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Voci di Fonte, terzo giorno a Siena: il teatro a un’altra velocità…

Senza Lear di M. Gilmore, Armando Iovino, E. Porciatti, L. Riccioli, P.Sabatini

Altre velocità. Che nel teatro vuol dire un gruppo di studiosi giovani e appassionati che si girano l’Italia dei festival per intervenire, vedere, discutere, fare laboratori; in quello che fanno a Voci di Fonte, che seguo per il terzo giorno e mio ultimo, dovevo intervenire anche io per raccontarci un po’ di cose e Serena Terranova, collega di passione comune che ne è responsabile, alla fine mi ha regalato parole, nel senso letterale: rettangolini colorati con citazioni celebri che vanno da Balzac a Franco Quadri; proprio lui, quest’ultimo, aveva detto che raccontare è “far rivivere un’illusione che ripaga anche della solitudine”, io la solitudine del critico non la conosco, io sono nel mezzo, però mi piace questa illusione, che più illuminata me l’aveva detta il giorno prima Attilio Scarpellini: “dobbiamo ricominciare a distinguere tra illusione e suggestione: l’illusione soltanto è teatro che accade”, così mi persuado che in fondo proprio dall’incanto, dalla capacità di meravigliare saremo in grado di accadere, noi assieme al teatro.

Oggi è il giorno del Lia Lapini, premio per la scrittura di scena alla sua terza edizione. In lizza quattro contendenti per una produzione. Una giornata intera: un’ora e mezza di preparazione a spettacolo per quindici minuti di scena. Alla faccia dell’immediatezza del teatro. Vincenzo Schino di Opera presenta qualche frammento di Sonno, lavoro realmente in divenire perché il regista interviene in scena: corregge, sistema, decide, fa il suo spettacolo davanti a una giuria e riesce a concedere il gesto dell’arte alla visione, un vero e proprio tributo alla creazione; la sua idea è tutta da indagare, per il momento c’è una poetica riconoscibile e puntigliosa, con il solito convincente alto riferimento degli intenti e un’ottima qualità espressiva: Schino, non c’è niente da fare, ha talento e riesce a dare forma all’idea, ancora dovrà lavorare ma il solco è tracciato, resta da piantarci qualcosa. Pieraldo Girotto, attore e animatore stabile per l’Accademia degli Artefatti, propone senza questo nome Una sporca messinscena ed è un lavoro di una buona pulizia che però ha fin troppi riferimenti testuali per avere, fin da ora, una effettiva autonomia: Ravenhill, Koltes, Crimp, proprio gli autori indagati per anni con la compagnia di Fabrizio Arcuri, proprio gli autori che stimolano quindi una riconoscibilità altrui fin troppo evidente e quindi meno interessante; forse più avanti questo lavoro darà frutti, ma per adesso nulla più di ciò che ha realizzato, da attore spesso mirabilmente, con la sua compagnia. Sul progetto di Roberta Sferzi de L’angelo Ragazzino, dal titolo E sotto avverso ciel, luce più chiara sul filosofo Carlo Michelstaedter, ho davvero profonde perplessità per la poca consistenza drammaturgica complessiva e per una rappresentazione che non riesce per ora a bucare l’esteriorità: leggo sulla scheda del desiderio di rischiare, di sperimentare e superare la retorica, probabilmente è questo a rendere il lavoro ancora grezzo e che forse troverà, con il tempo, migliore collocazione. L’ultima in scena è una proposta di Silvia Pasello, attrice di Bene che si misura con Il Castello di Kafka; il suo lavoro dal titolo L’indesiderato ha grande qualità che lavorò con Carmelo Bene e non mi sembra nuovo per la professionalità che le vedo: molto elegante la fase iniziale e forse più sicura, quando l’accoglienza di un maggiordomo e la mancanza di punti di riferimento pongono l’ascolto su vari livelli, tuttavia questa eleganza e sicurezza si perdono nella seconda parte dove si rischia meno e si concede troppo al buon recitare; ma questo pian piano cadrà con l’andare del lavoro. Quel che salta subito agli occhi è l’età alta dei partecipanti, e soprattutto il lignaggio: Pasello, Sferzi, Girotto, tutti attori già affermati e fa davvero pensare averli qui: Elena Lamberti che lo organizza mi dice trattarsi di un discorso legato alla qualità, mi si dice che i giovani non sanno fare niente di così bello, che per i giovani ci sono fin troppe possibilità e le vere categorie da difendere sono queste (davvero Girotto – a fini produttivi e non artistici ci mancherebbe – ha bisogno del Lia Lapini, mi chiedo?) e invece ha vinto Schino e io esulto senza alcun dubbio dell’opportunità della scelta: la sua è davvero la proposta più rischiosa e con forse più futuro, in cui forse si sbaglierà ma a questo servono i premi produttivi: a dare occasioni e non oscar alla carriera, anche perché è quasi la sola proposta in cui la scrittura di scena cui il premio si rifà è davvero presente, a dispetto invece di lavori che non tengono quasi conto di questo indirizzo invece per me determinante.

