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Frosini/Timpano: Vergogna, fascista!

Frosini/Timpano presentano in prima nazionale Acqua di Colonia andato in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo durante il Romaeuropa Festival. Recensione

foto Lucia Baldini
foto Lucia Baldini

Tripoli, Dire Daua, Cirenaica, Libia, Gimma, Gondar, Makallé, Asmara, Eritrea… così confusamente elencati, senza alcuna collocazione geografica, tantomeno storiografica, sono i “luoghi” della mia adolescenza: il Quartiere Africano è dove ho passato gli anni del liceo e per molto tempo questi nomi sono stati sinonimo di appuntamenti alla fermata del 38, tavolini dei bar occupati per ripassare prima dell’interrogazione, strade dove fare le vasche il sabato pomeriggio e lunghe attese nelle sale d’aspetto del secondo municipio dove lavorava mia madre. Proprio su quei muri, “africani”, capitava di imbattermi senza volerlo in qualche monito fascista recitante “Francesco Cecchin vive” o in presidi neri a Piazza Vescovio, cosicché col tempo la scanzonata militanza nelle assemblee d’istituto e nelle manifestazioni studentesche unita a qualche vecchio retaggio familiare di mio nonno partigiano, ha sviluppato in me una sorta di consapevolezza critica e repulsione verso la storia di quel quartiere, familiare per quotidiana frequentazione, ma ideologicamente lontano.

Tale vissuto si è ripresentato in tutta la sua portata nostalgico-contraddittoria nell’ascoltare lo Zibaldino africano, prima parte di Acqua di colonia, ultimo lavoro della Compagnia Frosini/Timpano presentato in prima nazionale lo scorso weekend al Teatro Biblioteca Quarticciolo e inserito nel cartellone di Romaeuropa Festival che lo produce assieme a Accademia degli Artefatti e Teatro della Tosse (dove sarà in scena dal prossimo 24 novembre e fino al 27).

Foto di Piero Tauro
Foto di Piero Tauro

Il presupposto di partenza e attitudine con cui Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono rapportati alle fonti e alla loro interrogazione scenica è chiaro sin dall’insofferenza dimostrata nell’aspettare che il pubblico prenda posto in sala: «Non sappiamo niente. Queste cose in Italia non le sa nessuno. Nemmeno noi. (Indicando il pubblico) Nemmeno loro». Non si sanno, è vero, ma ciò che bisogna tenere in considerazione, e che probabilmente è ancora più grave dell’ignoranza, è la familiarità al colonialismo: indotta, confusa, distratta ma tuttavia substratum latente che affiora, se stuzzicato. Non sappiamo niente del colonialismo (molti lo considerano addirittura sinonimo di colonizzazione) ma ne abbiamo sentito parlare: abbiamo vissuto in quartieri nati per celebrare quell’“impero di gloria”, abbiamo riso della pubblicità delle liquirizie Tabù, abbiamo canticchiato, forse per sbaglio ma senza troppo pudore, Faccetta nera. Conosciamo il colonialismo italiano per acculturazione forzata e sfacciata connivenza, quel “sentito” è la chiave di lettura sulla quale fa leva, drammaturgicamente, l’approccio informativo di Frosini/Timpano: «[…] qui non potevamo permetterci di non fornire allo spettatore informazioni basiche. Proprio perché è una storia poco conosciuta. Abbiamo cercato di evitare la forma didattica, ma è stato comunque necessario inserire delle sacche di informazione storica all’interno del testo, anche se a livello drammaturgico sono molto difficili da gestire» (come rilasciato nell’intervista a cura di Graziano Graziani in appendice al testo pubblicato da Cue Press).

Lo sforzo di gestione del materiale bibliografico che sostiene la scrittura scenica è ravvisabile nel voler svelare sin da subito il dispositivo metateatrale; Frosini/Timpano nella prima parte dello spettacolo sviluppano a piccole dosi, istillate con nozioni storico-culturali, una drammaturgia del “facciamo che”, “immaginiamo che”, con quel cinismo di mestiere che mira a prendersi poco sul serio e nel quale riusciamo subito a individuare un’impronta di stile forte e consolidata. “L’attorecentrismo” è il punto d’osservazione privilegiato da entrambi: concentrano su di sé il bagaglio pop che ha contraddistinto i precedenti lavori e lo indirizzano verso una tematica, come evidenziato da loro stessi, di difficile dispiegamento scenico.
Conseguenza primaria è quindi il metterci a sedere (del resto già lo siamo in poltrona) per darci una lezione: «Ma no, diamogliele quattro notizie, quattro dati, quattro date, quattro stronzate, e che ci vuole? Gli facciamo un bignamino. […] No, no. No. Facciamoli entrare dentro piano piano. […] Lasciamo il dubbio, che lo abbiamo pure noi». Ecco il dubbio. Ma l’impianto storiografico che sostiene Acqua di colonia non sembra lasciare spazio al dubbio o alla messa in crisi di un pensiero introiettato da anni di costruzione identitaria che ha stratificato un razzismo dialettico difficile da scardinare.

