THE WASP (di M. Lloyd Malcolm, regia V. Cognatti)
La scena è grande, pulita e ordinata, con solo un pianoforte sulla destra, una porta al centro e un rubinetto alla sinistra. Una dimensione svuotata in cui prima c’era qualcosa e adesso non c’è più: sradicato, rimosso, abortito. A riempire questa assenza, due attrici, neo diplomate all'Accademia Paolo Grassi di Milano, Perla Ambrosini e Silvia D'Anastasio, entrambe con l’onere e onore di portare sulle spalle The Wasp, un testo complesso (che è anche un film), in cui le due protagoniste Erin e Kate rappresentano due spaccati sociali in cui si insinua, dolorosamente e per anni, la violenza: la prima, Erin, subisce a lungo, da giovane, e anche da adulta; la seconda Kate, agisce il male con la banale semplicità di chi lo ha attorno, da sempre, nella propria educazione e non conosce altra modalità di relazione. L’una proietta sull’altra la rabbia verso la propria esistenza: potrebbero sembrare l’una vittima (Erin) e l’altra carnefice (Kate) ma i confini non sono così netti e sopratutto a fare la differenza è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, chi sono ora queste donne? Chi erano da bambine e cosa vede l’una quando si specchia nel volto dell’altra? Eccetto qualche lieve incertezza, Ambrosini e D’Anastasio incorporano nell’interpretazione tali interrogativi esprimendone la molteplicità dei caratteri e la totale assenza di definizione. La scrittura della drammaturga e sceneggiatrice inglese Morgan Lloyd Malcolm (leggi anche Mum) viene resa dalla regia di Valentina Cognetti con essenziale fedeltà; la drammaturgia segue la traduzione (di Enrico Luttmann) con aderenza, tanto che a volte si potrebbe lasciare più spazio all’azione scenica e meno al testo, soprattutto nelle parti monologanti e/o soliloqui. Che la violenza generi violenza è un assunto di comodo quando la vera domanda che ci pone questo lavoro è cos’è la violenza e perché la vespa (the wasp) punge? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Diamante: di Morgan Lloyd Malcolm, traduzione Enrico Luttmann , organizzazione Alice Staccioli, scenografia Michelangelo Raponi, aiuto regia Martina Grandin, produzione Margot Theatre Company
ZONA FRANCA (di Alice Ripoll)
Alcuni dei performer sono già in scena mentre il pubblico prende posto, sono in un angolo a sinistra, cantano, tengono il ritmo battendo le mani e picchiando sulle percussioni. Dal soffitto della sala Petrassi dell’Auditorium pendono grandi palloni neri, sul fondale si vedono le aste con i fari la cui luce ci invaderà. Una volta entrato tutto il pubblico l’immagine apparentemente banale di un gruppo di danzatori brasiliani intenti a danzare senza fermarsi mai lascia il posto allo spazio dell’immaginazione, nel quale tutto è possibile. Nella Zona Franca pensata dalla coreografa Alice Ripoll vengono accolti performer con diverse fisicità, a tratti instancabili, a tratti in grado di danzare la lentezza nei silenzi interrotti da musiche potenti. Qui lo spiritualismo si unisce alla sensualità estrema. Tutto si trasforma sotto i nostri occhi: le danze urbane, la danza contemporanea, quella afro e la capoeira. Unisoni, festa apparentemente anarchica, soli, passi a due e a tre. Alice Ripoll non vuole raccontarci una storia ma occasionalmente le danze, anche quelle più furenti, si bloccano lasciando apparire immagini e azioni che hanno a che fare le mitologie moderne: il calcio, l’erotismo nella versione ironica di un twerk in cui una delle danzatrici riesce a muovere i singoli muscoli del fondoschiena a ritmo di musica, oppure il corpo erotico che diventa preda degli smartphone pronti a trasformarlo in preda sessualizzata per un porno quotidiano e a basso costo. I palloni sopra le teste degli artisti esploderanno facendo cadere coloratissimi coriandoli, un rider entrerà in scena con una bicicletta rossa che poi sarà usata come strumento musicale. Siamo con i dieci performer, dall’inizio alla fine, nei salti, nelle prese acrobatiche, tra gli spari e le urla, nelle gambe che si incrociano a ritmi indemoniati o nei gesti lentissimi di una preghiera; siamo tra le strade di un Brasile luccicante dove tutto è possibile, dove la favela è dietro l'angolo e i corpi sono musica pura. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Auditorium Parco della Musica, Romaeuropa Festival. Coreografia: Alice Ripoll Performer: Gabriel Tiobil, GB Dancarino Brabo, Hiltinho Fanta?stico, Katiany Correia, Maylla Eassy, Petersonsidy, Romulo Galvao, Tamires Costa, Thamires Candida, VN Dancarino Brabo Assistenti alla regia: Alan Ferreira e Thais Peixoto Disegno luci: Tomas Ribas e Diana Joels Tecnico luci: Taina Miranda Scenografia e costumi: Raphael Elias Assistente costumista e sarta: Gabriel Alves Soundtrack: Alice Ripoll e Alan Ferreira Tecnico luci e prove: Renato Linhares / Alan Ferreira Illustrazione e Designer: Caick Carvalho
