La recensione con cui raccontiamo Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, diretto da Massimo Popolizio. Visto al Teatro Argentina di Roma, in scena fino al 2 aprile 2023; poi Bari, Parma e a maggio al Piccolo di Milano.
Certo, i classici resistono a tutto e il dramma di Miller potrebbe anche uscire illeso da una lettura grottesca, sopra le righe, quasi da cartoon; ma la ricerca sulla caricatura di Popolizio sembra essere una sorta di maschera valida per ogni testo e messinscena che qui francamente non trova appiglio se non nel manierismo di un teatro vorticosamente modellato attorno alla performance del primo attore.

Alcune delle tensioni quotidiane che si agitano nella nostra società e che alimentano trasversalmente i dibattiti sono presenti nella struttura drammaturgica di questo classico del teatro novecentesco. Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge) di Arthur Miller andò in scena per la prima volta sul palco di Broadway nel 1956 e nel West End londinese ebbe anche un allestimento con la regia di un trentunenne Peter Brook. In Italia lo diresse per primo Luchino Visconti all’Eliseo nel ’58; a Roma quest’anno è la seconda volta di Miller in una grande produzione, la prima è stata per Il crogiuolo con la regia di Filippo Dini.

Siamo a Brooklyn: nel testo scelto da Massimo Popolizio (con la traduzione di Masolino D’Amico), sotto al microscopio di Miller, brulica uno spaccato della comunità italoamericana di New York. L’immigrazione che porta con sé il sogno di una vita migliore identificata nell’utopia americana, le dinamiche familiari di stampo patriarcale in cui è il silenzio a generare mostri e poi quella violenza tutta machista, nei confronti di chi si affranca dallo stereotipo, che sembra scritta per i nostri giorni… è un testo ispirato a un fatto di cronaca, costruito attraverso l’osservazione del reale, una drammaturgia che letteralmente trabocca di umanità.
Massimo Popolizio negli ultimi anni più volte si è trovato a indagare le utopie americane, non solo recentemente tra le pagine di Furore di Steinbeck o de Il prezzo dello stesso Miller, ma anche nel grande affresco corale di Ibsen, Un nemico del popolo, in cui il regista guardava all’ambientazione americana come fosse un filtro. E d’altronde Miller fu autore anche di una riscrittura proprio del capolavoro di Ibsen.
Il tratto grottesco, che qui si fa ancora più esplicito rispetto ai precedenti spettacoli, è una sorta di passepartout con il quale il regista si smarca dal realismo anni Cinquanta di Miller.

In alto un grande ponte di ferro, in scena mobili grigi restringono la parte centrale del palcoscenico, a formare una sorta di quadrilatero di credenze, cassettiere, tavoli, porte; verranno a più riprese utilizzati dagli attori, ma non più di tanto: Rodolfo (Lorenzo Grilli) salirà sul tavolo per ballare e cantare, Caterina (Gaja Masciale) si siederà su un cassettone; per il resto quei vecchi mobili sembrano assolvere il ruolo simbolico della reliquia, rappresentando la famiglia dei Carbone, una volta unita.

Le musiche leggere utilizzate tra un quadro e l’altro – con cesure più che prevedibili e rintracciabili ad ogni acme di pathos -, il fondale che si fa di azzurro all’occorrenza (come nel finale, visivamente suggestivo, in cui la scena si apre e i mobili lasciano il posto a un controluce nel quale si staglia la figura vendicativa di Marco): tutto concorre a creare un’atmosfera da favola nera, nella quale i caratteri si piegano fino a un espressionismo distorto e talvolta caricaturale. Certo, i classici resistono a tutto e il dramma di Miller potrebbe anche uscire illeso da una lettura grottesca, sopra le righe, quasi da cartoon; ma la ricerca sulla caricatura di Popolizio sembra essere una sorta di maschera valida per ogni testo e messinscena che qui francamente non trova appiglio se non nel manierismo di un teatro vorticosamente modellato attorno alla performance del primo attore.

