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Cordelia - le Recensioni

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LA VIDA ES SUEÑO (regia di Declan Donnellan)

C’è una fila di porte chiuse lungo una parete che taglia in orizzontale la scena, si aprono seguendo un’alternanza disordinata e mostrando proiezioni, personaggi di cui non si comprende a fondo la natura, se facciano parte della realtà o del sogno. Così comincia La vida es sueño di Pedro Calderòn de la Barca, in apertura di stagione al Teatro Nazionale di Genova con la regia di Declan Donnellan e l’interpretazione degli attori della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid. Eppure, viene da domandarsi, la realtà e il sogno sono poi così distanti? C’è in questa messa in scena, allestita grazie alla solida visione di Nick Ormerod, l’intenzione di recuperare dal mondo classico gli elementi che sappiano esplicitare l’assolutezza del testo barocco, come volerne far emergere tutta la risonanza contemporanea fin dalla vicenda. La storia infatti, quella di Sigismondo e Rosaura, sarebbe di per sé ferma al tempo storico dell’autore, eppure l’esilio del principe allontanato in una cattività conservatrice dal padre, per paura di una predizione al futuro, l’avviluppamento poi del destino che rincorre e allo stesso tempo determina la vita dei protagonisti, sono tutti elementi che scavano nelle opere classiche con evidenza nel mondo attuale. Esibendo dunque il reale di una vicenda esemplare, in Calderòn Donnellan vede la possibilità di mettere in luce la distinzione tra morte e non esistenza, esplorando in quest’ultima l’effettiva contrapposizione alla vita, allora sì trascorsa come fosse un sogno lucido che manifesti il nostro esistere. Ma il sogno di Calderòn, privo della profondità con cui la psicoanalisi ha motivato l’uomo del Novecento, rischia di non essere all’altezza del contemporaneo, finendo talvolta per chiudersi tra i lazzi di una rappresentazione giocosa, ricca di una magnifica qualità attoriale ma limitata a un’età fin troppo antica. “Anche nei sogni è bene fare ciò che è giusto”, dice Clotaldo in conclusione. Anche nei sogni, privi della sequenza e della durata, il tempo assoluto invece non può essere ignorato. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Gustavo Modena. Crediti: di Pedro Calderón de la Barca; adattamento Declan Donnellan, Nick Ormerod; regia Declan Donnelan; interpreti: Ernesto Arias, Prince Ezeanyim, Rebeca Matellán (Rosaura), Manuel Moya, Alfredo Nova, Goizalde Núñez, Antonio Prieto, Ángel Ruiz, Irene Serrano (Estrella); scene e costumi Nick Ormerod; musica e suono Fernando Epelde; luci Ganecha Gil

LA FEROCIA (VicoQuartoMazzini)

La ferocia, quella capacità di distruggere il mondo che abbiamo attorno, la natura e i nostri cari, per mantenere il potere e la ricchezza: la famiglia Salvemini e il suo patriarca sono la rappresentazione delle metastasi del nostro Paese. È spietata la vicenda scritta da Nicola Lagioia e altrettanto spietato l’allestimento teatrale di VicoQuartoMazzini. Gabriele Paolocà e Michele Altamura chiudono parte della storia dietro una grande vetrata, la scenografia di Daniele Spanò lascia percepire un’opulenza minimalista: nell'interno un grande tavolo e delle piante, poi c’è lo spazio fuori, non vediamo altro ma possiamo immaginare un grande cortile, forse un prato all’inglese e una piscina. Sulla destra il piccolo studio in cui il narratore/giornalista interpretato da Gaetano Colella registra un podcast sulla vicenda facendo così da filo conduttore. In questi spazi si decidono i destini della famiglia, dei terreni su cui edificare milioni di euro di cemento avvelenato, qui si dissotterrano cadaveri dando del tu ai morti. L’adattamento di Linda Dalisi ricama con grandissimo mestiere le linee narrative per conferir loro sostanza scenica e una fruibilità evidente, due soprattutto: quella più visibile, che riguarda la figlia del grande costruttore, la cui vita è raccontata in sua assenza dagli uomini di potere a cui si concedeva. L’altro tracciato è relativo al ritorno del fratello Michele, lo interpreta Paolocà entrando dopo mezzo spettacolo, non c'è eroismo nelle sue azioni ma una sincera ricerca della verità. Il lavoro lascia trasparire una certa distanza e talvolta freddezza date dall'utilizzo dei microfoni, dal tipo di amplificazione utilizzata e dall'impostazione generale (comunque coerente). Gli attori, nonostante la poca mobilità, costretta dall'inquadratura scenica iper realistica, sono rigorosi nella cura dei personaggi e compongono un cast di talento. Urge qui aprire una parentesi produttiva: Il centro di produzione Scarti - di certo anche grazie al nome di richiamo dello scrittore - ha messo in fila importanti partner (come poche altre volte è accaduto ad artisti under 40) segnando così la possibilità di un passaggio di maturazione del duo di artisti. Il ricambio generazionale deve essere perseguito e i trenta quarantenni sono pronti per gestire operazioni con budget finalmente decorosi, e rivolgersi così a un pubblico più ampio. (Andrea Pocosgnich)

