SEMBRA AMLETO (di Francesco Zaccaro, Regia Ivano Picciallo)
Un saltimbanco, un giullare, un figurino da varietà, un buffone con le converse. Un ragazzo, un adulto, un figlio. Francesco Zaccaro occupa tutto lo spazio che ha attorno e dentro di sé e attiva tutto il suo corpo – voce, muscoli, capelli – in un monologo che è un attraversamento, una parabola umana, un rito di crescita. In una lingua musicale e ironica, assistiamo a un dialogo mancato, quello con la tomba di un padre il cui fantasma, in spietato silenzio, tarda ad apparire. Ma vediamo anche un confronto diretto (o forse sognato?) con una madre che ormai è altrove, a una distanza indecifrabile, muta anche lei eppure presente e incombente. Il non detto, il sopito, l’eredità di valori e vincoli pesano come un macigno sulla vita di questo quasi-Amleto che non può fare altro che intrattenere i propri morti, riseppellirli dopo averli animati, rimessi in scena: il dispositivo metateatrale più celebre dell’opera shakespeariana qui diventa avanspettacolo, tra tradizione e tradimento, offrendo tanto l’esercizio godibilissimo di sintesi del classico quanto un affondo laterale inedito sulla figura di Gertrude. Zaccaro ripercorre a zigzag la vicenda del principe di Danimarca, spostando nei suoni la latitudine, ma restando ancorato al portato tragico di un’anima persa che prima di tutto è quella di un orfano. Sulla scena la regia di Ivano Picciallo mette solo terra e pochi essenziali simboli (un fiore, uno specchio, una croce), quelli di un teatro di evocazioni che si regge sul corpo dell’attore, sulla sua espressività generosa e scanzonata e su una lingua poetica e immediata, viscerale. Tra le sue mani l’Opera, l’Amleto, è la bussola per non perdere la rotta, o il segno ineludibile di un destino avverso, granitico, che «sta scritto» e contro cui, invece di prender l’armi, giocarsi le rime. Fino a una finale liberazione, rito di imprecazioni impronunciabili, fiume rotto d’amore e dolore, rabbia e resa. Elsinore e Matera stanno a un passo, se di sangue, radici, identità si tratta. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Lo Spazio. scritto e interpretato da Francesco Zaccaro. Regia di Ivano Picciallo. Scene Alessandra Solimene. Luci Joseph Geoffriau. Organizzazione Sonia Polimeno. Produzione IAC Centro Arti Integrate - MALMAND TEATRO
BAÙBO (regia di Jeanne Candel)
«All’inizio abbiamo parlato», tema «cos’è l’amore». Poi una fuga, fermata dal mare. Come mangi il riso, la vergogna d’essere nudi, inventare una lingua perché è solo nostra questa storia. La tua nuca sul collo, starsene chiusi in stanza. E perdersi senza motivo: «È così che l’amore si disintegra?». Agathe ci parla in proscenio, a telo chiuso, con l’uomo accanto che non sa né può tradurre ciò che dice e che prova. Capiamo che: sono passati 647 giorni e 9362 sigarette, lei è «rimasta in albergo», si sente morire. Sipario. Interno, letto sfatto, viso al cuscino. Una sedia a terra, resto d’una sfuriata, una donna in nero (il lutto della sconfitta sentimentale) e un fucile da pesca che Agathe punta al petto. Non s’uccide – altre donne, convocate per un canto funebre la denudano e lavano perché torni a vivere – ma ammazza lui invece simbolicamente, tant’è: va via arrotolato in un tappeto, «è normale abbia fame?» chiede, essendo un morto non morto davvero. Terza parte. Musica, corteo d’oggetti ostentati (il fucile, una pala, un’armatura) per dire che l’uomo è seppellito, la ricerca dello sguardo del pubblico mostrando il pube stampato a mutanda, in ossequio al mito che ispira l’opera: Baùbo, che rimise al mondo Demetra mostrandosi nuda. La regista Jeanne Candel dice che tocca a noi dare senso ai segni proposti. Provo: ripudio d’una mascolinità (sociale, politica, culturale) tossica, il femminile come fertilità salvifica, la dismissione di genere del patimento emotivo. Il passaggio dalla logicità inerte delle parole alla vitalità sussultante del corpo. O una trama di dolore e rinascita. Interessante, ma non per la forma, piena di stereotipie: frontalità, frantumazione testuale, (s)montaggio a vista della scena, richiami alla platea. Tra segni da decriptare e una lunga parte in cui non c’è altro che i musicisti e le musiciste che suonano. Mi chiedo: che ce ne facciamo d’un teatro che non racconta né genera visioni ma s’adopera invece solo ad agire i meccanismi alla base di racconti o visioni? Occhio alla noia, penso citando Peter Brook: dice che qualcosa stasera non ha funzionato. (Alessandro Toppi)