LE SORELLASTRE (di O. Bianchi, regia G. Latini)
L’acqua all’interno della bottiglietta continuerà a tremare per tutto lo spettacolo, poggiata sul tavolo della sala da pranzo - sul quale si terrà il gioco, attorno al quale si urlerà, piangerà, si incasseranno insulti e si riderà anche - non smetterà di essere scossa, mentre alle spalle, sul fondo della scena, immobile sta la bara aperta. Alla sesta stagione di repliche, Le sorellastre di Ottavia Bianchi, con la regia di Giorgio Latini, torna in scena all’Altrove Teatro Studio. Il successo lo si deve a una scrittura schietta, come gli exploit delle protagoniste, che si muove in scena con ritmo, alternando pause, entrate e uscite o fissandosi in una contrainte. L’impianto drammaturgico si costruisce attraverso dei topoi: la morte della madre che porta quattro sorelle distanti a incontrarsi, i litigi e i segreti, l’eredità, l’espediente del gioco; “modelli” comuni nelle commedie nere, di situazione, o negli psicodrammi. A questi, si aggiunga l’affilata e imprevedibile alchimia tra Emma, “la brava” (Ottavia Bianchi), Elvira “la bella” (Livia Castiglioni), Ughetta “la stupida” (Patrizia Ciabatta) e Emilia, Lia, “il bastone della vecchiaia” (Giulia Santilli). Ricordando la tensione di pièce celebri come Due Partite di Cristina Comencini ma anche Carnage di Yasmina Reza, le quattro attrici padroneggiano (eccetto alcuni errori di battuta da prima replica) un’interpretazione intelligente, sempre sostenuta e giocata al rialzo fino alla fine, e non solo tra di loro ma con il pubblico stesso, costantemente preso in scacco. Al punto che, forse, si suggerisce come superflua la lettura della lettera della madre: una spiegazione ridondante perché “già detta” dall’evolversi dell’azione scenica. Le protagoniste ritraggono un quadretto familiare incrinato e afflitto che poi si allarga in un affresco sociale sulle questioni di genere e ruolo, sulle ambizioni e ansie da prestazione; solitudini e rivalse, pregiudizi e vanità che entusiasmano la platea con affascinante perfidia e senza pesantezze moraleggianti. (Lucia Medri)
Visto a Altrove Teatro Studio: di Ottavia Bianchi, con Ottavia Bianchi, Livia Castiglioni, Patrizia Ciabatta, Giulia Santilli. Regia Giorgio Latini
GUERRA E PACE (regia Luca De Fusco)
In Guerra e pace Tolstoj aveva significato, con monumentale sintesi, la coincidenza di vita individuale – il mondo interiore del singolo – e storia generale. Affresco superbo delle implicazioni politiche, culturali ed esistenziali legate alle campagne napoleoniche in Europa, il romanzo descrive il consumarsi di una parabola talmente ampia la cui riduzione teatrale non si può certo considerare un fatto di immediata attuazione. Ne abbiamo seguito a Palermo il tentativo di Luca De Fusco, che in questa produzione del Biondo inserisce la vicenda entro il quadro offerto da un suggestivo (ma appena didascalico) palazzo in rovina (di Marta Crisolini Malatesta). Lungo le scalinate si svolge la complessa trama narrativa, puntellata da soluzioni di composta estetica. L'intreccio, declinato come successione di episodi ai quali i protagonisti hanno accesso simultaneo o successivo, viene smembrato in fatti minimi che tuttavia sembrano mantenere complessiva unità. E se questa, tuttavia, poteva essere ancora più asciutta, per così dire "essenzializzata", il rischio della potenziale disgregazione viene evitato dalla scelta di mantenere un equilibrio non coraggioso ma solido, che rifiuta la ricerca di soluzioni forzatamente originali preferendovi la tutela della limpidezza narrativa. Non esalta e non dispiace, insomma: una resa democristiana e nazional-popolare (prodotta di concerto con il Teatro di Roma e lo Stabile catanese) che certo odora di naftalina, ma che si pone rispetto al dramma con una certa autorevolezza, consentendone piena leggibilità. Le interpretazioni caratterizzano i personaggi esponendoli all'empatia del pubblico; Mersila Sokoli rende credibilmente la delicata e nevrotica umoralità di Nataša e ne consente, nel dramma, lo svolgersi in un coinvolgente Bildungsroman (Tiziana Bonsignore).
Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Lev Tolstoj, adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco, regia Luca De Fusco, aiuto regia Lucia Rocco, scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, luci Gigi Saccomandi, musiche Ran Bagno, creazioni video Alessandro Papa, coreografa Monica Codena, con (in o.a.) Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri, produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania / Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Foto di Rosellina Garbo
DI GIORNO E DI NOTTE (regia Cinzia Maccagnano)
Giorno, notte, giorno è il romanzo di Beatrice Monroy (Perrone, 2022) da cui è tratto Di giorno e di notte, produzione del Teatro Biondo per la regia di Cinzia Maccagnano. Il testo in origine sembrava preludere a qualche interessante sviluppo drammaturgico, nella sua netta scansione tra i dì e le notti entro cui si svolge la vicenda delle protagoniste, due amiche legate da un misterioso fattaccio – ovviamente a sfondo mafioso. La resa teatrale riduce tuttavia il peso questa scelta, che pure poteva sembrare allettante, e in genere ne cava fuori un drammone dai toni esasperati. Siamo negli anni del boom edilizio, in quell'intrigato complesso in cui gli interessi dei palazzinari, della mafia, della nuova classe dirigente trovano coincidenza nel cemento e nel suo impiego urbanistico. Nella nuova città borghese, che accoglie come una madre il nuovo, ipertrofico ceto di dipendenti pubblici, s trovano a vivere Matilde (Simona Malato) e Carla (Luisa Lombardo). Chiuse nelle grandi scatole mobili in cui abitano (scene e costumi di Valentina Console), e da cui soltanto Matilde ha qualche sparuta possibilità di allontanamento, le due vivono in una simbiosi imposta dalla comune memoria, privata e storica. Attorno a questa fusione girano i rapporti affettivi con i rispettivi compagni (interpretati da Giuseppe Randazzo e Dario Muratore), e con la giovane domestica (Maria Chiara Pellitteri), anch'essi coinvolti dai crimini cui il dramma allude. Teso tra tentativi cinematografici e inutili dispendi energetici, perseguiti talvolta con inverosimile enfasi, il dramma risulta complessivamente articolato sul susseguirsi di temi prevedibili e stereotipati, ai quali le movimentate soluzioni sceniche adottate non riescono a fornire soluzione e bilanciamento. Simona Malato cade in piedi, e di fatto è la sua interpretazione a garantire la sostenibilità della vicenda; per il resto i moduli narrativi si inseriscono in un racconto abbastanza convenzionale del fatto di mafia, e a questi disgraziatamente il dramma soggiace. Ottimo soggetto per una fiction Mediaset (Tiziana Bonsignore).
Visto al Teatro Biondo, Palermo, in prima assoluta. Crediti: di Beatrice Monroy, libero adattamento dal romanzo Notte, giorno, notte (ed. Perrone, Roma 2023), regia Cinzia Maccagnano, scene e costumi Valentina Console, con Simona Malato, Viviana Lombardo, Dario Muratore, Giuseppe Randazzo, Maria Chiara Pellitteri, musiche e progetto sonoro Federico Pipia, riprese e montaggio video Sandy Scimeca, assistente scene e costumi Felicetta Giordano, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.