- Leggi il cast completo e i crediti di produzione - Leggi l'intervista a VicoQuartoMazzini

FERDINANDO (di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo)

Nonostante la scena restituisca la dimensione ottundente del fallimento - quello del Regno delle Due Sicilie fa da fondale storico alla vicenda – i protagonisti sono tutt’altro che immobili e con vigore attoriale e sapienza interpretativa accendono coi loro umori le luci del lampadario precipitato a terra, smuovono le coltri, fanno oscillare il drappo damascato che chiude lo spazio di un teatro da camera che, come nel miglior dramma borghese, è pronto a saltare in aria. Ferdinando, ultimo lavoro di Arturo Cirillo sul testo di Annibale Ruccello, dopo il debutto ad Ancona è arrivato questa settimana al Teatro Parioli ed è subito accolto dal pubblico con complicità: risate dalle prime battute e applausi a scena aperta. Con empatia, ci avviciniamo al rancore sopito e alla disillusione di Donna Clotilde (Sabrina Scuccimarra), baronessa decaduta che schifa il re sabaudo e l’impersonalità della lingua italiana; a Donna Gesualda (Anna Rita Vitolo), Gesualdina, cugina “ingiallita” per la sua, apparente, condizione di nubile domestica che si rincuora con le “confessioni” di Don Catello (Arturo Cirillo), Catellino, uomo di chiesa ma amante del sacrilegio. Nell’opera di Ruccello, nei suoi adattamenti più ficcanti, e la produzione di Cirillo lo dimostra, il sottotesto, tanto drammaturgico quanto registico, è determinante al significato del testo stesso: l’impulso che cova e appassiona gli animi, i tic ripetuti dei personaggi, la prossemica, il ritmo ascendente e discendente della musicalità delle battute, alcuni termini calcati rispetto ad altri. E la camminata incisiva che Ferdinando (Riccardo Ciccarelli) compie da un lato all’altro del palco nella prima scena, in silenzio, quasi a prendere le misure, non può che far presagire quanto questo giovane, aitante, nipote della baronessa rimasto ora orfano e bisognoso d’affetto colmerà le solitudini dei tre riempiendone, e svuotandone poi, le esistenze. L’uomo deve essere consapevole di peccare, altrimenti diventa una bestia, dirà Don Catellino. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Parioli: con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo, Riccardo Ciccarelli, Dario Gessati, Gianluca Falaschi, Francesco De Melis, Paolo Manti, produzione Marche Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

TOMORROW’S PARTIES (Forced Entertainment)

Di certe indagini della realtà o dell’umano, a cui diverse ricerche artistiche hanno nel tempo prestato attenzione, alcune opere hanno reso un risultato talmente preciso da somigliare a una scoperta scientifica che non è più possibile ignorare: quella precisione di ragionamento trovata da uno diviene postulato per i discorsi degli altri. È significante come il contemporaneo, in modo più o meno consapevole, rilegga quel frammento di Tre Sorelle di Čechov dove ci si domanda che cosa resterà di noi nella memoria di chi ci succederà: la nostra capacità di raccogliere e proteggere campioni dell’attuale umanità chiede con urgenza una verifica. Nel mondo odierno, pervaso e presidiato dalla registrazione/archiviazione/condivisione di frammenti di realtà e dalla smania di rappresentare il presente, l’arte che dovrebbe organizzare una e sublimare l’altra interroga seriamente l’efficacia e la precisione di questi sforzi. Lo fa anche Forced Entertainment con Tomorrow’s Parties, la cui versione italiana (tradotta da Roberto Castello per ALDES) ha debuttato a Romaeuropa Festival con la regia di Tim Etchells, fondatore del premiato ensemble britannico. Una luminaria da desolata sagra di paese incornicia Marco Cavalcoli e Caterina Simonelli (un cast alternativo vede Roberto Rustioni e Simona Generali): in piedi su un podio di pallet, semplicemente immaginano i futuri episodi della nostra specie. La congiunzione disgiuntiva (bell’ossimoro) “o” è la parola chiave per cullarci in un salmodiare di ipotesi che, in un registro quieto (o rassegnato?), ci raffigura come bersagli o destinatari di cura per gli alieni, come servi o complici delle macchine, o divinità decadute, o inventori di nuovi ecosistemi sostenibili, o naufraghi alla ricerca di un nuovo pianeta e un nuovo senso. Lo si legga come distopico o consolatorio, anche in questo futuro immaginato “le storie di ieri” smetteranno di essere leggibili e significanti e diventeranno dunque incomprensibili e futili. Il tutto con la terribile, ma profondamente umana e teatrale, essenzialità del dialogo. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Mattatoio per Ref 23 - interpreti Marco Cavalcoli o Roberto Rustioni con Simona Generali o Caterina Simonelli ura della versione italiana Robin Arthur traduzione Roberto Castello scenografia Richard Lowdon realizzazione scenografia Teatro del Giglio disegno luci Francis Stevenson responsabile tecnico Leonardo Badalssi

