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L’azione materica di Laminarie per Pollock, Brâncuși e Šalamov

Laminarie presenta Dentro le cose, ultima produzione diretta e interpretata da Febo Del Zozzo in scena durante la rassegna Antidoti. Recensione.

Foto di Mario Carlini

Le luci si riaccendono. Dilatati sono i momenti di ripresa che seguono, in cui, abbandonato il torpore, ci si guarda intorno e si respira l’odore che ha lasciato l’azione appena terminata. Le mani sono impolverate e ci si accorge che lo sono anche le scarpe e poi le calze e il taccuino col programma di sala poggiato sulle ginocchia. Alcuni fanno per togliere via la terra, altri la lasciano dove si è, casualmente, posata. La sensazione è quella di stare davvero in un parco; per questo si attende, non ci si alza subito dalla sedia, si prende tempo mentre qualcuno si avvicina ancora di più alla scena, la osserva, vi cammina attorno con circospezione parlando a bassa voce…
Dentro le cose è l’ultima produzione di Laminarie presentata a DOM la cupola del Pilastro durante la stagione 2018 dal titolo Antidoti, in chiusura proprio in questa settimana e che è entrata in contatto interdisciplinare con tematiche relative alla scienza, alla medicina, all’insegnamento (da leggere l’approfondimento apparso sulle pagine di Altrevelocità) e, in questo caso, all’arte. Il lavoro è firmato dal direttore artistico di DOM Febo Del Zozzo, che è anche autore, regista e unico attore in scena di questa azione performativa dedicata a quelle di Jackson Pollock, Varlam Šalamov e Constantin Brâncuși, che egli stesso definisce «vite di un’altra fibra».

Foto di Mario Carlini

Coerente con il dialogo insediato condotto dalla compagnia nel quartiere del Pilastro di Bologna e non solo, Dentro le cose è innanzitutto una stratificazione di tempo e storia che, incontrando la tradizione della cifra poetica di Laminarie, si pone allo stesso tempo come tensione verso una modalità scenica che risulta essere più installativo-performativa che teatrale. Il lavoro ha debuttato ufficialmente quest’anno durante la stagione Antidoti a voler sottolineare come l’agire scenico sia innanzitutto un «luogo da cui l’artista prende forza per aprire spazi sorprendenti di relazioni umane, disintossicate dai veleni quotidiani di gesti e parole e pensieri inerti»; una creazione/testimonianza intima a proposito di un percorso artistico che giunge a un momento determinante, in cui ci si pongono dei quesiti e attraverso il gesto si cerca, prima di ottenere delle risposte, un dialogo con chi sin dagli inizi, o da adesso poco importa, ne segue il percorso. «Un anno fa mi si presentava davanti un magma complesso, da me nato certo, ma nel quale ero ancora totalmente immerso. Ora invece ho cercato di fare lo sforzo di straniarmi e guardarlo da una distanza, oggettivandolo». Così Febo Del Zozzo ci racconta del processo finalizzato a condensare elementi di studi passati in un’unica sintesi organica, che non necessitasse quindi della visione di lavori precedenti ma che ne restituisse tuttavia la risonanza.

Foto di Mario Carlini

A stagliarsi immobili e silenziose sulla scena completamente buia sono delle installazioni che rimandano alle opere Blue Poles di Jackson Pollock, Colonna senza fine di Constantin Brâncuși e, come uniche parti recitate dalle voci di una ragazza e di una donna anziana, I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. Una sedia fissata al soffito da una corda si agiterà convulsamente rimanendo fissata al pavimento, una piramide di trapezi costruita verrà issata verso l’alto, una vasca di rame, un tavolo con delle mele rosse a riempirlo, una parete forata… ciascuna di esse occupa una precisa porzione di spazio e viene illuminata singolarmente nel proprio specifico “momento drammaturgico”, quando cioè il corpo dell’attore (Febo Del Zozzo) vi entrerà in contatto. Nella totalità della visione, Dentro le cose lo si osserva e lo si percepisce dunque come un grande macchinario costituito da singole architetture installative aventi una propria biografia azionata e, letteralmente, fatta funzionare dall’attore. Ma non un attore demiurgo: questi “oggetti” non saranno da lui usati come strumenti scenici poiché quella performativamente rappresentata sarà una faticosa lotta con la loro materia, affinché sia questa – e nessuna sovrastruttura recitativa e/o interpretativa – a dispiegarsi e a tendere, come direbbe Brâncuși, “verso l’alto”. Seppur preparata maniacalmente, nel rispetto del rigore tecnico delle installazioni, nella loro manutenzione come nel montaggio e nello smontaggio, la scena è tuttavia soggetta a potenziali casualità. La tecnica non garantisce la prevedibilità dell’azione, al contrario, contempla l’imprevisto, l’errore, il rischio derivante dall’incontro con lo sforzo compiuto dall’attore per azionare le installazioni e farle agire.

Foto di Mario Carlini

Sono quindi molteplici i piani di fruizione di questo ultimo lavoro di Laminarie, il quale non può essere infatti ridotto a spettacolo perché è manchevole di una “voce teatrale”: a dominare la scena è l’azione della materia e la sua fallibilità nell’incontrare quella del corpo. In questo aspetto si riscontra per Dentro le cose quella tensione a porsi al di fuori della sala teatrale per consegnarsi a quella di un museo. Non si tratta affatto di un’opera museificata, bensì museale, per le modalità attraverso le quali la postura di chi la esperisce passa da quella dello spettatore a porsi a livello di quella del fruitore di un’installazione performativa. Sentirsi panicamente avvolti e soggiogati dalla forza sublime del volo degli uccelli (Brâncuși), dall’azione del colore, dal suo dipingersi istintualmente (Pollock) e dalla riacquisizione del bisogno di scrivere, dalle difficoltà di tornare a farlo dopo la prigionia (Šalamov); questi gli espedienti empatici sottesi all’architettura scenica la quale, così costruita, restituisce di queste personalità il loro eterno e ricercato fallimento nei confronti della natura e della vivida materia artistica.

Lucia Medri

DOM la cupola del Pilastro, Bologna – aprile 2018

DENTRO LE COSE

di e con Febo Del Zozzo/Laminarie
Dispositivi scenici tratti da:
Proiezione Verticale – avvicinamento a Constantin Brancusi, 2012;
Jackson Pollock – l’azione non agente, 2010;
Esagera – dedicato a Varlam Šalamov, 2000.

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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