Ed è vero che questo non è uno spettacolo corale – come il precedente M Il figlio del secolo – ma una tragedia che si svolge tutta nel fuoco degli occhi neri di Eddie Carbone: un uomo che non riesce ad affrontare ciò che prova per la nipote, accudita in famiglia come una figlia, un uomo per il quale il tabù diventa furia patriarcale nei confronti di quella ragazza che ha la colpa di innamorarsi di un giovane immigrato che non è “regolare”, solo perché chiaro di capelli e amante del canto. Il tabù per Carbone non può nemmeno palesarsi, tanto che sceglierà di venir meno a un patto etico con la propria comunità pur di sbarazzarsi del ragazzo, denunciando lui e il fratello all’immigrazione. Ed eccolo allora Marco che compare in controluce a rappresentare la vendetta. Eddie Carbone, a sentire l’avvocato narratore, è predestinato, quel che accade avviene in relazione ai suoi sentimenti e alle sue azioni, ma l’interpretazione di Popolizio aggrappandosi a questa forma soggettiva della drammaturgia ne fa una macchietta sempre pronta a stare in mezzo alla scena, a mettersi in mostra.

Inoltre, anche se la visione del regista nato a Genova (e romano di adozione) si distacca da un approccio realistico, non resiste alla tentazione delle coloriture vocali relative all’origine siciliana della famiglia ormai americanizzata: ecco allora il tentativo di sporcare la parlata con quei suoni che dovrebbero ricordare le radici ormai lontane. Il risultato è una vocalità poco credibile anche da parte della moglie di Eddie, Beatrice, interpretata da Valentina Sperlì. L’unico a salvarsi da questa impostazione, grazie alla durezza inamovibile del personaggio, è Raffaele Esposito con il suo Marco. Anche l’avvocato-narratore di Michele Nani sembra ritagliato su una figurina alla Walt Disney; d’altronde la visione grottesca di Massimo Popolizio filtra anche il tragico finale, Marco non tocca Eddie con il gancio acuminato, ma Eddie muore e poi guarda il pubblico.

Eddie Carbone interpretato da Popolizio è un personaggio costruito per superfetazione, tutto mossette, vocine, cambi affettati di tono e sottolineature mimiche. Una recitazione, quella del protagonista, che talvolta tradisce la comprensione degli spettatori più lontani e tende a trasformare ogni battuta in una scena madre. Possiamo comprendere la ricerca vocale, la stratificazione ricca e complessa figlia del lavoro svolto con Ronconi, e non ci aspettiamo dunque da Popolizio un’interpretazione ferma, minimale e lineare (si ascolti a tal proposito Gastone Moschin in questa registrazione degli anni ‘80). Qui però la torsione è tale da essere davvero poco giustificabile, se non in quel disegno di un generico grottesco valido per tutte le stagioni e utile a mettere in mostra i virtuosismi dell’attore.
Una volta scrissi che il talento di Gabriele Lavia meriterebbe un regista in grado di incanalare quel talento e quella padronanza tecnica in una visione teatrale alta e organica, vale anche per Popolizio: è uno degli attori più capaci e talentuosi della sua generazione e meriterebbe, finalmente, di confrontarsi con uno sguardo nuovo.
Andrea Pocosgnich
Roma, Teatro Argentina 14 MARZO – 2 APRILE 2023
Prossime date in calendario tournée
BARI TEATRO PICCINNI DAL 13 AL 16 APRILE 2023
PARMA TEATRO DUE 18, 19 APRILE 2023
PISTOIA TEATRO MANZONI 22, 23 APRILE 2023
VITERBO TEATRO DELL’UNIONE 25 APRILE 2023
FERMO TEATRO DELL’AQUILA 29, 30 APRILE 2023
GORIZIA TEATRO VERDI 6 MAGGIO 2023
MILANO TEATRO STREHLER DAL 9 AL 21 MAGGIO 2023
Uno sguardo dal ponte
di Arthur Miller
traduzione Masolino D’Amico
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
Valentina Sperlì, Michele Nani, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli,
Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Mavaracchio, Gabriele Brunelli
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
produzione Compagnia Umberto Orsini
Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione
foto di Yasuko Kageyama
Buongiorno,
Massimo Popolizio ha avuto la grande possibilità che qualcuno potesse “incanalare” il suo talento, e quel rapporto ha fatto storia. Avevo grandi aspettative sul Popolizio dopo Lehman Trilogy, ma il solo vedere l’impianto scenico di Un Nemico del Popolo, e a cura di quelle stesse persone!, mi ha fatto capire che era finita un’epoca e una speranza. Quello di Popolizio è eterno teatro capocomicale, quella voglia di chi ora è diventato vecchio di sfogarsi, divertirsi, fare quello che si ritiene giusto. Andrebbero costruiti progetti ad hoc, ma temo fallirebbero, non c’è l’esigenza.