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La signorina Giulia di Leonardo Lidi. O del sommerso

Recensione. La signorina Giulia di Leonardo Lidi, da August Strindberg, ha debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto.

La Signorina Giulia-Christian La Rosa, Ilaria Falini Ph Lorenzo Porrazzini

La chiesa sconsacrata di San Simone, a Spoleto, è avvolta in una penombra silenziosa. La scena (di Nicolas Bovey) si staglia verticale come un monolite liscio e scuro, che incombe inossidabile sulla platea, intagliato dalla geometria bianca di una T orizzontale. È questo l’unico spazio calpestabile, abitato: una sezione verticale, a indicare il baratro e il rifugio, e una orizzontale e sopraelevata, alta poco più di un metro e mezzo, che suggerisce il senso del bilico e, impedendo agli interpreti di mantenere la posizione eretta, quello della castrazione. Leonardo Lidi, alle prese con La signorina Julie di August Strindberg, ne conserva i temi portanti, gli elementi fondamentali della drammaturgia e l’intonazione di scandaglio dell’inconscio, spazzando via l’impianto visivo dell’originale, che prevedeva una grande cucina affollata di oggetti, decorazioni e rami recisi, con affaccio su un giardino in fiore. Si tratta di una scelta che elabora in termini chiari il rapporto tra il naturalismo della scrittura – la ricostruzione quasi “fisiologica” dei rapporti causali nelle sorti dei protagonisti – e il realismo “visuale” dell’ambiente, dove la scomparsa del secondo amplifica e astrae la pregnanza del primo.

La Signorina Giulia- Christian La Rosa, Giuliana Vigogna. Ph. Lorenzo Porrazzini

Come è noto, Strindberg, indispettito dalle osservazioni di Émile Zola su Il padre, presentò, in una lettera del 1888 al proprio editore Karl Otto Bonnier,  La signorina Julie come «la prima tragedia naturalista della letteratura tragica svedese». Nella prefazione insiste inoltre sul sistema di risonanze che costituisce l’“infrastruttura” della tragedia (relazioni idee/ambiente, idee/oggetti, veglia/sonno, trasmissione del pensiero per mezzo di evocazioni fisiche) e sulla complessità dei caratteri: «No, io non credo ai caratteri teatrali semplici e ai giudizi sbrigativi sugli individui: è uno sciocco, un brutale, un geloso, un avaro, che dovrebbero essere ricusati dai naturalisti che hanno cognizione della grande complessità dell’anima e di come pure il vizio abbia un risvolto che assomiglia non poco alla virtù». A questa “pluralità” interiore corrisponde la frammentarietà e l’allusività del linguaggio che non può che essere organizzato nella forma di un dialogo ricorsivo, strappato, spesso guidato da nessi alogici.

L’azione si svolge nella cucina del castello del signor conte, la notte di San Giovanni, scrive Strindberg. Giulia/Julie (Giuliana Vigogna), figlia venticinquenne del conte, il servo Gianni/Jean (Christian La Rosa) e la cuoca Cristina/Kristin (Ilaria Falini) sono i vertici di un triangolo giocato (e si tratta spesso di un gioco di ruolo) sul conflitto di classe. L’innamoramento di Gianni per Giulia, risalente ai tempi dell’infanzia, riflette le pulsioni bivalenti, tra aspirazione e disprezzo, di un figlio della serva (l’allusione è al titolo dell’autobiografia di Strindberg, composta tra il 1886 e il 1909) nei confronti del mondo aristocratico. Il corpo di Christian La Rosa è un conduttore perfetto di queste tensioni e la sua vocalità riflette, con la fluidità delle sfumature, la coesistenza di opposti propria del cuore umano, una dualità tanto naturale da non poter essere polarizzata senza che la restituzione si trasformi in un artificio.

La Signorina Giulia- Giuliana Vigogna Christian La Rosa. Ph. Lorenzo Porrazzini

Giulia, nelle parole di Strindberg, è «un resto di antica aristocrazia guerriera che […] viene soppiantata dalla nuova aristocrazia dei nervi e del cervello; una vittima delle disarmonie familiari […], una vittima dei traviamenti di un’epoca, delle contingenze, nonché della sua costituzione debole», portatrice di una tensione autodistruttiva e, al tempo stesso, della cognizione del proprio primato. I presagi della notte di San Giovanni, l’atmosfera gravida di simboli che Strindberg media attraverso la coralità e il folclore (i riferimenti alle danze popolari ma anche l’affollamento di oggetti scenici che aprono “varchi” visivi), sono catalizzati invece – in questo trittico chirurgico, su questa scena geometrica – dalla figura di Giulia, alla quale Vigogna offre una grazia adulta e selvatica. Nella sua parabola, gli elementi “caldi”, continuamente allusi (marcescenza, sangue, incesto, cannibalismo) sono sintetizzati e risolti nella freddezza rapida, intuitiva dell’esito sacrificale che però – come ogni dissezione e come ogni rito – non chiude il disegno ma continua a emanare, dopo le ebbrezze, una tristezza votiva.

