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Instabili Vaganti lancia il suo Archivio Digitale: un nuovo modello di...

Instabili Vaganti lancia il suo Archivio Digitale: un nuovo modello di teatro tra memoria e innovazione Bologna, 15 aprile 2025 La compagnia teatrale Instabili Vaganti apre...

SECONDO LEI (di Caterina Guzzanti)

Sul palco della sala Petrassi c’è una pedana con uno sfondo bianco opaco: il palchetto servirà, attraverso una botola, a far cadere la protagonista in una sorta di piano inferiore, quello dell’inconscio; la tenda opaca avrà il compito di fare da schermo per qualche gioco d’ombre. Una giovane donna, vestita di rosso è seduta, appoggiata alla pedana: spiega come prima fosse una donna viva.  «Ho la sindrome del cane pastore», così parla della sua tendenza ad organizzare le serate con gli amici. Poi arriva lui: «ci siamo innamorati spostando sedie e unendo tavoli», un’immagine che poi diventerà anche una canzone alla Myss Keta. Chi fosse venuto a teatro per ritrovare le maschere comiche, quelle politiche più graffianti con le quali Caterina Guzzanti ha rinnovato (insieme ai suoi fratelli la comicità televisiva dalla fine dei ‘90) ha forse sbagliato epoca. E aggiungiamo, per fortuna, perché altrimenti non avremmo avuto la macchina teatrale di precisione andata in scena all’Auditorium. Un lavoro che non si appesantisce di inutili orpelli, sia dal punto di vista scenico che drammaturgico: la scrittura della stessa attrice (un debutto registico e drammaturgico) è infatti un efficace meccanismo che fa riflettere su un argomento tabù come l’impotenza maschile, ma è anche ammantata di una poetica leggerezza, «io la notte vengo esclusa dal respiro del mondo», afferma la donna quando ormai la crisi è conclamata. Federico Vigorito è una spalla perfetta non solo per innescare le trovate comiche di Guzzanti ma anche per impersonare la maschera di un uomo tragicamente immobile. I due non riescono a fare sesso, lui si intesta tutto il problema ma non si impegna per risolverlo, non ha il coraggio di chiedere un aiuto esterno e così la relazione si trascina nei mesi, addirittura negli anni senza riuscire mai a cominciare davvero. Eppure i due si amano, anzi proprio per questo lei cerca di non dare troppo fastidio; «io ho bisogno che tu abbia bisogno di me» afferma lui palesando così la figura fragile di un’uomo che non è in grado di vivere con una donna libera e autonoma. Ma il sesso forse è solo la parte per il tutto, ci sono paure che pietrificano e impediscono che la vita possa sbocciare. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Parco della Musica Scritto e diretto da Caterina Guzzanti, con Caterina Guzzanti e Federico Vigorito. Prossima data: 19 giugno 2025 Campania Teatro Festival

PERLE SPARSE (Vashish Soobah)