Visto al Teatro Bellini. Crediti: basato sulle opere di Buxtehude, Musil, Schütz e altri materiali, regia Jeanne Candel, di e con Pierre-Antoine Badaroux, Félicie Bazelaire, Jeanne Candel, Richard Comte, Pauline Huruguen, Apolline Kirklar, Pauline Leroy, Hortense Monsaingeon e Thibault Perriard; direzione musicale Pierre-Antoine Badaroux, scene Lisa Navarro, costumi Pauline Kieffer, luci Fabrice Ollivier, collaborazione artistica Marion Bois e Jan Peters, produzione la vie brève-Théâtre de l’Aquarium, coproduzione Théâtre National Populaire, Villeurbanne; Tandem, scène nationale Arras-Douai; Théâtre Dijon Bourgogne, CDN; Comédie de Colmar - CDN Grand Est Alsace;Festival dei Due Mondi, Spoleto; NEST Théâtre - CDN de Thionville -Grand Est; Théâtre Garonne, scène européenne - Toulouse
LE ANIME MORTE (di Peppino Mazzotta)
Le anime morte senza dire i nomi dei personaggi perché la città di N. sia quella di Gogol’ quanto la nostra. Solo una ruota del calesse, degli interni resta una tavola con sopra gli ologrammi di ciò che caratterizza di volta in volta incontri e figure (il grande ricamo, cibo, il fuoco, le candele per una fede falsa quanto l’immagine che vediamo). E dalle 416 pagine la cara struttura dialogica su cui si basa(va) la scrittura teatrale, per la regia fuori-moda e perciò significativa di Peppino Mazzotta, che crede nel valore del testo che ha scelto (nessun riduzionismo pop, nessun abbassamento di livello) e lo coniuga in scena con rigore. Dettagli: il binario/tappeto su cui scivolano le poltrone (l’attraversamento territoriale del libro, che procede per episodi in successione); le proiezioni degli oggetti, coerente con la smaterializzazione delle cose attuata in un romanzo in cui si vendono e acquistano nomi e cognomi defunti; un sentore linguistico meridionale, come fossimo nel Sud de Il gattopardo o I Viceré (la stessa marcia aristocrazia che trasmette modi e immoralità allo Stato borghese). L’orizzontalità che Nabokov vede nella trama resa fisicamente (Cicikov che dorme, il servo che riposa poggiando la testa sulla valigia, la vecchia e l’ubriaco a terra: è la vita già intrisa di morte); un finale che spinge burocrati, possidenti e politici attorno a una giostra (l’eterno meccanismo d’inganno e potere, direbbe Jan Kott) dopo essersi illusi d’aver incastrato Cicikov che, venuto, svanisce: demone tentatore, ha smascherato la nostra corruttibilità. Due pensieri. Il primo, la qualità degli interpreti (nomi nei crediti): in tempi di frontalità, visioni ridotte al proscenio e performer che dicono solo di sé fa bene sapere che resiste la funzione-responsabilità dell’attore (vecchia due millenni) d’incarnare la vita d’un altro per mostrarla al pubblico perché una comunità si rifletta. Secondo: se lo spettacolo non torna l’anno prossimo sarà stato materia gogoliana: sembrava cosa viva, invece il sistema teatrale l’aveva già uccisa. (Alessandro Toppi)
Visto al San Ferdinando. Crediti: testo e regia Peppino Mazzotta, collaborazione alla drammaturgia Igor Esposito, adattamento da Le anime morte di Gogol’, con Federico Vanni, Milva Marigliano, Gennaro Apicella, Raffaele Ausiello, Gennaro Di Biase, Salvatore D’Onofrio, Antonio Marfella, Alfonso Postiglione, Luciano Saltarelli, scene Fabrizio Comparone, costumi Eleonora Rossi, luci Cesare Accetta, contributi digitali Antonio Farina, musiche Massimo Cordovani, produzione Teatro Nazionale di Napoli, Stabile del Veneto-Teatro Nazionale
BACCANTI Fare schifo con gloria (di Giulio Santolini)
Dioniso è caos, bellezza, violenza, sesso, erotismo, potere; è bestemmia e canto, buco nero ed eccesso, rapimento e liberazione, religione e sacrilegio, croce e delizia dell’umano. Dioniso sono loro, siamo noi, è l’Altro/a, è Me stesso/a. Il debutto coreografico di Giulio Santolini (già performer per CollettivO CineticO, Sotterraneo, Enzo Cosimi) si avvale della drammaturgia di Lorenza Guerrini (pure nella stessa compagnia fiorentina) e ha come punto di partenza la più misteriosa delle tragedie. Euripide non avrebbe mai visto in scena le sue Baccanti e forse nessuno avrà davvero capito i significati profondi di questo dilaniante apologo sulla vendetta, sulla ribellione della divinità contro sé stessa, dove serpeggiano – per noi figli del Novecento – i fondamenti estetico-filosofici della “peste” artaudiana. Nella trama si compie la sanguinosa punizione ai danni di chi non crede nella natura divina del figlio di Semele. Nella proposta di Santolini, però, la sorte delle tebane e il sanguinoso culmine orgiastico sono pretesto per un più astratto affresco sulla forma, il movimento e i suoni del rituale. Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari, nude in scena (e in platea, dove strisciano come serpenti), sono come lembi energici strappati al corpo di questo dio indefinibile. Incantano e provocano il pubblico, parlano un affascinante grammelot che nella musicalità rievoca il greco antico, raccolgono dalla platea il proprio Penteo, che ha il corpo dello stesso coreografo e la voce femminile del coro che le stesse tre officianti consegnano, per completare lo smembramento. Estremamente curata e però liberata da vincoli di partiture troppo rigide è la coreografia di questo generoso corpo collettivo; ingegnosa, se ancor meglio accompagnata, sarebbe l’intuizione di vedere nel regista il virus che ferma una completa liberazione del teatro. Se ancora si assapora un gusto acerbo nella gestione dei significati manovrati dalla drammaturgia, colpisce la fluidità con cui un quadro s’inanella all’altro e questa prova pare un ottimo inizio per un percorso autoriale appassionato e complesso. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Fontana. Crediti: di Giulio Santolini; performers Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari; drammaturgia Lorenza Guerrini; assistenza Coreografica Ilaria Quaglia, Elisabetta Solin; sound design Simone Arganini; light design Lucia Ferrero , Marco Santambrogio; tecnica di compagnia Lucia Ferrero; progetto sostenuto da CollettivO CineticO nell’ambito del progetto IPERCINETICO, da SIAE e MiC all’interno del progetto “Per Chi Crea” e da Sotterraneo
FEDRA (di Jean Racine, regia Federico Tiezzi)
Scritta nel 1677, Fedra di Jean Racine è la tragedia del desiderio impossibile, della nefandezza dell’inconscio, dove la sintassi si fa sempre più inquieta, intrisa di colpa e vergogna. Nello sviscerare la passione erotica di una donna non corrisposta, Racine guarda però alla radice classica, a Euripide e a Seneca, anche se la sua è una tragedia tutta interiore, di cui Federico Tiezzi - con la traduzione di Giovanni Raboni – decide di intercettare e dilatare l’eco psicoanalitico, da Freud a Lacan: si tratta di «un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che non può esser detto». La scena, cofirmata dallo stesso regista, ricostruisce questa complessa e tortuosa architettura mentale e “confessionale” assumendo un carattere metafisico, sia dominato dal nero abissale che i personaggi abitano sia solcato da tagli di luce fredda, talvolta interrotti da atmosfere magenta che pulsano sanguinose nel dramma. Anche il contrasto tra la radice mitica della vicenda e l’estetica contemporanea – con busti grechi e un quadro di Guido Reni sullo sfondo minimalista – produce un’astrazione segnica conturbante, di straniamento e caos. Di questo linguaggio scenico pulsante, non intravediamo tuttavia un coerente corrispettivo interpretativo, che sia in grado di restituire quella densità letteraria raciniana: come già accaduto nell’ Antigone, i personaggi non modulano complessivamente le sfumature del tragico. Fedra, nella febbrile performance di Elena Ghiaurov, sprigiona fin dal principio solo l’acume del climax tragico, inghiottendo di acuti tutta la scena, mentre l’inquieto Ippolito e la torva Enone, o lo ieratico Teseo, cercano di controbilanciarne l’intensità con un pathos più distaccato, che riesce ad essere esclusivamente cornice marginale rispetto alla tragicità della figura femminile e non ciò che invece la informa. Dilaniato dall’amore impossibile per il figliastro Ippolito, il corpo della donna grida come simbolo di una colpa viscerale che la porterà alla morte. Qui la tragedia collassa nel nero monotono del personaggio, lasciando irrisolto il significato della parola incarnata, tra suono, senso e sua necessaria trasmissione. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: di Jean Racine, traduzione Giovanni Raboni, regia Federico Tiezzi, con Catherine Bertoni de Laet, Martino D'Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro, scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi, costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini, canto Francesca Della Monica, movimenti coreografici Cristiana Morganti, regista assistente Giovanni Scandella, costumista assistente Lisa Rufini, scenografa assistente Erika Baffico, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi
COMMANDER (di Farm in the Cave )
Farm in the Cave è una formazione proveniente dalla Repubblica Ceca sempre alla ricerca di un dialogo tra i diversi linguaggi. Nel caso dello spettacolo del 2022 portato allo Spazio Rossellini grazie ad Orbita e Atcl (secondo di un dittico dedicato a Farm in the cave) il Commander del titolo è il nickname del leader della Feuerkrieg Division, un gruppo neonazista che ha operato in Estonia tra il 2018 e il 2020. Fino a qui non ci sarebbe nulla per cui sgranare gli occhi, i collettivi neonazisti sono purtroppo una realtà europea, solo che in questo caso si trattava di un'organizzazione dedita a fare proselitismo online tra i giovanissimi e il suo leader, Commander, aveva appena 13 anni. Ecco allora che mentre il pubblico si siede nella platea del Rossellini, nello schermo sistemato su un parallelepipedo che incombe sulla scena in loop viene