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L’umanità sotto il peso del progresso. Works and Days di FC Bergman

È tornata in Italia la compagnia fiamminga FC Bergman con un nuovo lavoro ispirato a Le opere e i giorni di Esiodo. Una disamina visiva e potente del viaggio dell’uomo verso il progresso e delle sue inevitabili derive. Lo spettacolo è ora al Campania Teatro Festival per il weekend. Recensione.

Ph. Masiar Psquali

Inizia con il gesto rituale l’ultimo lavoro della compagnia teatrale visionaria fiamminga, FG Bergman. Ma accade che il rito, qui, finisca per spogliarsi del carattere tradizionalmente religioso perché è nella sacralità della terra che si sostanzia e si rinnova, radicandosi nell’inviolabilità delle leggi della natura, nell’incontrovertibile ritmo del tempo. Non nega quindi il divino e nemmeno la dimensione cultuale, ma scava con forza nelle profondità nella storia per ritornare alle antiche origini dell’uomo, alle fatiche quotidiane, alle attività delle epoche passate. In questo rituale, misurato e oggettificato, ritmato nei gesti, negli acciacchi del corpo o nelle incurvature spigolose delle strutture ossee, ma anche nella tensione muscolare esposta in scena, che sembra conservare la fatica, la memoria del lavoro di tutti i giorni, figure contadine avanzano silenziose sul palco. Nel moto si raccolgono nella forza accerchiante di un gruppo, nella massificazione indistinta di una collettività, inseguono per poi tenere in braccio una gallina viva, che ancora non sa che ne sarà del suo destino da animale. Il sacrificio è l’atto estremo di questo cerimoniale pagano, improvviso quanto intenso produce oramai nel pubblico “green” un sussulto vertiginoso, uno shock percettivo per una violenza cruda così mostrata e non mediata. Ma il gesto è solo finzione – o perlomeno ci convinciamo che lo sia per poter reggere e proseguire la visione – e assume una dimensione tutta simbolica: con l’uccisione dell’animale ha inizio il viaggio dell’essere umano verso il progresso. È da qui che prende avvio un’altra parabola sulla storia dell’uomo che la compagnia fiamminga riporta, dopo due anni dal Leone d’Argento alla Biennale Teatro, al Piccolo Teatro di Milano.

Ph. Masiar Pasquali

Di smarrimento, tracotanza e redenzione s’imbeve anche questa pièce di FC Bergman che, se nel precedente lavoro The Sheep Song portava l’uomo a cercare se stesso in una nuova pelle che lo rispecchiasse, in una vita di aspirazioni e desideri in-compiuti, per ritrovarsi per sempre diverso dalle identità degli altri, qui la compagnia scala su un livello narrativo meno intimo e famigliare, attua per così dire uno “spostamento”, una variazione di prospettiva, paradossalmente invertendo anche la profondità del palco: non più la bidimensionalità del tapis roulant che era in grado – per potenza visiva e innesco drammaturgico – di proiettarci all’interno della storia della pecora umana, portandoci a compatire la solitudine esistenziale di un essere come noi, ma la tridimensionalità di una scenografia che si muove su diversi piani narrativi, che segue la storia della specie umana e non più del singolo individuo, con una distanza dal palco che avvertiamo essere imposta, oggettiva, imparziale. Non c’è più quel pathos che stropicciava gli occhi, che arricciava la pelle. Ora siamo spettatori della nostra fabula, ma la guardiamo con questa nuova parete di mezzo, una parete che, se da un lato attraversa la profondità di campo, dall’altro ci attacca ai sedili, non permette di avvicinarci, per farci esaminare così con lucidità le inevitabili derive del nostro “progresso”.

Sempre in un rimando con l’arcaico e con uno sguardo tanto archeologico quanto creativo e visionario sulla letteratura fondativa del mondo antico, la compagnia si ispira questa volta all’omonimo testo di Esiodo. Una scelta di cui l’attore Stef Aerts spiega le origini nelle note di sala: «Esiodo dà consigli al fratello su come coltivare la terra, in quale fase lunare, e così via. L’idea di fondo è: vivi secondo il ritmo delle stagioni. Noi, come società, siamo molto lontani da questo: le nostre vite sono governate dalla tecnologia, e questo crea conflitti e ci fa desiderare di tornare alla natura». Ma per ritornare alla natura, vi è tutto un processo di espiazione di colpe da attraversare, di fratture del tempo da dover risanare che forse, oggi, in virtù di un mondo che si avvia alla sua inevitabile autodistruzione, diviene indispensabile porre sotto la lente d’ingrandimento. Continua: «Nel collettivo FC Bergman tutti siamo padri o madri e siamo in ansia per il futuro dei nostri figli. Condividiamo con il pubblico la nostra preoccupazione mostrando ciò che, in quanto umanità, abbiamo perduto per sempre».