Ci sono spettacoli che non si guardano soltanto, ma che si devono attraversare perché richiedono di abitare uno spazio altro, sospeso, in cui i frammenti della memoria riattivano una narrazione collettiva e si insinuano sottopelle. Perle sparse di Vashish Soobah è un racconto dell’attraversamento, un rituale di ricomposizione affettiva. In scena, un sistema di segni ripercorre le geografie e le acque oceaniche, intrecciando le isole della memoria con quelle della migrazione. Qui, c’è una mappa silenziosa che si compone gradualmente, fatta di fili tesi, tappeti stesi al suolo, video proiettati – che sono frame di terra acqua e radici - appunti visivi di un archivio personale. Ci sono oggetti che assumono un valore simbolico preciso: i sarees appesi al soffitto sono presenze liturgiche legate alla figura materna, tessuti sospesi in una fragranza di incenso che avvolge ogni cosa segnando una cesura con il mondo fuori. Il lavoro, presentato alla Triennale di Milano per il festival FOG e sostenuto da FONDO, network per la creatività emergente promosso dal Santarcangelo Festival insieme ad altri partner culturali, nasce da un’urgenza profondamente autobiografica: Soobah, nato a Catania nel 1994 da genitori mauriziani, parte da sé per riflettere sull’identità diasporica, sulla trasmissione intergenerazionale, sull’eredità coloniale che attraversa i corpi e le biografie. Ma il filo conduttore è quello della memoria, che si fa gesto, ricerca di un archivio orale e visivo, legame parentale: «Lavoro spesso con mia madre - racconta Soobah - perché è la figura di mezzo che mi trasmette le radici». È questa complicità familiare, che costituisce a tutti gli effetti l’asse portante dello spettacolo, che si muove tra i canti séga trasportati in Italia come bagaglio invisibile e l’immagine nitida di un campo di canna da zucchero, simbolo stratificato di colonialismo e resistenza. C’è una delicatezza tutta intima, una cura artigianale, seppur ancora embrionale, nel modo in cui questi frammenti si compongono, in un retro del palco che diventa il luogo ideale per accogliere e riscoprire storie marginali. «Finisco così per riscoprire un po’ come vivevano i miei genitori quando avevano la mia età, come si adattavano in un paese che non era il loro, mentre ora hanno interiorizzato il linguaggio di qui. Perché il cambiamento avviene anche su di loro, non solo su di me». (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: di Vashish Soobah, supporto drammaturgico Muna Mussie. Progetto sostenuto da: FONDO Network per la creatività emergente sviluppato da Santarcangelo Festival con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali, Centrale Fies, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Fuorimargine / Centro di produzione della danza in Sardegna, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino / Centro di Residenza Emilia-Romagna, Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo, OperaEstate Festival Veneto / CSC Centro per la Scena Contemporanea, Ravenna Teatro, SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione della Liguria, Teatro Pubblico Campano, Teatro Pubblico Pugliese – Consorzio Regionale per le Arti e la Cultura, Teatro Stabile dell’Umbria, Triennale Milano Teatro

ISLANDS (di Carolyn Carlson Company)

Ritorna a Genova la Carolyn Carlson Company con un programma di tre assoli che indagano l’animo umano istintuale, la dimensione rituale e la memoria. In The seventh Man, Riccardo Meneghini attraversa lo stadio della nudità infantile, del trionfo dell’istinto e poi, riluttante come un adolescente ribelle, indossa una camicia rossa, lasciandola aperta sul davanti. Il suo corpo luccica, madido di un sudore che penetra fin dentro il tessuto, la sua fronte è imperlata e gocce cadono copiose infrangendosi sul telo bianco sopra cui danza. Distende al suolo tre camicie, sopra cui cammina ripetutamente, esprimendo forse uno sprezzo per quelle catene sociali che vogliono rivestire di strati il suo corpo nudo e vivo. Le età della vita scorrono di fronte agli occhi degli spettatori come istanze autonome, quasi esistenze a parte, separate l’una dall’altra.  A deal with instinct viene presentato in prima nazionale e vede come suo interprete unico e principale Yutaka Nakata. Il controllo del movimento si scontra con il crescendo della tensione musicale, in un eterno contrasto tra l’esercizio dell’equilibrio della mente, placida spiaggia, e il maremoto dell’istinto, pronto a infrangersi sul lido e a trascinare via con sé gli ultimi rimasugli di autocontrollo.  Room 7, interpretato da Tero Saarinen, affronta il tema della memoria che, come lo strascico del suo costume, ci si trascina inevitabilmente dietro. Tero gioca con i fantasmi delle persone che abitano quella stanza e che fanno tutte parte di un frammento di ricordo, fino al distacco definitivo. Lo strascico cala sul tavolo e sulle sedie, e Tero prende posto in disparte, sotto una lampadina appesa a un filo, rivendicando la possibilità di lasciarsi il passato alle spalle e sancire, così, un nuovo inizio.  Grazie alle musiche evocative e alla cura dell’apparato illuminotecnico, prende vita una dimensione altra in cui ci è permesso sbirciare, spiando quelle pulsioni e quei meccanismi segreti che ribollono sotto la superficie. Carolyn Carlson denuda l’animo umano e ci piazza di fronte a uno specchio. Siamo noi a scegliere di guardare nel riflesso. (Letizia Chiarlone)

Visto al Teatro della Tosse. Visto al Teatro della Tosse. Crediti completi

EDIPO. UNA FIABA DI MAGIA (di Chiara Guidi)

