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Michele Santeramo e il pretempo di Amleto

Il debutto romano di Preamleto, scritto da Michele Santeramo per la regia di Veronica Cruciani, in scena al Teatro Argentina. Recensione

Foto di Serafino Amato
Foto di Serafino Amato

Mente colui che ritiene tutte le opere d’arte siano il riflesso del tempo in cui sono state create, mente perché non tutti gli specchi sono in grado di riflettere allo stesso modo: alcuni deformano, altri opacizzano, altri ancora nascondono. Il teatro è specchio assai furbo, sì è vero dà sempre mostra di sé ma solo a volte riflette una presenza fermandola in un tempo preciso. Che gli è proprio, che gli pertiene.

Foto di Serafino Amato
Foto di Serafino Amato

Amleto e Preamleto: l’uno nome proprio di persona, l’altro relegato a semplice nome, il vero protagonista di questa riscrittura è infatti quel prefisso secondo la drammaturgia di Michele Santeramo e la regia di Veronica Cruciani. Prodotto dal Teatro di Roma e presentato in prima nazionale al Napoli Teatro Festival Italia nel giugno dello scorso anno, Preamleto ha debuttato finalmente nella cornice del Teatro Argentina ieri sera, in una prima gremita di pubblico e rappresentanze. Lo spunto drammaturgico è dei più semplici: immaginare cosa preceda la tragedia per antonomasia, cosa sia quel prima che non ci è dato sapere. Massimo Foschi è Re Amleto malato di Alzheimer, dimentico, chissà, di quale sia il suo ruolo, del potere detenuto, del governo del regno; Manuela Mandracchia è Gertrude la moglie ormai stanca di essere sposa di una «carne appesa» e vorrebbe esserlo invece di Claudio, Michele Sinisi, fratello del re malato e appoggiato nella sua scalata al potere dall’opportunista consigliere Polonio, Gianni D’addario. Matteo Sintucci invece è il Figlio del Re, è Amleto. Santeramo intreccia, Cruciani dirige, i cinque personaggi stanno; abbigliati con severa formalità e illuminati dal taglio impietoso di luci fredde. Bisogna padroneggiare una distanza da sé stessi per riuscire a stare, a interpretare una parte in questo prima che tutto è inizio ma anche fine, dove le linee narrative si affastellano le une sulle altre per tirare le fila di una storia nella quale i vivi sono già morti, perché paganti il prezzo di essere «personaggi intrappolati in un testo che non vogliono più recitare e altri invece che raccontano una storia che sembrano già conoscere».

Foto di Serafino Amato
Foto di Serafino Amato

Tali note di regia mettono in risalto proprio quel decadimento del potere, onnipresente e totalizzante ma per questo costruito e non assoluto, da mettere in discussione e soprattutto da rifiutare. Se il potere è decaduto volontariamente, se esso non è che una farsa, comica, una finzione imbastita da noi o da altri per la detenzione di un governo, un ruolo da ereditare e rispettare per poter continuare a essere; l’assassinio allora non è mai esistito e nessuna vendetta potrà dunque essere attuata. Per questo il punto nevralgico per lo sviluppo della vicenda e attorno al quale ruota l’impianto registico, non è tanto Amleto figlio, quanto Amleto padre, la sua presunta malattia o follia e come essa viene presentata da Claudio e Gertrude agli occhi, fedeli, del giovane erede. Santeramo è sapiente artigiano e per questo non addomestica il materiale grezzo che ha a disposizione, quello fornitogli da Shakespeare, ma gli dona un’origine facendone riflettere e brillare le conseguenze in questo prima che è già dopo; «forse, forse, le cose non si possono salvare» o modificare, dato che ci sembra di galleggiare in un tempo liquido in cui, non ce ne rendiamo conto, vige la dittatura della copia e della citazione, per cui “classico” è una minaccia e non un modello.

L’angolo grigio e spoglio, dalla prospettiva opprimente che si allarga a cono sul palcoscenico è quel pretempo in cui i personaggi sono in gabbia e per uscirne devono solo decidere di saltare giù, non essere più, di non rimanere ancorati su una sedia di pelle a detenere un potere che in fondo non è. Lo spettatore non troverà in questo alcuna rivelazione, quel prima potenziale è manifesto, scoperto e perciò prevedibile. «Non è più il tempo di essere».

Lucia Medri

Teatro Argentina, Roma – marzo 2016 (in scena fino al 10 aprile)

PREAMLETO

di Michele Santeramo
regia Veronica Cruciani
con Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi
Gianni D’addario, Matteo Sintucci
scene e costumi Barbara Bessi
luci Gianni Staropoli
musiche Paolo Coletta
assistente alla regia Antonino Pirillo e Giacomo Bisordi

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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