentato in forma di mise en espace per la rassegna ITACA del Teatro Fontana, è un testo che non si sforza di essere generazionale, eppure lo è. Nell’esergo che lo introduce, la sua autrice, Eliana Rotella, si sofferma sulla definizione del termine lexicon, che si lega generalmente a biblìon (“libro”), ma che è anche derivato da leksis (“discorso”). Della parola, allora, lexicon tiene in sé sia l’aspetto relazionale e performativo proprio del discorso (il dis-cursus, almeno secondo Roland Barthes, «indica, in origine, il correre qua e là, le mosse, i “passi”, gli “intrighi”»), sia quello cristallizzato e individuale del libro, della lettura privata. Al di là dei loro scambi frettolosi e distratti, compiuti tra il bordo del letto e la sella di una bicicletta, infatti, le due protagoniste si esprimono principalmente attraverso estesi messaggi ipotetici, cancellati, interrotti o disturbati, che fungono da luogo di elaborazione, mai decadente o compiaciuta, di un disagio economico, sociale ed esistenziale. I suoni ambientali, creati digitalmente da Andrea Centonza, come il ticchettio delle tastiere o lo scrosciare della pioggia, acuiscono questo senso di solitudine, creando vere gabbie sonore attorno alle due interpreti, Ilaria Felter e Lorena Nacchia che, con la regista Giulia Sangiorgio, completano la compagnia Corpora. Nell’incontro post spettacolo condotto da Claudia Cannella, Sangiorgio ipotizza di continuare a proporre Lexicon in questa “forma ridotta”, nell’attesa che una produzione si faccia avanti e decida di dare alla compagnia i mezzi per trasformarlo in uno spettacolo: una chiamata che, per veder esplodere scenicamente un testo così raffinato, mi sento di sottoscrivere. (Matteo Valentini)
Visto al Teatro Fontana ideazione compagnia Corpora testo di Eliana Rotella regia di Giulia Sangiorgio con Ilaria Felter, Lorena Nacchia, Eliana Rotella multimedia Andrea Centonza organizzazione Caterina Gruden grazie al sostegno di Zona K Testo finalista alla 57esima edizione del Premio Riccione -Tondelli Testo vincitore “Next Generation” – premio Carlo Annoni
#ROMA
EAT ME (di Giorgia Lolli)
Un invito e una provocazione: Eat me. Questo il titolo della coreografia di Giorgia Lolli che insieme a Sophie Annen pervade la scena del Teatro India, sostenute dal sound design di Sebastian Kurtén, dai costumi di Suvi Kajas e dalle luci di Elena Vastano. Questi tre linguaggi si compenetrano armonicamente creando una dimensione attraente e ipnotica, spesso integrando elementi sottilmente disturbanti, che però continuano ad avvinghiare l’attenzione di chi guarda. Il bustino e i leggins di ciniglia morbida con fantasie animalier tra il porpora, il viola e il cipria, trasformano le gambe in tentacoli, quasi fossero, le due danzatrici, due sirene - mostruose perché inarrivabili - di cui intuiamo corpi ma ne vediamo solo parti cangianti, intente ad attrarre gli spettatori senza dar la soddisfazione che l’azione dello sguardo possa essere reciproca. La continua negazione di soddisfare il desiderio di vedere, finalmente e - con l’atto della vista - conquistare, porta lo spettatore dentro gli abissi di movimenti circoscritti a un piede, un polso, gambe sovrapposte che scivolano sull’altra, sobbalzi assoluti come assolute sono le azioni di un animale, senza indugio, molli e decise e, per questa ambiguità, inafferrabili. Il tappeto sonoro si stratifica di vocalizzazioni ed eco, sciabordii, risucchi e mordenti, senza mai arrivare a un’esplosione ma mantenendo la tensione costante; così prosegue la coreografia, più ritmicamente sostenuta e geometricamente astratta, lasciando però una sorta di sottile nostalgia per quei corpi quasi celati, capaci di trasformarsi in tutto, di evocare mondi irraggiungibili e quindi anelabili. Del resto, la matrice originaria dell’opera si richiama all’idea di “mangiare con gli occhi”, innestando un desiderio continuo che si muove attraverso molteplici sensi, abbracciando un’idea di bellezza sensuale che può essere evocata da un immaginario neoclassico - la schiena nuda distesa sulla cassa all’inizio, quasi fosse una novella Odalisca che svanisce dopo poco, trascinata via - e uno intimamente quotidiano, soprattutto nella parte finale, dove, dismessa la forza ripetitiva e ieratica delle azioni, i corpi si “sporcano” di piccoli gesti, il volto entra in luce, lo sguardo verso la platea, l’assaggio del corpo dell’altra tra tatto, gusto, olfatto. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro India di Roma. Concept and choreography Giorgia Lolli | Co-creation and performance Sophie Annen and Giorgia Lolli | Sound design Sebastian Kurtén | Costume design Suvi Kajas | Light design Elena Vastano | Light technician Victoria De Campora |Production: Anghiari Dance Hub, Nexus Factory