“Io chi sono?” è la domanda che svetta su un cartello tenuto in alto, ben visibile agli occhi del pubblico di piccoli spettatori a cui è rivolta, e forse un po’ anche a me, l’adulta intrusa ad uno spettacolo per bambini. Una messinscena che di infantile, però, ha ben poco: il tema della ricerca dell’identità da parte del soldato zoppo si intreccia con quello della sfida verso l’ignoto per ottenere la risposta. Infatti, quello che poi si scoprirà essere Edipo, giunge al cospetto della misteriosa Sfinge per porle la sua domanda. La creatura ineffabile è semplicemente una voce dietro un telo candido spesso e gonfio, che si agita come Edipo lo fruga con le mani, nel tentativo di risalire alla fonte. Risolvendo l’enigma della Sfinge, Edipo riuscirà finalmente a penetrare oltre la coltre, trovando al di là un giardino arido. Alcuni bizzarri personaggi, con indosso costumi grotteschi, fanno la loro apparizione: il giovane Tubero, con il suo dorso coriaceo, desideroso di crescere, tormenta il Bulbo con una pioggia di domande. Si chiede quando giungerà la Primavera, e perché questa sia così connessa allo svelarsi della Verità. Si consulta con gli abitanti di questo paesaggio arido: i rami secchi, il ragno, il rapace Creonte, la restia talpa Tiresia e, infine, Madre Natura, che svetta in posa materna, statua erosa dal tempo, al centro del giardino. Il luogo in questione è stato privato della sua vitalità dal compiersi di un atto terribile: un uomo di nome Edipo vi ha ucciso il re. Edipo inizialmente nega, poi finisce per accettare la Verità e assumersi le sue colpe. Gli abitanti del giardino insorgono, ma Madre Natura invoca il perdono, non solo da parte di questi ultimi ma dello stesso Edipo nei confronti del suo misfatto. Sulle note di un sottofondo musicale persistente e dissonante che contribuisce a creare un’atmosfera surreale, Chiara Guidi, in dialogo con Vito Matera, presenta al pubblico una fiaba delicata, privata degli aspetti più truci della vicenda sofoclea, eppure in grado di pizzicare le corde nascoste del cuore. (Letizia Chiarlone)

Visto al Teatro della Tosse ideazione Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera con Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Maria Bacci Pasello, Vito Matera, Daniele Fedeli e con le voci di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann musica Francesco Guerri, Scott Gibbons cura Irene Rossini scena, luci, costumi Vito Matera  produzione Societas coproduzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

NON È UNO SPORT ACQUATICO (di e con Daniele Parisi)

L’estate è fatta per fare cose e raccontarle, oppure non fare niente e aspettare che i fatti accadono. In questa intercapedine del tempo tra smania e apatia, in cui ci si divide tra chi può e chi non può farsi le vacanze, Daniele Parisi colloca il suo condominio di Non è uno sport acquatico, monologo da lui diretto, interpretato e presentato al debutto a Fortezza Est. Nella sonnolenza di un pomeriggio d’estate, l’avvocato Fideli sale sul cornicione del palazzo per suicidarsi. Il fatto è il motore d’innesco che aziona un bestiario di voci, dialetti e posture che Parisi incorpora e colora con cadenze dialettali, gestualità caratterizzanti, mimiche camaleontiche e vocalizzi in loop. Parisi è il condominio: vestito con pantaloni e camicia, servendosi di microfono e pedale campionatore, è Antonio, il portiere, ma anche l’artista Pinetti, il napoletano Fusco; è Calogero Intorchia - diremmo la nemesi siciliana di Antonio – è pure l’erborista Tassi, l’ottuagenaria signora Pieri, e la famiglia Giuliotti, compresi i figli che vorrebbero giocare in cortile a “Estorsione”, “Tangenti”, “Rapimento”. I condomini sono appellati per cognome, a ribadire una distanza di classe, il portiere invece, è solo (un) Antonio. Da quello regressivo di Ballard (High Rise e/o Condominium, 1975), alla guerriglia di quello fantozziano (Fantozzi subisce ancora, 1983), a quello dei drammi irreversibili di Nick Hornby (Non buttiamoci giù, in inglese A Long Way Down, 2005), il condominio è da sempre una sineddoche di mondo e nel suo Parisi, con virtuosismo autoriale e finezza attoriale, fa precipitare tutta l’umana commedia delle riluttanze e vanità, tanto meravigliose quanto grette e meschine. Anche se verrà rimossa presto, il portiere Antonio si congeda nel finale raccontando che sul mattonato ristrutturato e bianco del cortile di questo palazzo come tanti rimarrà l’alone di una macchia indelebile, di quelle che stanno lì a ricordare certe cadute che non andrebbero mai dimenticate, un po’ come quella, umoristica, nel salotto de Il Fantasma di Canterville di Wilde che proprio non se ne andava via… (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: di e con Daniele Parisi, con il sostegno di Fortezza Est

