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M. Popolizio con le parole di Scurati nell’incubo del fascismo

Recensione. M Il figlio del secolo con la regia di Massimo Popolizio ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano, prodotto dal Piccolo con Teatro di Roma e Luce Cinecittà. In onda sabato 22 ottobre e sabato 29 ottobre 2022 alle 21.15 su Rai5.

Il teatrante, Massimo Popolizio. Foto di Masiar Pasquali

Iconicamente Mussolini non esiste in scena: nell’impianto visivo, nelle impersonificazioni ideate da Massimo Popolizio, per questo allestimento teatrale del best seller di Antonio Scurati (edito da Bompiani nel 2018 e vincitore dello Strega nel 2019), M Il figlio del secolo; nessun attore mostra la celebre testa glabra, nessuna posa famosa, nessuna imitazione nelle voci. Il figlio del secolo d’altronde nel titolo è già ridotto a una iniziale e l’attore e regista esclude l’immagine con cui la storia ce lo ha trasmesso. In realtà diverse motivazioni si intravedono dietro questa scelta. Popolizio proprio nell’adattamento della narrazione (insieme a Lorenzo Pavolini) ha dovuto risolvere alcune tra le maggiori difficoltà: è un romanzo storico (o come lo ha definito lo stesso autore un “romanzo documentario”), non c’è una prima persona definita e precisamente riconducibile al padre del fascismo.

M, Tommaso Ragno. Foto di Masiar Pasquali

Anzi, spesso quella voce parla attraverso un narratore terzo, poi ci sono i documenti, le pagine di giornale, le lettere che i protagonisti spediscono. Insomma la proteiformità letteraria del libro è in fin dei conti già specchio di una figura sfuggente. Poi però nella scelta di Popolizio c’è anche una evidente motivazione estetica e politica: il rifiuto dell’immagine storica del duce è totale e anche quando il discorso è diretto; il teatro di Popolizio convoca un alter ego molto diverso dall’originale, quello interpretato da Tommaso Ragno e in alcuni momenti è lo stesso regista a farsi portavoce, lo fa mettendosi e levandosi una maschera giallognola poco raccomandabile.

Manifestazione dei lavoratori. Foto di Masiar Pasquali

Sul palco viene colto lo spirito dell’opera letteraria trasformato in un grande racconto teatrale collettivo, un allestimento corale in cui ogni interprete più che farsi carico di un personaggio ha il compito ogni volta di raccontare un frammento di storia: come avveniva in Ragazzi di vita (ma qui con una maturità e precisione maggiore) e come d’altronde accadeva in certi lavori di Ronconi ripresi dai romanzi – si pensi al Pasticciaccio, oppure a Lehman Trilogy che nonostante fosse già scritto per il teatro aveva un andamento epico più che drammatico). Pochissimi dunque i dialoghi, alcuni dei quali reinventati a partire dalla scomposizione della narrazione sui diversi attori.

Velia Titta e Giacomo Matteotti (Francesca Osso e Raffaele Esposito). Foto di Masiar Pasquali

Chi ha letto il libro si troverà non solo a riconoscere le suggestive pagine di Scurati, la penna ironica e tragica – quella capacità di tracciare la parabola del più giovane capo di governo al mondo senza farlo diventare un eroe – ma sarà piacevolmente spettatore di quella sfida che appunto è tutta scenica, attraverso la quale l’ensemble deve ritrovare per ogni momento del racconto la fantasia teatrale necessaria senza perdere la funzione narrativa. E va detto, Popolizio non spreca una scena, lo spettacolo che doveva essere diviso in due parti dopo un primo slittamento causato dalla pandemia è andato in scena in una versione unica di tre ore, in cui ogni scelta di scrittura scenica è al servizio del testo e della meccanica narrativa.

Margherita Sarfatti (Sandra Toffolatti). Foto di Masiar Pasquali

Distillare 850 pagine in tre ore, impresa che procede per salti ma che mantiene un filo di coerenza molto preciso evocando i personaggi che compongono l’affresco di inizio secolo: D’Annunzio (Riccardo Bocci) e i suoi discorsi da Fiume, la famiglia di Mussolini e le amanti; Sandra Toffolatti è portentosa nei panni di Margherita Sarfatti, la donna che lo ha ripulito, dirozzato, che lo ha preparato per il successo; poi il mucchio selvaggio di ufficiali fascisti, comandanti, bastonatori e assassini. Paolo Musio è lo sprezzante e violento Italo Balbo. Raffaele Esposito ha negli occhi la paura e la determinazione di Giacomo Matteotti; Tommaso Cardarelli e Alberto Onofrietti evocano tra le diverse figure soprattutto Nicola Bombacci e Amerigo Dumini, ma tutti i 18 attori e attrici (oltre a quelli già citati, Michele Nani, Diana Manea, Michele Dell’Utri, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Gabriele Brunelli, Giulia Heathfield Di Renzi, Francesca Osso, Antonio Perretta, Beatrice Verzotti) sono efficaci nel lavoro di trasformismo, di evocazione di piccoli e grandi personaggi, ma anche nel creare la mischia dei manifestanti e popolani.