proiettato un video in cui bambini con camicia bianca e cravatta giocano ad acchiapparella: pelle bianchissima, biondi, in salute e sorridenti. Eppure qualcosa di inquietante affiora nei loro sguardi e in quelle divise da perfetto "ariano". Come d'altronde sarà inquietante anche il video successivo, nel quale si vede la camera del ragazzo: un joypad penzola dalla scrivania, c’è un acquario; oppure la scena - sempre proiettata - in cui i ragazzini parlano come adulti di argomenti come sesso e morte mentre mangiano un gelato. La partitura fisica e musicale è potentissima, imita azioni di guerra, combattimenti, fino al grottesco parossismo, alternando soli a coreografie di gruppo, la ricerca è sul gesto, sulla violenza e sulla relazione con la musica dal vivo e il tessuto rumoristico. Una performance totale e sbalorditiva quella diretta da Viliam Dočolomanský (e che è parte di un progetto più ampio sul tema, il quale comprende anche uno sviluppo educativo fatto di video e workshop) che però nulla ha a che vedere con il teatro documentario: costringe lo spettatore a scavare in questa storia (anche successivamente alla visione), a ricercarla nella foresta di immagini e rimandi che compongono la drammaturgia di scena - come per le centinaia di coni che cadono verso la fine alludendo a quei gelati mangiati dai ragazzini-; in un continuo travaso tra performance live e video.
(Andrea Pocosgnich)
Visto allo Spazio Rossellini Concept, regia e coreografia: Viliam Dočolomanský Drammaturgia: Sodja Lotker, Markéta Hrehorová Musiche: Štěpán Janoušek Video: Erik Bartoš, Sláva Pecháček, Karel Šindelář Light Design: Felice Ross Sound Design: Eva Svobodová Con: Andrej Štepita, Gioele Coccia, Nicolas Garsaults, Barbora Ješutová, Matuš Szegho, Hana Vara-dzinová, Štěpán Janoušek, Šimon Janák
LEIBNIZ. UNO SPETTACOLO BAROCCO (di Irene Serini)
«Usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»: questa era la “regola universalissima” a cui Baldassarre di Castiglione riportava “tutte le cose umane”, e in particolare quelle nelle corti italiane all’alba del Barocco: in questa età di infingimento, il suo Cortegiano diventò un manuale di noncuranza per maschere sociali. Viene in mente appena entrati al Teatro della Cooperativa per assistere a LEIBNIZ. Uno spettacolo barocco, quando le rimembranze accademiche del filosofo secentesco – la monade, il migliore dei mondi possibili – si stemperano nel palco rialzato di parrocchiale memoria, sopra cui Serini, Paris e Balestrieri abbozzano movenze da quadriglia in cascanti costumi rosa carne. E all’ombra della sprezzatura si sviluppa anche la prima parte di LEIBNIZ, suddivisa in quadri che illuminano con arguzia parossistica la smania della civiltà occidentale di misurare e controllare la realtà, insieme a strutturali contraddizioni di cui Gottfried Wilhelm Leibniz rappresenta la sintesi, con il suo frustrato tentativo di ridurre il molteplice all’uno. Gradualmente lo spettacolo si raggruma attorno alla sua figura ed è come se perdesse quell’impudenza da giamburrasca che il sorriso svagato di Serini e lo sguardo aristocratico di Paris gli avevano trasmesso. Le parole che indagano il tormento del pensatore, le consolazioni di Sofia del Palatinato, sua interlocutrice, le esaltazioni liriche declamate a lume di cellulare sembrano emergere da un saggio di psicologia o da un libro di frammenti lirici: suggestive, ma letterarie, irrigidiscono la scena e il contegno delle interpreti. L’apparizione di Balestrieri nelle vesti di Filosofia o il guizzo di Hey dottore dei Prozac+ sono come due mani di bianco su un graffito: non stridono né dissimulano, al massimo confondono. Al netto del suo progressivo appesantimento, la prima produzione con le anime di Z.I.A. al completo dimostra coraggio e suggerisce spunti laddove difficilmente si va a cercare. (Matteo Valentini)
Visto al teatro della Coperativa ideazione Eleonora Paris e Irene Serini regia Irene Serini drammaturgia Eleonora Paris con Alessandro Balestrieri, Eleonora Paris, Irene Serini direzione tecnica Alessandro Balestrieri video e suono Andrea Centonza assistenza alla regia Francesca Repetti sguardo esterno Virginia Landi consulenza filosofica Raffaella Colombo produzione Teatro della Caduta e Z.I.A. – Zona Indipendente Artistica con il sostegno di IfPrana e Qui e Ora residenze teatrali
STABAT MATER (di Liv Ferracchiati)
Presentato per la prima volta alla Biennale Teatro 2017, Stabat Mater è il secondo capitolo della Trilogia sull’identità della compagnia The Baby Walk, che torna in una forma rinnovata. L’opera vede in scena lo stesso autore, Liv Ferracchiati, nei panni di Andrea, uno scrittore incapace di crescere e assumersi le sue responsabilità, soffocato dal rapporto ombelicale con la madre (Francesca Gatto).