Il confronto è sostituito dalla volontà di creare uno spettacolo che non abbia una tesi «né una propaganda dell’una o dell’altra posizione, tantomeno di quella post-coloniale»; ma abbia un’unica urgenza, ovvero istruire un pubblico che ignora. L’ignoranza è il bersaglio e viene messa letteralmente con le spalle alla poltrona per tutte e due le ore di spettacolo in cui vengono svuotate proprio quelle «sacche di informazione» di cui si è parlato in precedenza. Tutto è estremamente utile all’oggi in quanto la granitica repulsione verso l’Altro – i fatti di Goro e Gorino sono citati nella prefazione al testo da Igiaba Scego alla quale i due attori si sono rivolti per la consulenza – è tema caldo del dibattito socioculturale.
Acqua di colonia entra a gamba tesa in una complessità del contemporaneo difficile da comprendere e per questo fallibile di errore, forse ancora di più che in passato quando si era dichiaratamente fascisti e non ci si vergognava poi tanto di manifestarlo nelle canzoni, nei libri, nei film e nelle gag comiche. Ora sembra essere cambiato il paradigma storico e si è fascisti celatamente prima a livello di pensiero e poi di azione. Al di là del “caso razzista” eclatante riportato sui giornali, è proprio la vergogna di essere fascista perché si ha paura dell’immigrato usurpatore a creare quello scarto tra “lo sono, ho paura di esserlo e allora cerco di nasconderlo ma tuttavia lo sono”. Vergogna esplicitata e derisa nella seconda parte dello spettacolo, quando il pubblico viene sollecitato a cantare Faccetta nera e poi colpevolizzato perché se ne ricorda le parole: «Fascisti! Razzisti! Non vi azzardate a cantarla!».

In quest’altra metà, Frosini e Timpano s’impadroniscono di un discorso drammaturgico che, abbandonato il “come se”, comincia a costruirsi per quadri di analisi critica alla storia politica e di costume: la divisione del continente come fosse un agglomerato di paesi indistinti da considerare unitariamente per poter parlare di Africa (il che ci ricorda tanto una grottesca partita di Risiko); l’incontro tra la cultura occidentale borghese che si relaziona al proletariato ignorante e morto di fame che deve essere acculturato, simbolicamente rappresentati da Pier Paolo Pasolini e Ninetto Davoli che, per uno spostamento in parallelo del pensiero etnocentrico, diventano l’Occidente progressista e il Terzo Mondo sottosviluppato.

Foto di Piero Tauro
Foto di Piero Tauro

La scrittura di Acqua di colonia arriva imbellettata, a piccoli passi, con fare sornione, col ghigno di una paresi comica e guardandoti dritto negli occhi ti spruzza addosso schizzi di profumato senso di colpa: non c’è scampo, tutto finisce nel calderone di un’accusa e non c’è più relativizzazione, non ci può essere una crisi perché altrimenti ci sarebbe uno scambio biunivoco tra i due attori e il pubblico ma il confronto non si vuole. Noi siamo quelli giunti in ritardo, che prendono posto lentamente e chiassosamente e dobbiamo imparare ciò che per molto tempo abbiamo ignorato.

L’oggetto che non abbiamo considerato però è proprio lì davanti ai nostri occhi per tutto il tempo dello spettacolo, sono Ruth Gebresus, Luisanna Arias e Angela Spencer Teque, ognuna presente ciascun giorno di replica e seduta su una piccola sedia a rappresentare il protagonista non interpellato, la fonte non interrogata, la storia non ascoltata, la corporeità che la civiltà occidentale ha relegato a stato d’inferiorità in quanto discendente del figlio maledetto di Noè, l’uomo peccaminoso che, secondo l’ipotesi camitica, è “naturalmente schiavizzabile” (Michela Fusaschi, 2000): «Noi parliamo, lei non può parlare. Il suo è un corpo estraneo allo spettacolo, così com’è estraneo nel Paese. Parliamo noi per lei». E allora perché la applaudiamo nel momento in cui abbandona la scena? Battiamo le mani perché sta lasciando da attrice il palcoscenico o applaudiamo perché è quell’attrice sociale rispetto alla quale ci sentiamo in dovere di giustificare un nostro comportamento atavico? Forse una curiosa messa alla prova drammaturgica che sembra interrogarci riguardo al nostro grado di partecipazione critica allo spettacolo. La coppia di attori costruisce infatti un perverso meccanismo per cui lo spettatore uscirà dalla sala rinfrancato di aver partecipato a una “lezione” di storia del colonialismo italiano, e se questa sarà stata di suo gradimento avrà così potuto espiare le colpe che gravitano sugli “italiani brava gente”.

Foto di Piero Tauro
Foto di Piero Tauro

C’è indubbiamente una nettezza coraggiosa d’intenti nello spettacolo di Frosini/Timpano: c’è la ricerca “matta e disperatissima” di creare una base bibliografica adeguata a restituirci una visione complessiva di quando siamo diventati fascisti più o meno consapevolmente e c’è poi la vis politica volta ad attaccare una storia della quale sarebbe anche ora che conoscessimo la portata. Senso di colpa e “fardello” storico sul quale sembra costruirsi l’orchestrazione della densa e pesante invettiva di Acqua di colonia, che tende tuttavia ad abbracciare pericolosamente la retorica del jamais plus, escludendo così una dialettica necessaria e di confronto che possa prevenire derive come quelle del razzismo caritatevole sulla quale si basa proprio quell’incorporazione longue durée (Albert Memmì, 1989) che lo spettacolo si prefigge invece di decostruire.

Lucia Medri

Teatro Biblioteca Quarticciolo – novembre 2016

ACQUA DI COLONIA
Testo, Regia, Interpretazione Elvira Frosini, Daniele Timpano
Consulenza Igiaba Scego
Voce del bambino Unicef Sandro Lombardi
Aiuto regia, Drammaturgia Francesca Blancato
Costumi Alessandra Muschella, Daniela De Blasio
Disegno luci Omar Scala
Uno spettacolo di Frosini / Timpano
Produzione Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti
Con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio
Si ringrazia C.R.A.F.T. Centro Ricerca Arte Formazione Teatro
Progetto grafico © Valentina Pastorino
Ospiti: Ruth Gebresus, Luisanna Arias, Queenia Pereira De Oliveira

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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