WIDE BEYOND (di Nathan Ellis, regia Lucilla Lupaioli)

Qualche anno fa, quando la manifestazione viveva di sana e robusta costituzione, erano addirittura più di uno i paesi messi sotto la lente d’ingrandimento, ne ricordo una versione dedicata anche alla Germania ad esempio, ma TREND nuove frontiere della scena britannica rischia di essere all'ultima stagione e sarebbe davvero un peccato; la storia è purtroppo la solita, mancanza di finanziamenti strutturali e bocciature nei bandi comunali e regionali. Una perdita nel panorama teatrale romano e nazionale perché ponte diretto di collegamento con il mondo sempre vivace della scrittura teatrale british. Quest’anno la XXII edizione, come sempre ospitata al Teatro Belli e curata da Rodolfo Di Giammarco, per la prima volta senza il compianto Antonio Salines,  è cominciata sotto il segno del giovane Nathan Ellis e del suo Wide Beyond messo in scena da Bluestocking. Un soggiorno con un tavolo, un divano economico color pesca, appendiabiti e poco altro, su una parete di fondo una sorta di finestra rappresentata da una fotografia opportunamente illuminata. Alessandro di Marco veste i panni di uno scrittore di successo di mezza età trasferitosi in California, quando il sipario si apre lo ritroviamo sulla soglia, sta per scappare dalla casa della madre, ma incontra la sorella. Quello di Ellis è un testo tutto teatrale, nel senso che tutto accade nel fitto dialogo tra i due fratelli: lei, umanissima Martina Montini, accudisce la madre malata da anni e ora si sta anche separando dal compagno al quale ha concesso la custodia dei figli; lui è tornato dalla California con la sua vita di successo di scrittore e docente, ma qui deve scontrarsi con la durezza della sorella. I particolari della relazione tra i due emergono lentamente, mentre una zuppa cerca di scaldare affetti rimasti troppo tempo lontani; arriverà il vino a sciogliere definitivamente il dialogo e a far affiorare segreti indicibili. Ellis ci pone di fronte a un dolore supremo: l’amore di una figlia per la madre e la possibilità che questo si trasformi in violenza a causa della depressione e dell’abbandono. E poi quel fratello che fugge, incapace di farsi carico del dolore, lasciando così la sorella, con le proprie lacrime, sola, di fronte alla soglia, tra le foglie di un autunno freddo e piovoso. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Belli, Trend: di Nathan Ellis regia Lucilla Lupaioli con Alessandro Di Marco e Martina Montini luci e fonica Sirio Lupaioli scene e costumi Nicola Civinini traduzione Natalia di Giammarco produzione Bluestocking

“M” (di Marie Chouinard)