BLUSH (di C. Josephine, regia M. Cotugno )

«Mi piacerebbe tirargli fuori i bulbi oculari uno per uno, fino a farlo trentamila volte, schiacciandoli sotto il mio peso…». Sono le prime parole pronunciate dal personaggio DONNA UNO in Blush dell’inglese Charlie Josephine, autore non binario cui riferirsi con lui/loro, nello spettacolo con regia di Marcello Cotugno che al Teatro Biblioteca Quarticciolo ha diretto in scena Arianna Cremona e Claudio Righini, assegnando loro i ruoli di DONNA UNO, DONNA DUE E DONNA TRE, e le parti di UOMO UNO e UOMO DUE. Il testo, tradotto da Marta Finocchiaro, e prodotto dal Teatro La Contrada, verte sugli abusi a mezzo immagini sessuali postate sul web. La rabbia della battuta citata appartiene a un personaggio femminile la cui sorella diciottenne ha subito 30.000 visualizzazioni di suoi ritratti nudi ad opera del suo ex fidanzato, con tentativo di suicidio della ragazza vittima. L’indole più proletaria della DONNA DUE è messa alla prova da selfie pornografici maschili che malgrado tutto creano un’ignorante intimità, senonché l’uomo poi sparisce e lei verrà così ghostata: la rivalsa consisterà nel leggere in un parco pubblico una lettera ad alta voce. DONNA TRE è un essere fragile, e le sue foto intime scatenano un ricatto virale, al punto che su un autobus le parrà d’essere riconosciuta da un passeggero: ma nella sua condizione lei troverà un modo per fare pace con sé stessa, accettando la vergogna diffusa e le conseguenze. UOMO UNO è maturo, è un capofamiglia, ma ha inclinazioni per ragazzine postadolescenziali, andrà incontro a un corto circuito visuale quando avrà di fronte il corrispettivo del manifesto di Hello Kitty conservato in casa da sua figlia. Il carrierista UOMO DUE ha incarichi di conferenze a New York, ci prova con una che si ribella, generando un caos bestiale: su Twitter. I due interpreti lasciano qua e là attoniti, tanto veloce è la loro bravura. E come sempre Marcello Cotugno, alter ego di Neil LaBute, ha guidato un imperdibile puzzle scomodo, con pochissime vie d’uscita. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo traduzione di Marta Finocchiaro regia, disegno luci e colonna sonora di Marcello Cotugno con Arianna Cremona e Claudio Righini scene di Luigi Ferrigno musiche Rival Consoles, Frank Zappa, CHVRCHES, Graham Lambkin, The Books, Crass, Thomas Ross Fitzsimons, Scala & KolacnyBrothers produzione La Contrada

