Abbiamo trascorso due giorni all’ottava edizione di Polis Teatro Festival, realizzato a Ravenna da ErosAnteros e quest’anno incentrato sulla scena contemporanea di Spagna e Portogallo. Reportage e recensioni.

Indipendente e sovrana, affezionata alla propria identità ma cosmopolita, difesa e allenata a difendersi da attacchi non solo militari, ma anche culturali. Così era la polis, la città-stato greca mito di fondazione della nostra civiltà occidentale. Luogo d’incontro e di scambio, di sosta e riflessione, di attività febbrile e di apertura del pensiero. Ma la caratteristica più forte è quella dell’autonomia, che dall’indipendenza compie un passo in avanti, cominciando a farsi le leggi da sé. Molte di queste spinte programmatiche sembrano stare alla base del progetto di ErosAnteros (al secolo Davide Sacco e Agata Tomšič), che quest’anno ha regalato alla città di Ravenna l’ottava edizione di Polis Teatro Festival. Incentrata su temi fortemente contemporanei come guerra, diritti civili, migrazioni e cambiamento climatico, la kermesse ha da subito messo in atto una strenua ricerca di linguaggi diversificati, tra il nuovo e il meno nuovo. Dopo essersi interrogato, nel 2021, sulla sorte dei teatri alla riapertura post-Covid e aver dedicato un focus alla drammaturgia francese nel 2022, Polis Festival ha trovato un’identità ancora più personale, occupandosi di aprire una finestra su una geografia artistica diversa ogni anno: i Balcani nel 2023, la Germania nel 2024, la Penisola Iberica in questo nuovo maggio sono stati i terreni di atterraggio di un pensiero curatoriale che sorvola i quartieri dell’arte effettuando un attento scouting.

Abbiamo trascorso due giorni in una Ravenna in grado di esprimere la maggior ospitalità possibile, destinando i principali spazi (Teatro Rasi e Artificerie Almagià) al transito di artiste e artisti provenienti da questa e l’altra penisola, con la forte partecipazione delle associazioni e degli esercenti del territorio, in grado di far percepire una sensazione di quieta officina famigliare. Se i fondi Siae hanno permesso l’apertura della sezione under 35 Polis Neon, sempre presente in questo festival è la prassi di accompagnare gli spettacoli con momenti di riflessione trasversale: Laura Palmieri ha moderato una conversazione sulla giovane creatività italiana con Damiano Pellegrino, Maura Teofili e Stefano Romagnoli; Marco De Marinis ha dialogato con Marco Martinelli sulle utopie del Don Chisciotte. Il forte networking ha, negli anni, saputo poi mettere in relazione il territorio, la sua creatività e l’Università di Bologna, in particolare il Master in International Cooperation on Human Rights and Intercultural Heritage, coinvolgendo studenti in uno sguardo orizzontale al festival e quest’anno incentrato sulle comunità LGBTQ+ e migranti. La collaborazione con PAV / Fabulamundi New Voices ha invece assegnato a due compagnie del territorio (Nerval Teatro e Teatro Onnivoro) le mise en espace di Joan Yago e Joana Bértholo, mentre l’ingresso nella rete nazionale In-Box ha dato spazio al debutto di Annachiara Vispi, selezionata dal premio. Due tavole rotonde hanno infine approfondito la scena contemporanea iberica: una conversazione tra Gonçalo Amorim, Saúl Cabrera, Davide Carnevali e Leticia Martin Ruiz, moderata dall’accademico e artista Rui Pina Coelho e un dialogo tra le compagnie Hotel Europa e Hermanas Picohueso, incentrato sulla drammatica storia del Novecento di repressioni e rivoluzioni.

Ed è su quest’ultimo frangente che si sono concentrati alcuni degli spettacoli in programma: nel viaggio di questa ottava edizione i riflettori illuminano le presenze che hanno agitato la recente storia ispanica e portoghese, tra regimi militari e censura, evidenziando al contempo gli inquietanti legami che il presente ancora intrattiene con certi fantasmi del passato.
Signora Dittatura di Hermanas Picoueso è un pezzo di teatro civile incentrato sulla figura di Carmen Polo, moglie di Francisco Franco, qui protagonista di una sorta di processo al vetriolo che, mescolando diversi linguaggi scenici, mette alla berlina quel che sembrerebbe un pericoloso modello di conservatorismo ancora tutt’altro che morto nella Spagna contemporanea. La drammaturgia ha come punto di partenza l’efficace gioco del “e se invece fosse andata così?”: la figura della first lady viene evocata mostrando a una lavagna luminosa decine di foto di una signora di terza età in varie situazioni familiari, vacanze, festeggiamenti, sostenendo quanto sarebbe stata diversa la storia se solo Carmen Polo fosse stata nient’altro che una signora spagnola come tante. Perdendo in parte questo promettente spunto, il testo di Lluki Portas (in scena con Josep Orfila) si fa via via più fitto, mescolando il dato storico a quello biografico e ripercorrendo l’influenza della “grande donna dietro al grande uomo”, senza tuttavia riuscire a trovare una via mediana tra due estremi retorici molto pericolosi – lo sfottò e la caricatura – che prevalgono impastati in una eccessiva verbosità finendo per rendere statico il discorso scenico e per neutralizzare il potenziale politico dell’intera operazione.