Cristina, infine, fidanzata di Gianni e terzo vertice del conflitto, spesso isolata nello spazio e chiusa nel silenzio o nel sonno, funziona come uno specchio che rimanda al pubblico il riflesso, sulla scena, di quella contemplazione impotente e dolorosa che grava sulla platea. Ilaria Falini gestisce a perfezione, grazie alla nota febbrile che la anima anche quando è immobile, la misura della propria lateralità, realizzando, in qualche modo, la funzione del coro più allusa che teorizzata da Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia (1872), il suggerimento inquietante messo a fuoco da Giorgio Colli: «Nietzsche ci ha svelato che quanto lo spettatore ateniese vede laggiù – ben nitido e corposo sotto il sole greco – non è altro che uno spettacolo per il coro, una visione che appare al coro». Elemento di mediazione tra spettatore e spettacolo, ma anche tra la danza di Dioniso e l’istanza di Apollo, il coro è la presenza che contempla e fa vedere. Così Cristina, distesa nel luogo più angusto, ma anche più protetto, della scena.

La signorina Giulia- Ilaria Flini.Ph Lorenzo Porrazzini

Nei testi della tradizione (prima di Strindberg, D’Annunzio, Ibsen, Garcia Lorca) Leonardo Lidi cerca, per sua dichiarazione, una solidità da fendere sperimentandovi la propria voce ma anche la possibilità di rappresentare in termini simbolici un “luogo chiuso” – un luogo da cui uscire, come nel titolo di Graziano Graziani alla sua lettura critica sul blog del Festival dei Due Mondi. I personaggi sembrano vivere in un interregno, uno spazio potenziale ma perimetrato, in cui proprio il senso di potenzialità mai convertita in atto rappresenta la trappola. Circoscrivere lo spazio vuol dire anche determinare dei rapporti di forza insinceri, perché sviluppati a partire da un vincolo, oppure massimamente sinceri, nella loro brutalità, se si accetta l’idea che la condizione umana è quella del vincolo. E della finzione: «Dovresti fare l’attore» insiste Giulia, rivolta al servo.
Come dice Lidi stesso: «Tutti lavorano sull’auto-vincolarsi, […] rinchiusi in un luogo da cui non riescono ad evadere. Può trattarsi di una zona comfort, di una certezza, di un pensiero, ma si traduce sempre con l’incapacità di riuscire a scappare, ad andarsene». In questo senso la riflessione diventa generazionale – i millenials eterni figli – e si allaccia, in modo fin troppo programmatico, a quella dei classici a teatro, appannaggio invece dei “grandi nomi”. Il regista affronta questo “tema sommerso” con competenza, senza condurre un’attualizzazione forzata ma lasciando che si manifesti per piccoli indizi (come la scelta di alternare ai nomi originali le varianti italianizzate, creando una dissonanza evidente ma implicita, disponibile a essere investigata oppure a scomparire nel flusso del dialogo).

Per continuare a utilizzare la coppia oppositiva di cui sopra, la regia di Lidi sembra proiettare un’aura di serietà, dunque di giovanile freddezza, sulle tonalità autentiche (profondamente radicate in senso storico) dell’originale, più calde e più sortileghe.
Viene sperimentato, nell’orizzonte produttivo del Teatro Stabile dell’Umbria, un ulteriore approccio ai classici, accanto alla filologia magniloquente impiegata da Andrea Baracco in Guerra e Pace e alla sovrascrittura audace di Liv Ferracchiati in La tragedia è finita, Platonov (programmato anch’esso al Festival dei Due Mondi).
E, forse, questa scelta – l’evocazione di un sottotesto a scomparsa, quasi trasparente – somiglia a un altro modo di onorare la scrittura di Strindberg, e le latenze che ci abitano.

Ilaria Rossini

Festival dei Due Mondi, Spoleto – Giugno 2021

LA SIGNORINA GIULIA

da August Strindberg
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Giuliana Vigogna, Christian La Rosa, Ilaria Falini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono G.U.P. Alcaro
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi

 

 

 

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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