Italo Balbo (paolo Musio). Foto di Masiar Pasquali

La violenza, nel romanzo come nell’opera teatrale, rappresenta uno snodo imprescindibile: dai lavoratori aggrediti in piazza – suggestiva la scena in cui il palco si apre e dal basso emergono donne, uomini e bandiere rosse – fino alle teste spaccate nel Polesine. È con l’escalation delle violenze fasciste che Mussolini conquista il consenso trasformando in pochi anni un piccolo partito in un movimento nazionale: l’antipolitica che guiderà il paese, quando due persone su tre voteranno fascista. Alle violenze, senza successo, cerca di scappare Matteotti: “Velia e Giacomo” appare scritto sul frontespizio del boccascena, la storia d’amore tra i due riempie alcune tra le pagine migliori di Scurati, un amore diviso dalla lontananza, dalla lotta politica, dalla militanza e poi, quando Mussolini prenderà il potere, dalla sparizione del parlamentare socialista.

Foto di Masiar Pasquali

Se la scrittura scenica è al servizio del testo la firma di Popolizio è evidente in un ulteriore filtro metaforico: Mussolini come maschera della rivista, una sorta di doppio che di tanto in tanto interviene in parallelo al ruolo giocato da Tommaso Ragno. Un doppio che il regista ritaglia per sé, lavorando in bilico tra l’imbonitore, il fool e il raisonneur: uno dei suoi monologhi verrà addirittura recitato in sospensione, a diversi metri di altezza, con un vero e proprio colpo da circo. È lui a pronunciare una delle battute che maggiormente rimangono impresse: “il fascismo non è il virus, ma il corpo che lo accoglie”. Non è la satira facile ciò che interessa a Popolizio, non c’è la volontà di mettere il fascismo e il suo fondatore alle corde con lo sberleffo (o comunque, non solo), la critica è verticale, storica, si concretizza nel racconto stesso e si dispiega in una fattura scenica in linea con gli ideali del Piccolo (fondato due anni dopo la morte del dittatore): ovvero, la costruzione di un teatro d’arte e cultura inteso come servizio pubblico.

Foto di Masiar Pasquali

La scena di Marco Rossi è apparentemente spoglia, domina il nero: il disegno luci di Luigi Biondi lascia emergere il buio da incubo in cui appaiono i personaggi caratterizzati dai costumi d’epoca di Gianluca Sbicca e lo spazio si fa dinamico attraverso grandi scale componibili; sul fondale campeggiano disegni e composizioni grafiche: la scritta dell’Avanti, quella degli Arditi o alcune concessioni didascalico-ironiche, come quella dei leoni che saltano di fronte a un domatore mentre M arringa la folla. Le scale sono l’ascesa, la fatica per arrivare al potere e guardare tutti dall’alto. Ma non c’è eroismo shakespeariano nell’interpretazione umanissima ed eccellente di Tommaso Ragno, il suo Mussolini non gioisce mai, è quasi dimesso nonostante la risolutezza, nello sguardo ha già la sconfitta degli anni a venire.

Andrea Pocosgnich

Visto al Piccolo Teatro di Milano, Sala Strehler, fino al 26 febbraio 2022

Prossimi date in calendario tournée

Piccolo Teatro di Milano dal 28 settembre al 16 ottobre 2022

In onda sabato 22 ottobre  e sabato 29 ottobre 2022 alle 21.15 su Rai5

M Il figlio del secolo

uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia Lorenzo Pavolini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
video Riccardo Frati
suono Alessandro Saviozzi
movimenti Antonio Bertusi
con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Heatfield Di Renzi, Raffaele Esposito, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà
in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

1 COMMENT

  1. Carissimo Andrea, mi piacerebbe sentire il tuo parere su una questione che mi sta a cuore, e cioè se sia da approvare/esaltare la tendenza (reiterata) a ricorrere alla trasposizione teatrale di romanzi ed altri strumenti non nati per il teatro. E’ necessario o “comodo” scovare il tessuto drammaturgico dove questo non è presente, operando riscritture e drammatizzazioni? E’ da incoraggiare il ricorso alla terza persona come unica via per restituire quel che per la scena non è nato? Dal Pasticciaccio di Gadda con la memorabile messa in scena di Ronconi, a Dio ne scampi dagli Orsenigo e Lehman Trilogy (sempre di Ronconi), ai Ragazzi di Vita fino ad M di Popolizio (e chissà quanti ne dimentico) abbiamo visto ottimi, talvolta memorabili “esercizi di stile” teatrale che, però, confermano da un lato la carenza di nuove produzioni per la scena e, dall’altra, la volontà di registi e produttori di muoversi su terreni più agevolmente manovrabili. E poi ti chiederei anche se il pop a teatro sia sempre un pregio, se il registro grottesco debba sempre prevalere, se la terza persona rischia di rimanere un vezzo, se gli effetti speciali e gli audiovisivi …..ma mi accorgo che ti ho chiesto già tanto….

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