Davide Enia con Autoritratto va indietro nel tempo a intercettare la memoria perduta delle stragi di mafia, gli effetti sulla Palermo del tempo successivo che cerca a fatica di ricostruire un presente innocente. Al Teatro India. Recensione

La memoria degli umani è memoria di azioni, scelte compiute e non, agite o subite, ma anche di luoghi abitati o abbandonati, rifiutati o ritrovati. La memoria si situa in uno spazio a metà strada tra il cuore e la mente, là dove gli avvenimenti confluiscono per esprimere compiutamente gli effetti dalla loro deflagrazione. È nella Palermo di bambino, o giovanissimo ragazzo, che Davide Enia situa il proprio Autoritratto, oggi sulla scena del Teatro India, in una Palermo corrosa da avvenimenti macroscopici che vive con l’imbarazzo e il pudore di una provincia-mondo, la cui celebrità è appesa ai fili di un bucato sporco che un’ombra malefica – la mafia, lettera minuscola – macchia da sempre e per sempre. Autoritratto non è dunque uno sguardo sulla propria biografia di uomo, di autore, di artista, ma l’effetto sulla propria immagine vista attraverso il filtro di una città, in cui irradiano le proprie radici di sangue, da altro sangue insanguinata.

In un racconto intimo Enia come da sempre rintraccia i caratteri di una storia contemporanea passata per gli occhi dei bambini, quello sguardo feroce verso un mondo che ne svela presto il disincanto, per le urla delle madri nei cortili, le figurine scambiate con il compagno di banco, i sughi in cottura perenne, l’eterna lotta tra la disciplina della scuola e l’indisciplina della strada, tra le persiane socchiuse a carpire l’ombra, il rumore dei palloni battuti a terra e le torridi estati di città. C’è però, sotto la traccia di una Palermo viva e palpitante, la tensione normalizzata del delitto, la distinzione ordinaria tra gli omicidi di tipo semplice e quelli di mafia, la perdurante sprezzatura e l’acquiescenza che crescono con agghiacciante linearità. Perché la mafia emerge subdola da questo racconto popolare, si annida incosciente in una serie di consuetudini, modi di dire, direttive familiari o familistiche che conducono gli avvenimenti della comunità secondo una schema preconcetto e antico, restio a cedere il passo. Forse, sussurra Enia tra le pieghe delle sue parole dense, Palermo e la Sicilia le capisci meglio quando ti allontani, quando da fuori osservi la misura colma del dentro e sai che non ti sta più, non è della tua taglia, pur essendo parte di te stesso. È questa frattura, questa distanza tra origine e distacco, tra sangue dentro e sangue fuori, la più atroce verità dell’Autoritratto.

I fatti. I nomi. Beh quelli li sanno tutti, no? Falcone e Borsellino, Riina e Provenzano, molti molti altri nomi di una storia nella storia, che prende il nome di mafia. Eppure proprio questo sapere collettivo, l’evidenza di questa disaffezione allo stupore tragico, rende impossibile percepire il racconto come uno tra i mille che narrano gli stessi fatti: Enia, allievo negli anni di scuola di Don Pino Puglisi, il sacerdote del popolo ucciso nel 1993, sa che “bisogna nominare le cose”, come diceva il suo insegnante, sa che se a Palermo “le macerie sono la scenografia del nostro quotidiano” c’è bisogno di scavare a mani nudi per trovarci sotto le fondamenta dei nuovi edifici. E allora si affida a questa narrazione di popolo, al cunto musicale dei mercati e delle piazze siciliane, insieme al fido maestro Giulio Barocchieri che lo accompagna al canto e alla chitarra, si affida alla lingua di tutti perché il suo ricordo è assente, all’urlo rimasto in gola di molti e che adesso, per sua propria voce, esce a dissotterrare il silenzio dell’antica sofferenza.

Questa è la memoria, la storia. Ma poi c’è la cronaca. L’ultima immagina è più recente, di appena qualche giorno fa e la offre la narrazione giudiziaria: la liberazione, per aver scontato la condanna, di Giovanni Brusca, esecutore materiale della strage di Capaci del 23 maggio 1992. Dopo 25 anni di carcere, alcuni dei quali da collaboratore di giustizia, un ultimo regime di libertà vigilata, l’autore di efferati omicidi, tra cui lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un altro collaboratore di giustizia, ora è libero di tornare in società, sotto falsa identità in un luogo lontano dalla Sicilia. La domanda che ci si pone, carica di indignazione, è facile da identificare: può un boss di mafia tornare libero? D’altro canto, ci si chiede ancora: se il carcere è uno strumento rieducativo prima ancora che punitivo, ciò può essere vero per ogni reato e di fronte a ogni situazione? Non è questa la sede per cercare risposte faticose e che avrebbero bisogno di lucide menti da giurista, ma ciò che emerge dalle acque torbide della notizia è una sensazione amara, perché resta una disarticolazione tra ciò che se ne sta fermo nel tempo, la storia che conta i morti, e ciò che invece evolve, la cronaca che compie un percorso alternativo, l’una spiando l’altra da una finestra socchiusa che guarda giù in strada a osservare questa Palermo innocente che muore di colpa.
Simone Nebbia
Visto al Teatro India – Maggio 2025
Prossime date in calendario tournée
19 luglio 2025, ore 21 Festival Orestiadi, Gibellina (TP), Baglio Di Stefano
29-31 ottobre 2025, Trieste, Il Rossetti, Sala Bartoli
13-16 novembre 2025, Genova, Teatro Modena
4-5 dicembre 2025 Reggio Emilia, Teatro Ariosto
9-11 dicembre Parigi, (da definire)
12-13 marzo 2026 Firenze, Teatro Rifredi
14-15 marzo 2026 Pontedera, Teatro Era
25-29 marzo 2026 Napoli, Teatro San Ferdinando
21-24 maggio 2026 Palermo, Teatro Biondo
AUTORITRATTO
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
scene e luci Paolo Casati
suono Francesco Vitaliti
foto Andrea Veroni
Si ringrazia Antonio Marras per gli abiti di scena
co-produzione CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Accademia Perduta Romagna Teatri
Spoleto Festival dei Due Mondi