Il protagonista è un uomo nel corpo di una donna, con i conseguenti disagi dovuti al trovarsi intrappolato in un’identità di genere che non gli appartiene. Disagi e insicurezze che non solo si ripercuotono sul rapporto con sé stesso, ma anche sulle relazioni esterne che intrattiene, in particolare quella con la fidanzata (Livia Rossi). Sulla scena, sviluppata su più piani tramite un sistema di impalcature, incombe soffocante la figura della madre, una evocazione che “sta”, come Maria ai piedi della croce, e la cui immagine è proiettata, tramite una videocamera, sullo schermo bianco sospeso sopra la scenografia. Da quella prospettiva, osserva tutto, occhio onnipresente e ammorbante sulla vita del figlio, eppure incapace di comprenderlo. Intanto, mentre il rapporto con la fidanzata si deteriora per l’incapacità dell’uomo di prendere posizione e agire, il protagonista si riscopre attratto dalla sua psicologa (Chiara Leoncini), una donna già sposata e con un figlio. Le entrate e le uscite si sovrappongono in un meccanismo ben oliato, alternando sbalzi temporali tra una scena e l’altra. Un collage di memorie ruota intorno a quello che è il fulcro della vicenda: il rapporto con la figura materna e il processo di autodeterminazione della propria identità. Seguiamo il protagonista nei momenti altalenanti che compongono questo percorso, fino alla battuta finale: “Mamma, vuoi sentirtelo dire?”, in merito al suo coming out come persona transgender. La messinscena termina così, con una domanda di cui non sapremo mai la risposta, ma che si spera porti a una risoluzione positiva, verso la recisione di quel cordone che stringe e soffoca. (Letizia Chiarlone)
Visto alla Sala Mercato Produzione Teatro Nazionale di Genova, Centro Teatrale MaMiMò, Marche Teatro, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale Regia Liv Ferracchiati Interpreti Liv Ferracchiati, Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi Scene Giuseppe Stellato Costumi Laura Dondi Luci Emiliano Austeri Suono Spallarossa Aiuto regia Piera Mungiguerra
ODISSEA MINORE (Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno)
Cos’è una rotta. Il tentativo di ordinare il caos dei punti cardinali, compiere una scelta definita di una tra le infinite direzioni. Ma una rotta inversa compie un viaggio d’altri, già compiuto, a cercare le tracce di altri viaggi con motivazioni molteplici e diverse. È questa l’intenzione di Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno per questo Odissea Minore, al debutto al Teatro Fabbricone di Prato: indagare i segnali lasciati lungo il cammino dai migranti della rotta balcanica, attraverso una ricerca a ritroso che possa indagare, al contempo, anche i residui della resistenza incisa nei nostri occhi d’occidente dalle immagini riportate, dalle notizie artificiali che poco conservano dell’esperienza diretta. C’è una mappa politica d’Europa alle loro spalle, là dove uno schermo proietta le immagini documentarie del viaggio, mentre uno schermo più piccolo riproduce immagini create dai modellini sul tavolo a centro scena, in presa diretta. Il racconto vocale esplicita le immagini in video, ne costituisce apparato retorico perché se ne colga ogni aspetto; la recitazione è piegata alla resa delle immagini, costituendo dunque spesso un commento in bilico tra il coinvolgimento e il distacco. C’è in questo spettacolo un lavoro preparatorio di enorme portata: due artisti decidono di farsi carico, non tanto da artisti ma da esseri umani, di una storia che vanno poi a vivere sul campo, quello che è un progetto diventa infine vita; ma c’è anche il suo effetto opposto: il carattere documentario – non aiutato dall’impianto musicale di Pino Pecorelli che ha funzione prettamente didascalica – non permette di identificare delle scelte drammaturgiche ben definite, un obiettivo concreto oltre la presentazione del materiale, dunque infine un elemento poetico che lo metta in discussione; le storie migranti restano sullo sfondo – e questa è dichiarata come una scelta – appaiono appena nascoste in questa evocazione della storia rimossa, attraverso immagini di edifici demoliti, luoghi simbolo dove un campo profughi è stato riqualificato come complesso residenziale. Ma, sorge una domanda, cosa sarebbe dovuto diventare? C’è bisogno di una archeologia del rimosso o che quel rimosso proprio non esista? Solo in coda allo spettacolo, ad aprire un ulteriore spunto di riflessione in ciò che chiamiamo oggi teatro documentario, emerge dalla loro voce il dubbio che l’esperienza, essa sola, non basti a dirsi teatro. Quel dubbio scivola via in poco più che un accenno, ma proprio quel dubbio è, profondamente, il teatro. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: ideazione Nicola Di Chio, Christian Elia, Miriam Selima Fieno; regia Fieno Di Chio; con Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno; con le lettere di Abdo Al Naseef Alnoeme; drammaturgia Christian Elia, Miriam Selima Fieno; regia documentaria, riprese e video; editing Cecilia Fasciani; musiche originali Pino Pecorelli; scenografia virtuale e disegno luci Maria Elena Fusacchia; produzione Teatro Metastasio di Prato
L’EMPIREO (di L. Kirkwood, regia S. Sinigaglia)
È una mattina del marzo 1759, in Inghilterra, quando la levatrice Elizabeth Luke, intenta a lavare i panni, viene distolta dalla sua mansione per recarsi in tribunale, insieme ad altre undici matrone, a giudicare un caso di estrema importanza: Sally Poppy è stata accusata dell’omicidio di una ragazzina, ma, dichiarando di essere incinta, sembrerebbe nella posizione di scampare alla forca, diversamente dal suo compagno. Il consiglio di matrone sarà nella posizione di decidere se Sally stia raccontando la verità o meno. È sulla base di queste premesse che ha inizio L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood, su traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi, per la regia di Serena Sinigaglia. Le donne sono già tutte presenti in scena dall’inizio dello spettacolo, disposte in corrispondenza di sedie color pece, sotto un cono di luce fredda che tanto ricorda la stanza dell’interrogatorio. Le azioni sono evocate, ed è lasciata prettamente all’immaginazione dello spettatore la possibilità di colmare quanto manca sulla scena essenziale, dove sono i fatti a parlare nella loro densità. Assume inizialmente le forme di una lettura teatrale corale dove le donne, fogli alla mano, leggono le proprie battute, salvo poi abbandonare gradualmente i copioni. L’effettivo stato di gravidanza di Sally viene comprovato, ma le donne raggiungono un accordo solo quando è confermato da un dottore. L’autorità della levatrice, il suo sapere pratico e innato, la sua stessa parola, viene così messa in discussione dalla scienza: la conoscenza del corpo femminile e dei meccanismi che lo animano viene sottratta dall’area di competenza delle stesse portatrici, che vengono così spodestate dal loro ruolo di donne e madri. Sally sembrerebbe salva dalla forca, ma la ragazza perde il bambino. E così, mentre guarda atterrita il mare di gente al di sotto delle aule del tribunale che invoca la sua morte, viene risparmiata da Elizabeth che, dolcemente, come una madre che culla un bambino per farlo addormentare, stringe un cappio intorno al suo collo. È nella pietà di una madre che si trova compassione e, a volte, una possibilità di salvezza. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Gustavo Modena Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Carcano, Teatro Stabile di Bolzano, LAC – Lugano Arte Cultura, Teatro Bellini di Napoli Traduzione Monica Capuani e Francesco Bianchi Dramaturg Monica Capuani RegiaSerena Sinigaglia Interpreti Giulia Agosta, Alvise Camozzi, Matilde Facheris, Viola Marietti, Francesca Muscatello, Marika Pensa, Valeria Perdonò, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Anahì Traversi, Arianna Verzeletti, Virginia Zini, Sandra Zoccolan Consulenza allo spazio scenico aria Spazzi Costumi Martina Ciccarelli Disegno luci Christian LaFace Sound design Sandra Zoccolan
CHARLIE GORDON (Teatro Medico Ipnotico/Teatro Caverna)
Dico una banalità che per molti sarà tale, ma per molti altri invece sarà una scoperta: Patrizio Dall’Argine è un maestro indiscusso dell’arte dei burattinai, con il suo Teatro Medico Ipnotico ha dato vita a opere di una rara profondità, attraverso uno stile raffinato che mai si è fatto contorto, ricevendo l’apprezzamento di un ambiente raccolto come quello del teatro per le nuove generazioni (e certo l’intero mondo del teatro di figura) ma restando pressoché sconosciuto al “grande” teatro degli adulti, talvolta frettolosi nel rubricare certe esperienze artistiche come “roba per bambini”, quindi per questo meno interessanti quando quei bambini fossero, in apparenza, cresciuti. Eppure, quella definizione sarebbe salvifica per chi dai bambini riceverebbe una logica