#SCANDICCI
WE ARE OUR ROOTS + REBECCA + SIMBIOSI (di Roberto Tedesco)
Roberto Tedesco è coreografo caparbio, terreno, onnivoro e molto attento a quel che accade nel qui&ora nonché (fortunatamente) senza pretese metafisiche. E sta raggiungendo una maturità di lavoro piena di futuro. Una felice testimonianza è stato il triplo programma creato e presentato nell’ingegnoso Nutida Festival di Scandicci (dove «nuove generazioni di danzatori/trici», si esibiscono in «forma “nuda”», facendo di necessità virtù). In un contesto quindi ibrido: all’aperto, all’ora del vespro, con il disegno luci soltanto del creato, e la partecipazione aleatoria della fauna circostante il giardino del Pomario, nel Castello dell’Acciaiolo. Qui Tedesco non ne ha sbagliata una. Ha presentato in anteprima We Are Our Roots, con Laila Lovino in scena col musicista Luca Pizzetti e il suo handpan (o disco armonico, strumento musicale idiofono in acciaio), lungo una verticale di trespoli, sulla quale il mirabile corpo dell’interprete viaggia nelle forme a ritroso della investigazione, tra rapidità di scatti e mnemonici automatismi alternati a calma e lentezze piene di stupori. Poi con Rebecca (in prima assoluta), per e interpretato da Rebecca Intermite, Tedesco si è misurato senza contingenza alcuna con la forma dell’assolo, e qui la quantità e originalità di materiale di movimento trovata e assemblata è davvero sorprendente. L’interprete è straordinaria: occupa con vigore e con imperio le traiettorie dello spazio che aprono a una continuità affermativa, in modo anche solenne, in una sorta di piacere nella deriva. La musica che accompagna (Eskmo & Brendan Angelides) costringe pure a una intimità personalissima, che trova il suo posto come un affetto di rivincita, di riparazione, di riconciliazione. Infine, con la versione compiuta di Simbiosi, danzata in forte e parallela consonanza da Laila Lovino e Melissa Bortolotti, Tedesco indaga il due che prova a essere uno. Anche qui le interpreti mostrano una perizia interpretativa che si completa in una presenza perfettamente organica, tra gesto ed espressione. La perdita della simbiosi originaria non è allora un trauma, ma l’indifferibile percezione di un compimento: il tempo. (Stefano Tomassini)
Visto al Giardino del Pomario, Castello dell'Acciaiolo, Nutida Crediti completi
#TORINO
BOUFFÉES + C’EST TOI QU’ON ADORE (coreografie di Leïla Ka)
Uno dei capolavori pittorici nella Galleria Sabauda dei Musei Reali di Torino è La suonatrice di liuto (ca. 1520) di Maestro delle mezze figure femminili («nome convenzionale con il quale si identifica una bottega molto attiva fra terzo e quarto decennio del Cinquecento nelle Fiandre, probabilmente ad Anversa»). Ecco, le cinque splendide danzatrici di Leïla Ka, viste a Torino per il festival Interplay/25, mi hanno ricordato fattezze e perizia di questa stessa tradizione fiamminga. In Bouffées, cinque donne schierate a mezza figura si asciugano lacrime, immobili davanti a noi, e poi orchestrano sequenze di sbuffi e di gesti in contrappunto o a cànone, secondo una perfetta partitura compositiva. Anche le cadute a terra sono orchestrate, secondo il ritmo serrato della doglianza, il respiro della contrizione, ma anche la dinamica della ripartenza, della risalita: la speranza contro ogni speranza. La rinascita («curare l’incurabile») è dunque una virtù, piena di destrezza fisica e di bravura performativa, che è proprio un trend di ritorno nella performance contemporanea. Nel duo C’est toi qu’on adore, danzato da Océane Crouzier e Mathilde Roussin, un sincrono si ripropone, di resistenza e di cedimento, qui però in una presa dello spazio che anche varia le geometrie del movimento, scansiona paure della distanza e successioni di incontri di nuovo all’unisono, per poi alternarsi con anche ricadute nell’hip-hop. Un clavicembalo prima, nel volume di un’orchestra poi, rimanda la sarabande di Händel (quella di Barry Lyndon, per intenderci) che si ripete e si frammischia a musica elettronica, come in uno scorcio drammatico che si ripropone, in una battaglia di resistenza e di restituzione, anche all’amore. Di nuovo, queste figure femminili piene di concentrazione e di intimità, come nella pittura fiamminga sembrano miniature dinamiche di una realtà osservata per frammenti, ma unificata attraverso la tessitura compositiva. Di nuovo Leïla Ka restituisce vita al testuale, con scelte compositive che qui aprono più punti di fuga, letteralmente assediando il nostro sguardo, pronto a ricevere tanta forza, e perizia. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Astra per Interplay/2025 - Leggi crediti completi