Elena Lamberti. La distribuzione, ovvero cura e accompagnamento 

Elena Lamberti si occupa da anni di distribuzione, curatela artistica, project management e ufficio stampa. Attenta osservatrice e conoscitrice del settore, in una lunga e piacevolissima conversazione telefonica mi racconta di una personale e collettiva concezione delle personalità, ruoli e meccanismi della distribuzione degli spettacoli a partire da volume edito da Titivillus - A maggio 2024 usciva per Titivillus il volume La distribuzione degli spettacoli. Un percorso di curatela, di cui sei autrice. È passato un anno e un nuovo decreto ministeriale, che non sembra invertire la tendenza che privilegia la produzione a scapito della programmazione. Hai notato cambiamenti o sviluppi nell’ambito della distribuzione? Non direi che ci siano stati cambiamenti pratici nella distribuzione, ma ho notato con piacere che si è riaccesa la discussione su chi sia e quale sia la funzione di chi fa distribuzione. Il libro ha dato voce a un’idea condivisa con colleghi e colleghe: chi si occupa di distribuzione non si occupa solamente di vendere spettacoli, bensì compie un lavoro di cura e accompagnamento del percorso artistico. Dopo l’uscita del libro, mi è capitato spesso di ricevere ringraziamenti da parte di chi già operava in questa direzione, ma che magari non aveva mai definito la propria pratica. Questo riconoscimento ha portato a un bisogno diffuso di confronto. I seminari che tenevamo con 10-15 persone ora contano anche 30 iscrizioni. Del resto, il libro è esattamente il tentativo di dare voce alle diverse prospettive coinvolte nel processo distributivo. C’è bisogno di confrontarsi sulle metodologie e sulle consuetudini legate alla distribuzione. Il volume non consiste in un manuale su “come vendere uno spettacolo”, bensì in una mappa per orientarsi nel sistema. Quanto conta la progettualità? Tantissimo. E, proprio perché non stiamo parlando di un mercato organico e con regole chiare, serve costruire un progetto e capire in quale contesto possa inserirsi. Come diceva Gilberto Santini: “Attenti a invitarmi, perché poi arrivo”. Un perfetto slogan per un film horror ma, soprattutto, un modo per dire che l’invio a pioggia non funziona, soprattutto per proposte che possiamo per semplicità definire “di teatro contemporaneo”. Se il programmatore realizza un progetto articolato e pensato per il proprio pubblico, allora chi distribuisce deve conoscere profondamente ciò che propone e il contesto in cui lo propone. Per questo credo che una compagnia non possa non coinvolgere il distributore nel proprio percorso artistico. Un distributore non è un agente commerciale, non vende profilati in alluminio. Deve credere nel progetto, condividere un percorso. Quando si lavora con fiducia e complicità, si costruiscono relazioni durature anche con i programmatori. È un lavoro lungo e faticoso, ma che porta molte soddisfazioni. Ma trovare una figura del genere non è semplice, soprattutto per le compagnie emergenti. Hai qualche consiglio? È difficile, sì. Le figure strutturate sono poche, molte delle quali già citate nel libro. Io ho iniziato lavorando con una compagnia giovanissima, i Sotterraneo. Abbiamo costruito insieme un processo e una modalità di lavoro, siamo cresciuti insieme. Un consiglio è quello di cercare nelle scuole di formazione di alto profilo, come la Paolo Grassi, dove ci sono giovani che vogliono specializzarsi in organizzazione e distribuzione. Si può crescere insieme, anche perché il processo di distribuzione necessità del temo lungo della conoscenza reciproca, della condivisione, della fiducia, a cominciare dalla costruzione del rapporto con gli operatori. Nel libro dialoghi con una generazione teatrale che si è affermata in un periodo di grande fermento. Nel tempo il mercato si è saturato nei meccanismi delle stabilità, degli scambi, del giro di compagnie che si sono, nel frattempo, giustamente affermate. Rimane una minuscola fetta di “libero” mercato contesa dalle mille forme di una generica sperimentazione emergente, con innumerevoli proposte che escono, tra l’altro, da premi e vetrine. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni? È un problema reale. Quando iniziai a lavorare come distributrice, nel 2006, i giovani non erano ancora “di moda”, non c’erano bandi under 35. C’era un’aspettativa di maturità che era ingiusta per compagnie così giovani. Ricordo i loro primi spettacoli, perfetti per i primi 20 minuti e poi... crollavano. Era normale. Ho dovuto lavorare tanto per far capire che avevano bisogno di essere sostenuti, non giudicati, per convincere gli operatori a non considerarli come un inserimento in programmazione ma come un accompagnamento per far emergere le potenzialità. Il rinnovamento c’è stato nel 2007, con il ministero di Rutelli e con una serie di bandi dedicati al rinnovamento della scena. Emerse una generazione teatrale straordinaria che fino ad allora aveva abitato il sottobosco di spazi indipendenti dove aveva avuto il tempo di formarsi, di sbagliare, di migliorare e il “fallimento” di questa o quella produzione non era contemplato. Compagnie che tutt’oggi sono sulla cresta dell’onda. Il fatto che loro, come giovani compagnie, si siano affermate non significa, tuttavia, che tutto ciò che emerge da artisti e gruppi giovani abbia lo stesso valore. Oggi si cerca l’innovazione immediata, si rincorrono i giovani talenti, ma si dimentica chi ha superato i 35 anni. Quella fascia 36-50, di non ancora maestri ma neanche più giovani, trovo sia la più trascurata a causa della ricerca ossessiva di nuovi giovani: gruppi al debutto, considerati innovativi, addirittura geniali, ma che poi si rischia di “bruciare” non dando loro il tempo e lo spazio necessari alla sperimentazione. C’è bisogno di un doppio sguardo: sul nuovo, ma anche su chi ha già avviato un percorso. Non possiamo fermarci all’entusiasmo della novità. Bisogna investire nella continuità, nel tempo lungo. Altrimenti rischiamo di creare delle “meteore” che non hanno il tempo di diventare stelle. È chiaro, nel libro, come il processo distributivo consista in una narrazione puntuale e costante di questo tempo lungo, e che comincia già durante la produzione. Certo. Non si produce prima e si distribuisce poi. Il lavoro di distribuzione comincia fin da subito, quando sei in residenza, quando stai costruendo il lavoro. Inviti i programmatori, li rendi partecipi, li fai affezionare al percorso artistico. È una narrazione continua e relazionale. Un altro tema importante che emerge nel libro è quello della distribuzione all’estero. Qual è la situazione oggi? Per fortuna, all’estero ci sono più investimenti, strutture più grandi e staff articolati, e spesso anche tempi di risposta migliori. Ma bisogna sempre considerare le specificità culturali e di gusto di ogni paese. Per questo nel libro ho incluso contributi preziosi di chi lavora su questo tema, come Carlotta Garlanda, Donatella Ferrante e Giulia Traversi. È un lavoro che va fatto con attenzione, paese per paese. Forse un giovane organizzatore spererebbe di trovare nel tuo libro un vero e proprio vademecum del distributore. Non lo è, ma nella piacevolezza della lettura si possono comunque scovare tanti consigli pratici. Assolutamente sì. Quando ho iniziato, cercavo un testo che mi spiegasse come fare distribuzione per una compagnia giovane, ma non trovai nulla di specifico. Trovai tantissimi consigli estremamente utili nei testi di Mimma Gallina, che io considero una vera e propria “Bibbia” per il settore dello spettacolo dal vivo. Ma i meccanismi di distribuzione di una grande compagnia di giro o di un artista di chiara fama erano inadeguati per il lavoro che dovevo fare all’epoca. Fui costretta a inventarmi un’idea di distribuzione. Nel libro ho voluto raccontare la mia esperienza, passo passo, e poi aprire il discorso a colleghi e colleghe con esperienze e visioni differenti e che spesso sono anche curatori o direttori artistici. Il libro vuole essere chiaro, semplice, utile. Per esempio, hai dedicato molta attenzione anche alla qualità dei materiali promozionali. Perché è così importante? Perché è il biglietto da visita. Il modo in cui presenti il progetto dice già molto. Foto, immagini, sintesi, tono della mail: tutto conta. Quando faccio seminari, dedico sempre tempo a rivedere i materiali degli allievi. A volte ci sono errori davvero evitabili, che però compromettono l’impressione che si dà. E qua torna il tema del distributore come curatore… Sì, esatto, e infatti quasi tutti quelli che ho intervistato si occupano anche di programmazione o di curatela. Questo dà uno sguardo più ampio, permette di capire meglio cosa serve a uno spazio o a un festival. Anche per questo la presentazione della compagnia deve raccontare bene chi siete, che poetica avete, qual è il vostro percorso. Non si vende un singolo spettacolo, si accompagna un progetto. Il libro ha il tono di un percorso collettivo, più che di un’opera individuale. Lo è, lo è stato fin dall’inizio. Il piacere più grande, oltre alla scrittura in sé, è stato riconnettermi con tanti amici e colleghi. È stato un viaggio fatto insieme. E il fatto che tutti abbiano partecipato con entusiasmo dimostra che c’è bisogno di condividere questi pensieri. Hai considerato la possibilità di ampliarlo e di realizzare una seconda edizione? Sì, ci sto pensando. Per giunta, alcune interviste non sono riuscita a farle in tempo per l’uscita. Il libro non ha nemmeno una vera conclusione, proprio per questo. Ma se continuerà ad avere riscontro, potrei pensare a una nuova edizione ampliata. Ci sono ancora tante voci da ascoltare.

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