imprevista, perduta proprio dagli anni dell’infanzia in una mente adulta. Tale è la riflessione che coglie alla visione di questo Charlie Gordon, spettacolo realizzato insieme al Teatro Caverna e tratto dal racconto Fiori per Algernon di Daniel Keyes, con i costumi di Veronica Ambrosini, in scena al Teatro Torlonia per l’edizione 2025 di Contemporaneo Futuro. La struttura classica della baracca dei burattini, posta al centro della scena e abitata dallo stesso Dall’Argine, è l’occasione per una storia senza tempo che tuttavia a questo tempo nostro rimanda: in un mondo dominato dal denaro e dalla produttività dell’essere umano, non c’è posto per gli stupidi, così che uno scienziato ha messo a punto un esperimento per togliere la stupidità, convertendo all’intelligenza l’intera umanità. Ma sarà possibile far diventare tutti uguali? O non sono forse le differenze che rendono ciascuno speciale, anche se sembra fare poco per la produttività capitalista? Questa domanda, che potrebbe emergere (si spera...) dai discorsi dei grandi, si scorge dal palco rivolta a questi bambini dai 6 anni in su, come dichiarato, sviluppata in una storia esemplare e delicata di bontà e amicizia che rende chiara l’intenzione proprio a tutti e, con sorpresa, anche agli adulti. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Torlonia. Crediti: autore e burattinaio Patrizio Dall’Argine; costumi Veronica Ambrosini; produzione Teatro Medico Ipnotico/Teatro Caverna
MEMORIE DEL SOTTOSUOLO (di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa)
Quando si pronuncia il nome di questo gruppo – Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa – già se ne intuisce l’originalità che li ha condotti a ideare nel tempo spettacoli complessi e di rara consistenza filosofica. Questa volta la creatività di Marco Isidori e la visionarietà di Daniela Dal Cin, che hanno fondato a Torino la compagnia nel 1986, si misura con il magma urlante in cui Fëdor Dostoevskij ha concepito le Memorie del sottosuolo, racconto in due parti scritto nel 1864 che dichiarava l’urgenza di contrastare il positivismo dal margine estremo della profonda abiezione umana. Siamo prima di tutto in uno spazio ibrido, dedicato al rapporto tra arte e neuroscienze, che risponde al nome di Numero Cromatico, uno spazio di creatività giovane che si ritrova in sala con un entusiasmo per ciò che vedrà imprevisto, positivamente sorprendente. A dispetto di chi sragiona sulla plumbea insensibilità della gioventù contemporanea. Sulla scena è, solo, Paolo Oricco, attore storico della compagnia che con prova magistrale incarna un personaggio di cui si ignora il nome, ma nel cui monologo si rintraccia una forza dirompente capace di scardinare le sovrastrutture di un’esistenza preordinata, compiuta. Cosa c’è di compiuto in una vita che compiuta non è? Oricco è in primo piano, sullo sfondo è invece un’opera pittorica che Dal Cin ha realizzato in omaggio all’affresco del Trionfo della Morte, conservato nel Palazzo Abatellis di Palermo da metà del Quattrocento e ad oggi di autore ignoto; l’opera ricava dall’originale l’intenzione di rappresentare l’umanità stravolta dalla morte, ma allo stesso tempo Dal Cin ne attualizza le figure, come a voler dire che la morte non conosce tempo, ma si tende su ogni epoca con identica indifferenza. La regia di Isidori è vitale e crudele, impone il corpo di Oricco e lo rende allo stesso tempo fragile e inviolabile: fragile nell’impalpabilità della parola, inviolabile nella solidità con cui occupa lo spazio, con cui dunque di quella fragilità si fa carico; nella parola scava fino a renderla puro suono, ne lima i contorni a delimitare il vuoto, la risonanza di quel suono oltre il fonema, oltre il senso. (Simone Nebbia)
Visto a Numero Cromatico. Crediti: una messa in scena di Marco Isidori dal romanzo di Fëdor Dostoevskij; interprete: Paolo Oricco; scenario “Trionfo della Morte” di Daniela Dal Cin; adattamento drammaturgico e regia: Marco Isidori; produzione: Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa 2021
SEAWALL (di Fabrizio Lombardo)