FONÈS (Luca Trezza e Francesca Muoio)
Le voci. Emergono dal tempo e attraverso il tempo, suoni che evocano memorie e lasciano sul presente un velo di opacità. Perché nel suono della voce c’è la lingua, quella particolare affezione del suono nel piegarsi in una riconoscibile cadenza. E mai la lingua, punteggiata dalla pronuncia che ognuno vi poggia dentro, sarà qualcosa di puro. Fonés è un calco dal greco, suoni emessi dal cavo della voce umana che rimandano a personaggi, storie, atmosfere e ambienti, un bagaglio che dal passato permea interamente il presente. È questo sentimento che Luca Trezza e Francesca Muoio, attori e autori dello spettacolo omonimo in scena allo Spazio Diamante, hanno masticato nella bocca perché nella lingua intesa come elemento corporeo dell’articolazione vocale, appunto, si creasse un certo linguaggio. Il rimando è a Napoli, l’immaginario – non troppo originale a dire il vero, a causa dell’ipertrofia dei riferimenti mediatici attuali – in cui la città prende forma, l’area identitaria in cui essa sviluppa la natura dei propri abitanti. I due ottimi attori, animati da una forza primigenia che affonda in un’esperienza di grande profondità, abitano lo spazio quasi vuoto percorrendolo in verticale, dal fondo fino al confine con la platea, ondeggiando da un estremo all’altro in cui far vivere i propri personaggi. In una Napoli talvolta ostile ma sanguigna, essi si manifestano esponendo gli eventi che li riguardano, spesso tragici, come fosse una Spoon River partenopea: donne sfruttate e uccise come cose inutili che non servono più, giovani colpiti da spari di pistola vaganti, uccisi dalla balistica e dalla sorte, criminali morti nell’esercizio del proprio disfacimento, mogli ripudiate per aver dato sfogo all’istinto d’amore, una sequenza di personaggi che hanno in comune un destino di morte e decadenza, stretto tra due emozioni mai come in certi luoghi così intrecciate: l’eccitazione e il dolore che si rincorrono, si mescolano, diventano linfa di un popolo e della sua disgraziata evoluzione. (Simone Nebbia)
Visto a Spazio Diamante. Crediti: scritto e diretto da Luca Trezza e Francesca Muoio; produzione Compagnia Formiche di Vetro Teatro. Foto Emilia Vitulano
MINE-HAHA OVVERO DELL’EDUCAZIONE FISICA DELLE FANCIULLE (Marco Corsucci)
Un’impacciatezza del corpo, teso a replicare una postura vista chissà dove, chissà da chi – forse in tv, da un genitore, dall’amic* del cuore. Eppoi i confini di un parco, casette bianche, gruppuscoli di coetane* e schiamazzi, il desiderio di essere-come, la curiosità per il corpo dell’altra, l’esposizione di sessi ancora non-schiusi. Mine-haha di Frank Wedekind è un testo che buca la sua epoca, la Bélle epoque, prestandosi a letture attualissime. Lo sguardo di Marco Corsucci e Matilde Bernardi spreme il racconto in 45’ ipnotici, dalla geometria netta, sapiente, perturbante. Il corpo di Matilde Bernardi, muto ma eloquentissimo, è inscritto in un telo bianco a terra da cui non c’è scampo, brano di luce che rende possibile, in quanto tale, la visione di ciò che vi ricade. Quel lacerto bianco steso è forse la metafora delle villette bianche del racconto di Wedekind: immerse in un parco, avviene in esse l’educazione fisica delle fanciulle di una società distopica – fanciulle destinate a un’educazione infinitamente ripetibile e omologante. Chi si sottrae alle regole è condannata a restare a vita nel parco, verde interstiziale di questa green-city penitenziale – parco a sua volta cinto da alte mura. Nel testo si affastellano argomenti singolari e urgenti: dalla profezia concentrazionaria a una robusta critica all’omologazione educativa dei corpi. Ma l’operazione di Corsucci e Bernardi, che con Mine-haha hanno vinto il Premio Silvio d’Amico alla Regia (in collaborazione con Romaeuropa), va ben oltre il riuscitissimo adattamento: la potenza del racconto è filtrata da una sapiente layerizzazione di drammaturgie, dal movimento al paesaggio sonoro, dalla parola fuori campo a dettagli visivi che ricordano un’opera analoga per straniamento e temi – Picnic ad Hanging Rock: lì, come sulla scena, siamo testimoni della sparizione magica, violenta e paradossale di un corpo femminile. L’interrogazione di quel corpo cancellato, attraverso un gioco di sguardi e nudità, evoca la nostra corresponsabilità voyeuristica, senza puntare il dito: se ne esce straniati e partecipi. (A. Zangari)