Su un contenuto non troppo lontano agisce il più riuscito Copla. Un cabaret spagnolo, installato alla perfezione nel Teatro Socjale di Piangipane, la cui storia militante affonda le radici nell’iniziativa della Cooperativa Agricola Braccianti, animatrice dello spazio fin dal 1921. Da allora la storia del luogo non si è persa e oggi il teatro è un Circolo Arci aperto alle forme di spettacolo più diverse, dal varietà alla musica jazz, in un’atmosfera informale che sostituisce alla platea una manciata di tavolini da kabarett viennese. È il contesto perfetto per l’appassionato viaggio di Alejandro Postigo, un vero e proprio “animale da palcoscenico”, spagnolo ma trapiantato a Londra e impegnato (anche alla guida del collettivo HisPanic Breakdown) in un intelligente recupero di tradizioni popolari e folkloristiche altrimenti destinate all’oblio. La copla è la forma musical nata in Spagna appositamente per dare spazio a quelle soggettività al limite, cellule della controcultura queer e migrante, evitate dai bigotti riflettori dello star system. Ne risulta un folle viaggio nel tempo, a metà strada tra una conferenza-spettacolo (Postigo ha un PhD alla RCSSD londinese ed è Senior Lecturer alla University of West London), un concerto per (sorprendente) voce e piano e violino (Jack Elson e Violeta Valladares) e uno sfrenato re-enactment di playback e live che attraversa interi decenni di censure e soprusi, fino al quiz interattivo e un gran finale con un commovente numero di drag queen. Anche qui il nucleo centrale è la Spagna di Franco e la sua tagliola culturale, ma Postigo riesce a far percepire come ancora oggi certe spinte identitarie siano soppresse e quanto chiunque lasci la propria terra sarà sempre e comunque un misfit, come la copla che non si esegue più da venticinque anni.

Se, nel vagare solitario alla ricerca di una perturbante empatia con i morti e le loro immagini-feticcio, Corpi Celesti, il percorso itinerante nel Cimitero Monumentale curato da El Conde de Torrefiel scopre il fianco ad alcune ingenuità e a una certa dose di retorica consolatoria, riesce potente l’effetto nel segmento finale, quando al fruitore viene chiesto di scriversi un massimo di sei righe di epitaffio per poi bruciarlo con un accendino e restare così senza lasciti, memore di un futuro che, contra Benjamin, è quell’orizzonte che sistematicamente si allontana e fa perdere le tracce in una nebulosa utopia di pacificazione. E proprio di utopia parla, a lungo e in un irresistibile italiano preferito ai sopratitoli sull’originale portoghese, Rui Pina Coelho con la sua lecture-performance Icaria Icaria Icaria una conferenza su un desiderio chiamato utopia e altri superpoteri, a partire dal romanzo Voyage en Icarie del francese Étienne Cabet (1840), un’allegoria che risponde al più celebre Utopia di Thomas More.

Dietro alla raffigurazione della società agraria dove la scienza serve l’artigianato e non il mercato e dove ogni bene è condiviso in parti uguali, per Cabet c’era il progetto di una reale svolta anticapitalista (che lo avrebbe portato a fondare una micronazione autonoma negli Stati Uniti), ma la chiave della lettura di Coelho sembra stare nella riscoperta di una sorta di «utopia creativa», un élan vital che si annida, potenzialmente, in ciascuna tendenza verso l’impossibile, foss’anche la semplice esperienza dell’innamoramento. In un presente in cui le distopie di Black Mirror stanno cessando di impressionarci perché troppo simili alla realtà che già ci avvolge, nel progetto di Coelho, che vedrà la luce il prossimo anno in Portogallo, il ritorno all’utopia è – etimologicamente – l’accesso a un “non luogo” in cui a poter svolgere la funzione dell’isola sognata sia un teatro che recuperi, conservi e valorizzi la propria vocazione politica. Ed è qui che torna forte e chiara l’appassionata indicazione programmatica di Polis Teatro Festival: un’apertura all’immaginazione e all’immaginario, in attesa che l’indipendenza possa davvero lasciare spazio all’autonomia.
Sergio Lo Gatto
Polis Teatro Festival VIII edizione
Ravenna, 6-11 maggio 2025