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Veronica Cruciani tra Goldoni e Fassbinder: sistemi a confronto

Veronica Cruciani presenta la sua ultima regia e adattamento,  Das Kaffeehaus,  in prima nazionale al Politeama Rossetti di Trieste. Recensione

Foto ufficio stampa
Foto di Simone Di Luca

Avendo avuto l’opportunità di seguire gli ultimi lavori di Veronica Cruciani, si nota nella sua attenzione ai classici quasi un legame bisognoso di dialogo col passato che possa rendere intellegibile un presente sempre più confuso. Dopo aver curato la regia di Peliscritto da Carlotta Corradi, dopo aver diretto il PreAmleto di Michele Santeramo, oggi la regista romana e codirettrice del Teatro Biblioteca Quarticciolo presenta in prima nazionale al Politeama Rossetti di Trieste – che lo produce – Das Kaffeehaus, sua ultima regia e adattamento scenico dell’opera di Rainer Werner Fassbinder da La bottega del caffé di Carlo Goldoni, spettacolo che dal prossimo anno sarà in tournée nazionale.

Come nel caso di Preamleto – per cui la riscrittura del testo shakespeariano era firmata da un autore contemporaneo –, anche in quest’occasione la regia è il risultato sintetico della stratificazione di letture diverse e lontane nel tempo di una stessa materia. “Something is rotten”, ovvero “c’è del marcio” si diceva in Danimarca, corruzione abbietta che avvelena le relazioni intessute nella bottega, nella laguna e nella bisca veneziane rendendole torbide e meschine. Il denaro, la passione, l’abnegazione ai sentimenti che possiede come contraltare l’assoggettamento disperato e funesto sono i contenuti della scatola scenica di Das Kaffeehaus, all’interno della quale lo spettatore potrà guardare e studiare il comportamento perverso di strane personcine in preda ai loro vizi. Entrando nella Sala Bartoli, vediamo gli attori già pronti nella riconoscibile scena di Barbara Bessi. Torna infatti la prospettiva opprimente ed espressionista di un Kammerspiel racchiuso in mura sbilenche arricchite stavolta da una carta da parati con neri arabeschi su sfondo bianco. Il primo impatto, restituitoci non solo dall’impianto scenografico ma anche dai costumi, è quello di un quadro in cui sono stati sovrapposti e poi dissolti insieme due immaginari pittorici divergenti ma simili per sguardo: da un lato sembra di ritrovare la pittura teatrale del maestro veneto Pietro Longhi di cui Giulio Carlo Argan scriveva «è la vita sociale, come tale, che diventa materia di pittura e non si propone di copiarla né d’interpretarla, ma semplicemente di vederla con mente attiva […] e il suo spazio pittorico, non più per principio prospettico o tonale o luministico, è semplicemente lo spazio di una situazione»; a questa, che potremo chiamare, “oggettivazione” si affianca invece la desolazione dalle tinte pastello à la Edward Hopper, il silenzio di monadi isolate incapace di farsi dialogo. Una commistione di segni pittorici forse azzardata ma che ci permette di esplicitare lo sfondo sul quale si muovono questi personaggi, protagonisti indubbiamente tanto del sistema-mondo veneziano che Goldoni ha saputo delineare con peculiare distanza analitica, che del cinismo languido e crudele di Fassbinder.

Foto ufficio stampa
Foto di Simone Di Luca

Universi autoriali a confronto – uno di Goldoni del 1750 l’altro di Fassbinder del 1969 – che nella regia di Cruciani trovano calibratura precisissima, attentamente studiata a tavolino al fine di non lasciarsi alle spalle nessuno dei due “modelli”, facendoli mutare attraverso un graduale passaggio in cui la recitazione piana della prima parte, prevalentemente borghese e manierata, si sporca e incupisce degradando l’espressione mimica e il linguaggio attoriale verso l’abbrutimento. Si riscontra inoltre un attento e maniacale lavoro fatto con la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia che ha saputo adattarsi alla disciplina di Cruciani: severa quel tanto da lasciare a ciascun attore un proprio margine di autonomia di scrittura e personalità. Lara Komar nel ruolo di Vittoria e Francesco Migliaccio in quello di Don Marzio, spiccano al di sopra dell’ensemble per aver dato ai loro personaggi una sfumatura di incongrua e imprevista attualità senza abbandonare la base classica che li legittima. Il suono di Riccardo Fazi unito all’impianto luci di Gianni Staropoli si fondono in un’unica drammaturgia che segue in parallelo, strutturandola, tutta la durata dell’azione scenica mutando anch’essa dalla luce bianca di una musica tonda e barocca, alla dissoluzione glamour dell’elettronica fluo e stroboscopica.

Foto ufficio stampa
Foto di Simone Di Luca

Una maschera del Carnevale di Venezia che ci ricorderà in conclusione quella mefistofelica di Eyes Wide Shut, così resterà impresso quest’ultimo adattamento della Cruciani, forse fin troppo rigorosamente orchestrato, che se si fosse lasciato travolgere fino in fondo da quella stessa fauna deturpata dal vizio, sarebbe riuscito a determinare il lento ma definitivo collasso di un’angosciosa e meschina ipocrisia sociale.

Lucia Medri

Teatro Politeama Rossetti, Trieste – novembre 2016

DAS KAFFEEHAUS
Di: Rainer Werner Fassbinder da “La bottega del caffé” di Carlo Goldoni
Traduzione: traduzione Renato Giordano
Scene: Barbara Bessi
Costumi: Barbara Bessi
Luci: Gianni Staropoli
Musiche: drammaturgia sonora di Riccardo Fazi
Foto di scena: Simone Di Luca
Regia: Veronica Cruciani
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Interpreti: Filippo Borghi, Adriano Braidotti, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Graziano Piazza, Maria Grazia Plos –

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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