L’anno scorso al Lia Lapini ha vinto Isola Teatro con Senza Lear, per regia di Marta Gilmore. La sera stessa debutta in Santa Maria della Scala. Quando vidi lo studio mesi fa rimasi molto distante, ne parlai con lei che oggi mi presenta uno spettacolo completamente diverso e mi pone di fronte l’importanza del nostro rapporto dialettico da allora fino a oggi: dopo lo spettacolo, al Macondo dove si va a mangiare, fa il giro del tavolo e viene a guardarmi negli occhi, parliamo, ricostruiamo tutto, stiamo entrambi in questo momento lavorando e a guardarci da lontano la passione ci brucia come fossimo due amanti della stessa donna. Tre attori su un pratino all’inglese, finto, quindi pratino senza prato, Lear senza Lear: il lavoro, rispetto al riferimento shakespeariano, sposta l’attenzione su un diverso piano di osservazione, pone in risalto le tre figlie in panchina in attesa che il padre le faccia entrare; tema fondante è l’attesa di esistere, mai come ora attuale per una generazione che sconta una bieca e fagocitante gerontocrazia, le tre sorelle discutono di ciò che non hanno, si contendono eredità e amore paterno, si lasciano illudere e, pian piano, invecchiano. La costruzione è serrata, la drammaturgia è davvero efficace e puntigliosa, la Gilmore tiene i suoi attori lasciando loro però lo spazio necessario per non fare la fine dei personaggi, così divertendosi riescono a sentirsi pienamente sulla scena, sanno di esserci, lasciando di sé impronta e carattere: Iovino-Riccioli-Porciatti dentro un perimetro-misura – che per Isola è il prima dell’azione fino all’azione stessa – hanno il mandato di rompere la simmetria con la recitazione vis-à-vis, questo movimento complementare è l’equilibrio dello spettacolo. Unici due nodi: se la prima parte è serrata la seconda pecca di confusione, forse per l’abitudine all’apertura il rischio è quello di perdersi, mancando di concretezza, ma nulla che non saprà rimediare una ricerca del netto; secondo punto non rimediabile ma fisiologico è che, estrapolando tipi da Shakespeare, tirando su una drammaturgia così presente necessariamente diventano personaggi e, dunque, acquistano una psicologia autonoma, con la quale si deve per forza fare i conti. Ma, ora, so che Marta Gilmore avrà la forza di farlo.

Segue La Festa di Francesco Pennacchia per laLut, attore ottimo negli ultimi anni assieme a Claudio Morganti, ora in veste di regista per otto attori. Con lui mi piacerebbe parlare a voce, poi sono ripartito e non ho fatto in tempo. Perché Pennacchia si muove da una drammaturgia intelligente, davvero forte l’impianto, però c’è un problema effettivo che è la mancanza di una centralità, un nucleo preciso entro cui far stare l’obiettivo dello spettacolo: frastuono attorno al bancone di un bar, musica a volume folle durante una festa è distrazione dalla drammaturgia, disturbo della sequenzialità per mano del rumore, della confusione che non riesce a far percepire il nascere di una storia; quindi un lavoro sulla sonorità, contrario a quello che da attore realizza con il Woyzeck di Claudio Morganti – perché Morganti gioca sul silenzio in cui si intesse il suono, sciogliendo il rapporto tra i due momenti – ma proprio qui Pennacchia si va ad incagliare: il suo lavoro nasce proprio dal caos ma poi non riesce a condurlo in un altrove che ne svelerebbe la carica detonante, magari proprio giungere al silenzio. Ne viene che purtroppo, pur nella bontà dell’idea e della messa in scena, questa festa laida e notturna al mattino della consapevolezza non arriva mai, lasciando uno stato confusionale sicuramente voluto (come fossimo noi a dover vivere il day after di uno spettacolo alcolico, in cui dover fare i conti con un risveglio rintronato), ma non ancora così efficace perché sia motivo fondante allo spettacolo. Ci sono però scelte di ottimo livello qualitativo: in primo luogo Pennacchia si ritaglia per sé un ruolo fondamentale, il barista presenza straordinaria alla Buster Keaton che previene i desideri, il referente degli sbalzi sentimentali, delle derive umane di tutti gli avventori; poi questa dispersione delle esperienze e delle umanità nella concitazione del mostruoso è davvero eccellente nella forma e ha qualcosa di intenso che tende a sentimenti de Lo straniero di Camus; in ultimo, molto interessante è che sembra mancare completamente il tempo dell’accadere, una connotazione che circoscriva e definisca l’evento, perché il tempo davvero non c’è e tutto in certe vite si succede per immagini ritorte, come nella testa di un ubriaco, senza alcun legame connettivo.