In M di Marie Chouinard, presentato a ottobre al Festival MilanOltre nelle sale del Teatro Elfo Puccini, il respiro si cala da una dimensione strettamente naturale/vitale ad una artisticamente genitrice: è il respiro a informare il corpo, a disegnare nell’aria un riverbero ritmico incarnato dai dodici performer sul palco. Di quel respiro – sospirato, acuto, sospeso strozzato, tanto singolo quanto collettivo – ne viene estratta la traccia sonora, ora ripetuta ora amplificata nelle partiture vocali pensate da Chouinard, con l’accompagnamento delle musiche di Louis Dufort. Le coreografie partono proprio da quel suono, registrato accuratamente da Vincent Blain: da una scenografia lattiginosa che sembra fuggire i confini e gli orizzonti, si muovono inizialmente quattro performer, figure nitide e dai colori sgargianti sullo sfondo neutro del suono materico della pioggia. Il microfono posto in una posizione avanzata verso il pubblico ne diviene direttrice degli assoli, i quattro artisti vi si avvicinano per compiere quella partitura vocale di vibrazioni-sospirate, dando principio al virtuosismo dei corpi. In risposta, il palco si abita di altri performer, tutti legati da una connessione ritmica e un filo invisibile ne cuce la carica dei gesti, che alternano fluidità a momenti più meccanici, potenziati da un efficacissimo gioco di colori e di luci. Il light design, sempre di Marie Chouinard, manifesta un’attenzione precisa della regista e coreografa che dirige lo spettacolo con uno sguardo plurimo e dinamico, perché si muove dalla danza alla performance, dall’arte ad una concezione architettonica dello spazio, in un intreccio stratificato che crea un’esplosione di immagini ed echi acustici. Il risultato è una commistione di linguaggi davvero interessante, modulati attraverso un gioco artistico e uno slancio vitale destinato a ripetersi ancora nella mente dello spettatore. (Andrea Gardenghi)

Visto a MilanOltre, Teatro Elfo Puccini, Milano. Crediti: coreografie e partitura vocale Marie Chouinard, con la partecipazione degli interpreti Carol Prieur, Valeria Galluccio, Motrya Kozbur, Paige Culley, Clémentine Schindler, Luigi Luna, Jossua Collin Dufour, Adrian W.S. Batt, Celeste Robbins, Michael Baboolal, Rose Gagnol e Scott McCabe, musiche Louis Dufort, luci, set design, costumi e parrucche Marie Chouinard, trucco Jacques-Lee Pelletier.

I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA (di Giovanni Testori, regia di Andrée Ruth Shammah)

Per celebrare il doppio anniversario, i 100 anni dalla nascita di Giovanni Testori e i 150 dalla morte di Alessandro Manzoni, Andrée Ruth Shammah riporta sul palco del Piccolo Teatro di Milano I promessi sposi alla prova attraverso un riadattamento dello spettacolo di Testori. Riprendendo le parole della regista scritte nelle note di sala - «la mia vocazione come regista era quella di sviscerare un testo fino allo sfinimento per trovare nella recitazione degli attori il significato di una battuta, di un sentimento, di un pensiero» - troviamo con successo un’unità di intenti con la direzione stessa impartita da Testori negli anni in cui lo spettacolo andò in scena. Dunque, un’attenzione raffinata nell’uso della parola, una passione per la lingua e uno scavo profondo nella caratterizzazione dei personaggi che sembrano riprendere vita sul palco del Piccolo senza tuttavia subire il passaggio del tempo. La storia manzoniana riacquisisce quindi nella regia di Shammah tutta la sua forza narrativa, i personaggi di Renzo e Lucia rivivono una nuova e fresca giovinezza nei corpi degli allievi Tobia Dal Corso Polzot e Aurora Spreafico, la monaca di Monza si carica di una struggente e lugubre drammaticità, intensificata dall’esperienza scenica di Francesca Fracassi, Vito Vicino è un Don Rodrigo garzone e famelico, Giovanni Crippa (all’epoca di Testori interpretava Renzo e l’allievo nella messinscena) è un appassionato Maestro e un vile Don Abbondio, Rita Pelusio una vivacissima Perpetua. Sullo sfondo di un’unità di luogo, una sala di prove dismessa e continuamente agita dai personaggi per modularne gli spazi e gli oggetti scenici, l’opera di Manzoni torna ad abitare la riscrittura piena di vitalità di Testori, ripartendo dalla frase cardine da cui tutto ha avuto inizio e rievocandone l’importanza segnica, la genesi linguistica, la sonorità musicale interna: quel ramo de Lago di Como... È da quel ramo, che inizia ancora una volta la storia. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Piccolo di Milano, Crediti: di Giovanni Testori, regia Andrée Ruth Shammah, con Giovanni Crippa, Federica Fracassi, e con Tobia Dal Corso Polzot, Rita Pelusio, Aurora Spreafico, Vito Vicino Crediti completi

OLTREPASSARE (di Silvia Dezulian e Filippo Porro)