Ph. Masiar Pasquali

Ed è proprio questo senso di perdita a scandire l’età (d)evolutiva dell’uomo, in un viaggio attraverso il tempo che vuole tornare all’inizio della storia per rileggerla dal suo epilogo. Ora l’aratro scava in primo piano zolle di palco, affonda, penetra, scaglia, solleva e dissoda il terreno per la semina, riportandoci al legame carnale tra l’uomo e la terra, al lavoro come dimensione della fatica, del sacrificio. Le assi di legno si sollevano, strappate alla terra vengono accumulate e conficcate nel palco, segni totemici di una civiltà perduta; ora il legno diventa pilastro, trave e copertura, casa che accoglie l’intera comunità e i suoi sforzi per la sopravvivenza. Un’ulteriore uccisione in scena – questa volta di un animale fittizio – scandisce un’altra fase di progresso, che si cristallizza nell’immagine simbolo di lunghi fili setosi colorati che fuoriescono dal morto ventre dell’animale. Sono tessuti che portano il gruppo a “specializzarsi” in forme più evolute di comunità, chiamata a ritrovarsi tra balli e feste rituali e a condividere un nuovo gusto per il decoro dell’abitazione.

Ph. Masiar Pasquali

A questa dimensione agricola, pulsante di vitalismo e comunità, si contrappone il progressivo affermarsi di una modernità spersonalizzante e invasiva. Perché nella storia umana anche l’idillio ancestrale trova il suo momento di rottura: è la discesa divinizzata di una macchina a vapore potentissima, simile a un altare postindustriale, in grado di investire la scena con una forza mitica e a tratti inquietante. Attorno ad essa, i corpi della massa si spogliano di ogni nudità per farsi anonimi, restano immobilizzati, per poi piegarsi lascivi sotto il peso del progresso. Abbandonatesi sul mostro tecnologico, le nudità si tingono del nero liquido che vi fuoriesce, divenendo al tempo stesso superficie mutante su cui si iscrive la tracotanza, in una drammaturgia segnica composta da immagini vividissime – tagliate da luci cinematografiche gravide per colori e intensità a cura di maestri come Stef Aerts e Joé Agemans – che vede il dominio della tecnica.

Al pari del suggestivo studio iconografico e drammaturgico, che sembra aver fatto un salto in termini di aulicità dell’impianto visivo, i cui riferimenti talvolta appaiono criptici, come codici da dover sciogliere e decifrare, FC Bergman prosegue la sua ricerca nella rinuncia alla parola e nell’integrazione completa dei linguaggi: il suono, curato da Joachim Badenhorst e Sean Carpio, è una partitura che accompagna ogni epoca della storia, in una rivisitazione live delle Quattro stagioni di Vivaldi che scandisce il tempo, rendendo udibile il passaggio da un mondo armonico (agricolo) a uno dissonante (post-industriale). Anche la scena vive periodicamente questo passaggio: grazie alla prova ricercata dei performer Stef Aerts, Joé Agemans, Maryam Sserwamukoko, Yorrith De Bakker, Marie Vinck, Fumiyo Ikeda, Geert Goossens, Bonnie Elias, essa viene non solo attivata ma anche agita continuamente, nelle interazioni con i cambi di scenografia e nel dialogo eloquente tra oggetti e corpi che insistono sulla trama conferendole nuovi significati.

Ph. Masiar Pasquali

Alla fine, la comunità si dissolve, il gruppo si disperde, il tempo collettivo lascia spazio a quello produttivo, meccanico, solitario. È in questa frattura che compare la figura di Fumiyo Ikeda, presenza chiusa in una solitudine primordiale, che sotto una pioggia spinge con veemenza l’aratro: le mani stringono il manico, le braccia tremano allo sforzo di impotenza, le gambe affondano, mentre tutto si stringe attorno a questa scena di resistenza destinata al fallimento. Il campo sembra non produrre più, la comunità sembra essere svanita, il ritmo delle stagioni sembra aver subito un mutamento, radicale, irreversibile. L’ultima immagine è affidata a un cane robot, che irrompe sul palco. Una macchina, priva di volto e di empatia, che fissa lo spettatore con lo sguardo immobile del controllo, forse l’ultimo protagonista della nostra civiltà che vuole ricordarci tutto ciò che oggi, ormai, abbiamo dimenticato.

Andrea Gardenghi

Visto al Teatro Piccolo di Milano

Works and Days 
PRIMA NAZIONALE
regia, drammaturgia e scenografia Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck (FC Bergman)
con Stef Aerts, Joé Agemans, Maryam Sserwamukoko, Yorrith De Bakker, Marie Vinck, Fumiyo Ikeda, Geert Goossens, Bonnie Elias
composizione musicale e performance live Joachim Badenhorst e Sean Carpio
costumi An d’Huys
luci Stef Aerts e Joé Agemans
produzione Toneelhuis
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
con il supporto del Tax Shelter del Governo Federale del Belgio, Gallop Tax Shelter

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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