Seawall è una storia. Inizia in uno spazio che non c’è, lì presente, ma prende vita dalle parole di un attore che la narra al pubblico. Ma poi, che ci sia il pubblico è tutto un po’ da vedere. Perché si tratta di una di quelle storie private, raccontate più come un discorso a sé stessi piuttosto che davvero a qualcuno. La scena, come si dice, è spoglia, ma spoglia è pure un po’ la storia, perché si avvia lungo un canale in apparenza banale, mette in fila avvenimenti privi di uno spessore drammaturgico, finché poi avviene qualcosa che cambia tutto, che rimescola emozioni impreviste, disattese. Seawall è un testo scritto da Simon Stephens – rappresentato in tutto il mondo dopo il debutto al Bush Theatre di Londra nel 2008 – che Fabrizio Lombardo ha portato sul palco dello Spazio Diamante, ricavando un’interpretazione che resta sul confine tra il racconto della vita com’è e il dubbio esistenziale sulla vita come a volte non è, mantenendo insieme la dolcezza e lo smarrimento di un segreto dirompente che urla e cui nessuna rivelazione concede ristoro. Ma Seawall è prima di tutto un argine al mare, una struttura eretta per proteggere le aree costiere dall’erosione del mare. Sarà mai possibile? Si può fermare, l’erosione del mare? Il protagonista della storia è Alex, narra in prima persona della sua relazione felice con Helen e del rapporto discendente, come ne fosse figlio, con il padre di lei, Arthur, un uomo nobile a cui si sente legato. Nella villa di quest’ultimo la famiglia – che vive si presume in Inghilterra – passa le vacanze d’estate, in Francia, dove la piccola Lucy sperimenta le occasioni offerte dal mare. Una vita tranquilla, quella di Alex e dei suoi, ma nel suo tono confidente via via appare ciò che rivelerà la frattura sconvolgente, l’evento che romperà l’idillio e darà inizio alla tragedia. Il mare, protagonista silente ma non meno violento, non rispetta i confini della costa, la sua erosione mangia la spiaggia e anche la vita, senza che alcun argine possa porvi rimedio. (Simone Nebbia)
Visto allo Spazio Diamante. Crediti: testo di Simon Stephens; di e con Fabrizio Lombardo; produzione Alchemico tre.
SECONDO LEI (di Caterina Guzzanti)
Sul palco della sala Petrassi c’è una pedana con uno sfondo bianco opaco: il palchetto servirà, attraverso una botola, a far cadere la protagonista in una sorta di piano inferiore, quello dell’inconscio; la tenda opaca avrà il compito di fare da schermo per qualche gioco d’ombre. Una giovane donna, vestita di rosso è seduta, appoggiata alla pedana: spiega come prima fosse una donna viva. «Ho la sindrome del cane pastore», così parla della sua tendenza ad organizzare le serate con gli amici. Poi arriva lui: «ci siamo innamorati spostando sedie e unendo tavoli», un’immagine che poi diventerà anche una canzone alla Myss Keta. Chi fosse venuto a teatro per ritrovare le maschere comiche, quelle politiche più graffianti con le quali Caterina Guzzanti ha rinnovato (insieme ai suoi fratelli la comicità televisiva dalla fine dei ‘90) ha forse sbagliato epoca. E aggiungiamo, per fortuna, perché altrimenti non avremmo avuto la macchina teatrale di precisione andata in scena all’Auditorium. Un lavoro che non si appesantisce di inutili orpelli, sia dal punto di vista scenico che drammaturgico: la scrittura della stessa attrice (un debutto registico e drammaturgico) è infatti un efficace meccanismo che fa riflettere su un argomento tabù come l’impotenza maschile, ma è anche ammantata di una poetica leggerezza, «io la notte vengo esclusa dal respiro del mondo», afferma la donna quando ormai la crisi è conclamata. Federico Vigorito è una spalla perfetta non solo per innescare le trovate comiche di Guzzanti ma anche per impersonare la maschera di un uomo tragicamente immobile. I due non riescono a fare sesso, lui si intesta tutto il problema ma non si impegna per risolverlo, non ha il coraggio di chiedere un aiuto esterno e così la relazione si trascina nei mesi, addirittura negli anni senza riuscire mai a cominciare davvero. Eppure i due si amano, anzi proprio per questo lei cerca di non dare troppo fastidio; «io ho bisogno che tu abbia bisogno di me» afferma lui palesando così la figura fragile di un’uomo che non è in grado di vivere con una donna libera e autonoma. Ma il sesso forse è solo la parte per il tutto, ci sono paure che pietrificano e impediscono che la vita possa sbocciare. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Auditorium Parco della Musica Scritto e diretto da Caterina Guzzanti, con Caterina Guzzanti e Federico Vigorito. Prossima data: 19 giugno 2025 Campania Teatro Festival
ULTIMI ARTICOLI
Prospero | Aprile 2025
PROSPERO | Aprile 2025
La rivoluzione artistica di Francesco. Un teatro che non è stato e forse sarà, di Antonio Attisani, Cronopio (2025)
La distribuzione degli...