Di fronte ai cancelli dell’ex zuccherificio di Foligno, c’è un capannello di una ventina di persone, con indosso i vestiti improvvisati per questa mezza stagione che mezza non è. Ci siamo ritrovati sul bordo di una piccola strada cementata che, come una striscia grigia che si impone nel verde, costeggia l’alveo del fiume Topino. È il primo pomeriggio dell’anno in cui l’aria somiglia, con vaghezza, a quella autunnale. Silvia Dezulian e Filippo Porro ci attendono, poco più avanti. Entrambi portano abbigliamento tecnico e, sulle spalle, una struttura cava (un po’ zaino, un po’ gerla, un po’ strana voliera) dalla quale pendono fotografie seppiate di montagne, piccoli attrezzi arrugginiti, cartine d’altri tempi. La soglia da oltrepassare, si suggerisce, potrebbe essere temporale, oltre che spaziale. I luoghi compaiono subito, ai primi passi, in forma acustica. Grazie all’impianto audio (gli zaini sono anche “sculture sonore”), l’avanzare dei due interpreti è ri-significato e al loro movimento sull’asfalto e sull’erba corrisponde lo scricchiolio, familiare e soppesato, dei passi sulla neve. La tecnologia è così semplice da lasciarsi dimenticare, ma l’infrazione tra segno visivo e sonoro evoca una profonda sensibilizzazione dell’atmosfera, un sentimento leggero, di straniamento, benevolo e piano ma perdurante. La partitura di gesti – danzanti, aerei ma anche “mimetici” (fino al “climbing orizzontale”, che chiede agli spettatori di farsi, sul selciato, prese di arrampicata) – si apre al rivelarsi della funzione materiale e del significato spirituale della presenza dell’altro: appiglio fisico, sodale, testimone, interprete dello stesso movimento, specchio, osservatore. Buzzati, grande amante della montagna, nel 1963 annotava dell’esistenza di un ulteriore, tutto umano, di una tensione amorosa, implicata al paesaggio, al nostro attraversarlo: «quanto meschina sarebbe, di fronte a un grande spettacolo della natura, la nostra esaltazione […] se riguardasse solo noi e non potesse espandersi verso un’altra creatura». Si tratta di una riconsiderazione dei luoghi, della vicinanza a essi e tra noi, costellata di soglie, di passaggi, di violazioni improvvise, di ruoli inaspettati che finiamo per assumere e dismettere entro l’incedere dell’altro. A fermarci è la pioggia. Come un torrente, finalmente inevitabile, si rovescia con violenza, prevaricando la nostra delicatezza, costringendoci a riparare in fretta, in qualche esile anfratto dell’anfiteatro nel parco fluviale. (Ilaria Rossini)

Visto a Umbria Factory Festival – ideazione di Silvia Dezulian, Filippo Porro, Martina Dal Brollo, Gabriel Garcia; Crediti completi

DANZA CIECA (di Virgilio Sieni)

Le penombre dell’Auditorium di Santa Caterina aiutano l’accesso a una dimensione claustrale, a un raccoglimento attento. Sul pavimento, la scena è costituita da alcuni fogli di cartone fissati con lo scotch carta. Virgilio Sieni e Giuseppe Comuniello si presentano al nostro sguardo con leggerezza e con un passo naturale, eppure in qualche modo ieratico. Fin dal titolo, la prima evidenza con la quale siamo chiamati a fare i conti è il fatto che il senso sovrano esercitato dal pubblico, quello dello sguardo appunto, sia assente in scena. La cecità di Comuniello è il varco, dischiuso da Sieni, a una percezione poetica altra, a una spazialità e a una ricettività dense di aura. Vi è una profonda attenzione al tatto, come possibilità che soccorre e ridetermina la qualità della relazione tra i corpi, ma anche a tutto ciò che prelude all’occorrenza del tocco e a tutto ciò che permane oltre tale occorrenza. Con procedimento quasi scultoreo – «la materia è estratta dalla densità dello spazio» si legge nell’omonimo libretto, scritto da Sieni, edito da Cronopio – la ricerca sul gesto si dispone su frequenze e risonanze che, sì, chiamano in campo l’immaginazione ma non soltanto, e non soprattutto, quella visiva. I suoni, quelli organici prodotti dai corpi a contatto tra di loro o con la materialità del cartone (e, in un quadro magnifico, dell’argilla) e quelli elettronici, sintetizzati dal vivo da Spartaco Cortesi, consentono di radicare la percezione, di offrirle un tenue tracciato di comunanza. La condizione incomprensibile della non vedenza, invece, sembra spalancare le possibilità del movimento di approfondire se stesso, di ispezionarsi, nelle sorgenti, nelle mutazioni, nei presentimenti, nell’ascolto accogliente e abissale dello spazio che fende, e della vicinanza dell’altro. È forse in questa tensione, in questa dedica all’altro (determinata da una vicinanza estrema, in disarmo, che non si confonde però alla somiglianza) che si raccoglie l’esito più alto di un’intenzione coreografica che distende in visioni, a privilegio di chi assiste, un nucleo emozionale nascosto, quasi un cumulo di percezioni segrete, investigate in un tempo lungo e in altrove intimo. (Ilaria Rossini)