La mattina successiva, al bar sotto il Duomo. Entro con Attilio e Sergio prima di ripartire, perché mi spetta il mio dono fatto di parole, l’ultimo di questi giorni intensi. Insieme a Serena che conoscono tutti c’è la ragazza che collabora con lei, Alessandra Cava, che Attilio non conosce: Serena la presenta dicendo distratta: “lei è un’altra velocità…” e così senza pensare dice la verità: è bene che ce ne rendiamo conto, tutti noi che resistiamo e teniamo la bandiera culturale a svettare, nonostante tagli all’incidenza del nostro mestiere, offese alla dignità e al primato dell’intelletto, alienazione dal valore e dalla qualità, siamo davvero, tutti, di un’altra velocità.

Simone Nebbia

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2 COMMENTS

  1. caro Simone, la prossima volta che parlo con te chiederò la registrazione, oltre al cappuccino del fantastico Nocino. Mi dispiace perché il nostro scambio di opinioni è stato interrotto prematuramente e la mia posizione è più articolata.
    Non mi sembra affatto di aver detto che “i giovani non sanno far nulla di così bello”. Ho sostenuto dall’inizio molte giovani compagnie, sia lavorando con loro sia promuovendole per amicizia. Ritengo tuttavia che il termine “giovane compagnia” presupponga un valore estetico e qualitativo che non è assolutamente scontato nè assicurato e che ,a mio avviso, molte cosiddette giovani compagnie siano sopravvalutate. Alcuni teatri e festival articolano la loro programmazione solo con queste compagnie non lasciando spazio ad artisti quarantenni o oltre, di cui è riconosciuto l’indubbio valore ma ai quali non si danno più opportunità. Hai fatto l’esempio di Pieraldo Girotto. Non ha il diritto anche un attore di indiscutibile talento come lui di provare un percorso indivuduale rispetto alla carriera decennale con gli artefatti? Perchè negargli questa possibilità, se il progetto è di alta qualità? Non possiamo semplicamente tornare a parlare del teatro di buona qualità, lasciando perdere categorie anagrafiche, ponendo solo attenzione a quella piccolezza che piace tanto a me e a te, che si chiama “talento”? ti abbraccio con imperitura stima e con il solito affetto. elena

  2. Elena cara,se ho pubblicato con nome e cognome è perchè a me il Lia Lapini interessa e con ciò ho voluto contribuire alla crescita: il conflitto ne è sempre padre, la dialettica acquista di valore. Per questo ho riportato la nostra discussione, purtroppo interrotta. Non mi va di parlare di categorie anagrafiche che non riconosco, soltanto mi interrogavo sull’opportunità – lo ripeto, a fini produttivi e non artistici che rispetto pienamente – di passare per il Lia Lapini e non altri luoghi, premio questo che è uno dei pochi che amerei vedere dedicarsi a germogli di maggiore freschezza, non soltanto qualità ma progetto futuro, anche errando: questo mi interesserebbe di più, un premio non va a premiare soltanto, ma concede l’opportunità di sbagliare. Il talento è un’esplosione, non ha padre, però serve una famiglia intera perchè si indirizzi e ne tragga un proprio indipendente futuro. Brindo con te alla qualità ma non è, questa, una categoria, o meglio per me non può la qualità essere una vestaglia d’artista, non il solo abito che serve indossare per dirsi vestiti. Davvero un abbraccio sentito, a nuove agguerrite discussioni. Simone

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