Visto all’Auditorium Santa Caterina – Umbria Factory Festival 2023. Crediti: coreografia di Virgilio Sieni; con Giuseppe Comuniello e Virgilio Sieni; assistenza artistica di Delfina Stella; musiche di Spartaco Cortesi; produzione di Fondazione Matera-Basilicata 2019 e Compagnia Virgilio Sieni.

BENVENUTE STELLE (di Eleonora Danco)

Io, che non sono romana, non avevo sentito né mi era stato mai rivolto prima l’epiteto “stella”, che più che essere vezzeggiativo, sembra perlopiù assumere altre sfumature, dalla compassione alla derisione. Sbagliando fermata, chiesi una volta all’autista di potermi far scendere, mi rispose: “aho, benvenuta, stella” con chiaro sfottò e passando dritto. Penso anche a quell’episodio, mentre osservo l’ultimo spettacolo di Eleonora Danco, autrice, regista, interprete (assieme a Federico Majorana) dello spettacolo Benvenute stelle, visto al Teatro India. Gli astri del titolo sono solitudini in bilico, esistenze ai margini di una vita spesso toccata dalla miseria e dalla violenza; storie che hanno un carattere quasi documentaristico, nella cifra stilistica tipica di Danco, che riporta sulla scena senza molti orpelli (un disegno luci netto segna alcuni punti di luce nel nero del resto) degli assoli di diversi personaggi. La scrittura varia da quadri e momenti più spiccatamente poetici, in cui assonanze e rime dettano il ritmo ancor più che i sensi, ad altri invece più narrativi, tra narrazioni quotidiane, in cui il racconto in prima persona è volto a una scoperta progressiva. Piccoli criminali, gente che si è ripulita, spacciatori in carcere, madri di tanti figli, ragazzini che sentono di avere la città sotto al loro dito: sono queste le voci che si prestano, e i due attori le restituiscono con precisione e il giusto pathos (tant’è che all’inizio parte un primo applauso, che poi il pubblico replicherà dopo ogni assolo anche a discapito di una possibile continuità scenica), pochi movimenti funzionali per un racconto che ha bisogno di voci, corpi e dell’ascolto. Senza giudizio ma senza nemmeno giustificare, le stelle di Danco hanno però così una voce. “La gente è cattiva”, dicono a un certo punto, specialmente chi si gira dall’altra parte. (Viviana Raciti)

Visto al Teatro India, scritto e diretto da Eleonora Danco | con Eleonora Danco e Federico Majorana | costumi Alessandro Lai | disegno luci Eleonora Danco | si ringrazia per la scelta delle musiche Marco Tecceaiuto regia Giacomo Costa | assistenti volontari Alice De Luca e Manuel Valeri | foto di Francesca Tecce !foto di scena di Claudia Pajevski

FREEVOLA (di Lucia Raffaella Mariani)

Al centro di Villa Bonelli c’è un piccolo tendone da circo, qui Dario Aggioli, vero e proprio agitatore teatrale dell’underground romano, ha impiantato una rassegna, Sciapitò, in cui ogni giorno si alternano artiste e artisti del panorama teatrale contemporaneo, alcuni affermati, altri giovanissimi. Tra questi ultimi la ventiquattrenne Lucia Raffaella Mariani con uno spettacolo che facilmente potrà girare numerose piazze. Mariani si situa, con abilità e rigore, all'incrocio di diverse modalità e generi: si presenta in scena con un body e delle culotte contenitive - perché senza non se la sentiva -, l'acconciatura appena fatta, le labbra rosse, in scena giusto una sedia e un microfono e poi tante rose lasciate al pubblico, da lanciare nel caso in cui spettatrici e spettatori sentissero un incondizionato sentimento di amore per la protagonista; dunque inizialmente pensiamo di assistere alla versione classica di un cabaret con personaggio in cui l'ambientazione è quella di un ipotetico talent, naturalmente Mariani si rivolge a noi come se fossimo la giuria. Lentamente però si scivola nei territori di una stand-up comedy più ragionata, la leggerezza ancora è il motore della performance ma il pubblico è messo nelle condizioni di riflettere, di confrontarsi con l'autoanalisi di questa ventenne che non riesce a vivere senza un segno di approvazione dagli altri, soprattutto dagli uomini. Le cosce troppo grandi per gli standard, i chili da buttare giù per l'agente, l'invidia per le ragazze magre che dunque sono più vicine a l'ideale altissimo di bellezza. Ridendo e scherzando lentamente l'autrice ci ha trascinato in un'impietosa camera delle angosce di oggi, Mariani ha un talento cristallino, una presenza carismatica e una scrittura efficace: è arguto il passaggio in cui fluidamente l'obbiettivo si sposta, dalle donne agli uomini, è il tentativo di primeggiare di fronte allo sguardo maschile la radice della questione. E noi uomini cosa ne pensiamo? Mariani sembra quasi indicare l'unica soluzione possibile: farla finita con il giudizio e la competizione, e dunque anche con chi dall'altra parte non cerca altro se non un paio di cosce perfette. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Sciapitò, Villa Bonelli di e con Lucia Raffaella Mariani consulenza alla regia e alla drammaturgia Lorenzo Maragoni consulente al movimento scenico Erica Nava una produzione Trento Spettacoli con il sostegno di Potenziali Evocati Multimediali

CA-NI-CI-NI-CA (di Greta Tommesani)

Greta Tommesani è un’artista atipica, con una laurea in cooperazione internazionale, dunque al netto della poca esperienza teatrale (ha appena 28 anni)  in questo CA-NI-CI-NI-CA, che ha debuttato nel contenitore Ref di Anni Luce, è evidente il campo di azione derivato anche dagli studi e dall’esperienza lavorativa. In uno spazio completamente bianco e plastificato la protagonista sistema alcuni pomodori ai lati del perimetro, sembra ogni volta misurare lo spazio attorno ad essi anche rispetto al proprio corpo, alle mani, sono gesti che si ripetono, finché tutto il pubblico ha preso posto. Pomodori e lavoro, questi sono i due oggetti sociali e fisici che occupano il luogo scenico e drammaturgico: quanto vale il nostro tempo? Quanto veniamo pagati per il tempo che prestiamo? Formalmente lo spettacolo è un alternarsi di discorsi al pubblico, dialoghi con l’altro autore (Federico Cicinelli, che siede lateralmente dietro un tavolo di regia), video e testi proiettati. Il cuore sembra essere lo sfruttamento dei braccianti nella filiera del pomodoro, ma cosa accade quando cominciamo a indagare altri ambiti lavorativi apparentemente lontani? Greta spiega i meccanismi che sottendono alla trasformazione industriale del pomodoro, evidenziando quanto il peso specifico della Gdo influenzi gran parte dell’andamento dei prezzi e dunque la dispersione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (soprattutto migranti), ma in un successivo video, in cui la stessa artista interpreta un bracciante a cui è stata rivolta un'intervista, viene superato il paradigma. L'intervistatore è un videomaker, uno dei centinaia a Milano, il bracciante ribalta i ruoli e gli chiede come invece lui se la passi, se anche i video maker possano unirsi e lottare per i propri diritti. Il lavoro di Tommesani merita attenzione ma anche un maggiore rigore drammaturgico, una messa appunto registica che definisca meglio i ruoli e la scrittura scenica. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival Progetto vincitore di “Animali Teatrali Fantastici & Dove Trovarli” Progetto vincitore Powered by Ref 2022 Progetto vincitore Bando Cura 2023 con Greta Tommesani e Federico Cicinelli drammaturgia e messa in scena Greta Tommesani e Federico Cicinelli con la collaborazione di Daniele Turconi cura del movimento Beatrice Pozzi e Angela Piccinni scene Rosita Vallefuoco luci Raffella Vitiello suono Jacopo Ruben Dell’Abate  produzione Cranpi, 369gradi e Romaeuropa Festival

A.L.D.E NON HO MAI VOLUTO ESSERE QUI (di Giovanni Onorato)

Giovanni Onorato si presenta, alla sua sinistra tra strumenti e mixer Mario Russo. Alla destra dei due performer lo spazio è chiuso da una serie di fari, diverse altezze per un plotone di luce che sparerà all’occorrenza. Cammina su un terreno scivolosissimo questo lavoro dell’artista romano, primo debutto della rassegna Anni Luce ospitata da Romaeuropa e curata da Maura Teofili, il terreno è quello della relazione dell’opera d’arte con la realtà e l'autobiografia. Il tema è centrale non solo in teatro ma in gran parte della produzione artistica e culturale di oggi. Basta qualche minuto per cogliere alcune interferenze in quella che sembra essere proprio “una storia vera”, piccole cariche esplosive in grado di sovvertire lo stereotipo tentando di spiazzare lo spettatore. Sul pavimento tappeti di fogge diverse e un microfono con asta. Arduino era uno dei migliori amici di Giovanni ed è morto gettandosi sotto un treno in corsa. La drammaturgia si muove inizialmente tra il racconto della vita del giovane suicida, le riflessioni apparentemente estemporanee dell’attore e la lettura delle poesie lasciate da Arduino su una serie di quaderni colorati sistemati ordinatamente, come reliquie, al centro della scena. C’è la vita inquieta di un adolescente estremo, radicale nelle scelte nelle azioni: l’attivismo ecologista, l’amore libero; Arduino era a una figura oppressiva, rabbiosa per paura della solitudine. Una melodia cresce, si prende lo spazio: i demoni di cui si nutrono queste poesie sono di Giovanni o di Arduino? Tutto fugge dalle mani, anche i temi, quando sembrano epocali, scivolano via tra un rap e uno spoken word. C’è in questo lavoro una sensibilità musicale potente e poco frequentata in teatro, si sentono gli echi dei Massimo Volume. Ma poi tutto cambia ancora: forse Arduino non è mai esistito, non basterà un detective con tanto di trench e cappello per fare luce su uno spettacolo che, tra ironia e menzogna, intrattiene interrogando un vuoto generazionale. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival Ideazione e direzione di Giovanni Onorato con Giovanni Onorato e Mario Russo musiche di Mario Russo e Lorenzo Minozzi disegno luci Fabrizio Cicero costumi di Ileana Alesi e Chiara Corradini consulenza alla drammaturgia Claudio Larena e Giulia Scotti si ringrazia Daria Deflorian

L’ULTIMO SPETTACOLO DI WERNER FINCK (di Xhuliano Dule)

Siamo al Tordinona, teatro storico tra quelli romani sotto i cento posti, tra l’altro da poco ristrutturato omaggiando l’origine secentesca del primo Tordinona. Sul palcoscenico pochi oggetti illustrano un interno della prima metà del Novecento, un uomo giovane risponde al telefono interrompendo la routine mattutina della rasatura, ha ancora la crema da barba sul volto: «Uno spettacolo tra due giorni? Al Gran Teatro di Berlino? Io? Ma lei lo sa chi sono io? Certo che lo sa, altrimenti non mi avrebbe chiamato. Nonostante lei sappia chi sono mi vuole al Gran Teatro di Berlino, Ah. Senta, non vorrei risultare inopportuno… Signor? Goebbels?». L’ultimo spettacolo di Werner Finck è una piccola scoperta, per l’interpretazione naturalissima e inappuntabile di Simone Corbisiero e il testo di Xhuliano Dule - che sembra ritagliato sul corpo, le indolenze e il cinismo pulito dell’attore - ispirato al personaggio realmente esistito nella Germania del Terzo Reich (trovato dall’autore tra le pagine di Ridere rende libri di Antonella Ottai). Dule è un trentenne nato in Albania e già affermato nel giro della stand-up comedy, anche televisiva, ecco spiegata la capacità della drammaturgia di muoversi su una frontalità sfacciata, di destreggiarsi in un immaginario sul quale raramente si ha il coraggio di ridere. Il sottotitolo della pièce già finalista al Fringe di Roma, diretta da Emilia Agnesa e Bianca Mastromonaco è in questo senso molto esplicativo: “ma di cosa ride un nazista?”. La questione si fa interessante quando il pubblico inizia a percepire che forse questa domanda è rivolta a noi, spettatori di oggi - di cosa possiamo o non possiamo ridere? Meriterebbe spazio questo lavoro e forse anche una messa a punto ulteriore per rafforzare quel gancio con il presente. Ma la scrittura  è già apprezzabile e in grado di coinvolgere sorprendendo, come nel caso della lunga storia del baffo di Hitler, per la quale il protagonista inventa un’origine rocambolesca, ovvero l’infarto di un barbiere. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Tordinona Testo di Xhuliano Dule Regia, Messinscena e Disegno Luci di Bianca Mastromonaco ed Emilia Agnesa con Simone Corbisiero

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