Visto a Mattatoio – Romeuropa Festival. Crediti: un progetto di Marco Corsucci e Matilde Bernardi; ideazione e regia: Marco Corsucci; con: Matilde Bernardi; spazio e luci: Flavio Pezzotti; suono: Federico Mezzana; Produzione Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival – con il sostegno di TPE – Teatro Piemonte Europa
1984 (regia di Giancarlo Nicoletti)
Anche senza cadere nella trappola dei complottisti è impossibile non trovare similitudini tra il nostro tempo e quello raccontato da George Orwell in 1984, alcuni troveranno il Big Brother negli algoritmi dei social network, altri nei regimi autoritari che fanno del controllo capillare una delle loro armi, altri ancora si ritroveranno nell’impoverimento generalizzato delle lingue nazionali, in quella tensione alla semplificazione della neolingua, oppure negli annunci dei governi e nelle leggi più assurde che sembrano saltate fuori da un romanzo distopico: la gestazione per altri come reato universale, l’Albania in cui delocalizzare i migranti… Il rilancio al presente è un merito dello spettacolo visto al Quirino. Il regista, Giancarlo Nicoletti, d'altronde si è affidato al fortunato adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan del 2013. I due autori inventano (a partire dall’appendice del romanzo) un piano narrativo ulteriore, un 2050 in cui un gruppo di persone, appartenenti a un circolo di lettura, commenta quello che accadde negli anni del Partito leggendo il diario di Winston, il protagonista del racconto. La cornice di certo aiuta a creare un ponte col presente ma allo stesso tempo rischia di spiegare troppo, di evidenziare questioni già presenti nella vicenda. Siamo di fronte a una produzione importante, per numero di attori e impianto scenografico, c’è anche una stanza con il green screen e le telecamere che riprendono Winston e Julia in clandestinità, e schermi in cui le immagini vengono proiettate, non manca la voce femminile che rimanda al controllo del Grande Fratello prima dell’inizio e il sangue durante la scena della tortura: Nicoletti vuole colpire, divertire, forse un po’ scioccare, a tratti ci riesce, ma la resa generale non è sempre credibile, sia nella scenografia futuristica che nella recitazione. Appassionano Woody Neri e Ninni Bruschetta - complici anche certe leggere coloriture dialettali -, ma il cast avrebbe bisogno di una ricerca più netta sulla verità scenica, l’alternativa è la solita recitazione un po’ stereotipata e di plastica. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Quirino. Produzione Goldenart Production Adattamento Robert Icke, Duncan MacMillan Traduzione Giancarlo Nicoletti Regia Giancarlo Nicoletti Interpreti Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri e con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues, Chiara Sacco Scene Alessandro Chiti Costumi Paola Marchesin Musiche Oragravity Disegno video Alessandro Papa Disegno luci Giuseppe Filipponio
MEIN KAMPF (di Stefano Massini)
“Stefano Massini porta in scena il delirio di Hitler”, “Un vaccino contro l'ideologia nazista”, “Massini ci svela il male condiviso”, “Un vaccino teatrale contro il totalitarismo”, “È orrore puro ma è necessario”: delirio, male, orrore, vaccino…sono solo alcune delle parole più ricorrenti che si ritrovano nei titoli di giornale che parlano dello spettacolo di Stefano Massini, portato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano a ottobre e praticamente sold out per due settimane. E da Mein Kampf, scritto condannato per mezzo secolo all’oblio e solo di recente recuperato da quella pericolosissima damnatio memoriae, rievoca proprio gli stadi germinali di quell’orrore, di quel delirio contagioso che diventarono parte della Storia che conosciamo. Massini ci rivela però una verità che già si spera consolidata: Hitler non è nato mostro, era un uomo qualunque, con esperienze di uomini qualunque, eppure il potere delle sue parole, di cui ancora abbiamo paura (in paesi come Austria, Israele e Cina, il libro è ancora considerato illegale e si conservano solo poche copie per lo studio universitario) cambiò il corso della Storia per sempre. Parole intrise di rabbia, frustrazione e disillusione giovanile, interpretate da un Massini che per 80 lunghi minuti di monologo è tutto pathos e troppo se stesso per essere Hitler. Su una pedana bianca, pagina ancora da scrivere, l’autore e regista fa cadere libri, vetri e valigie di chi non c’è più e rumori assordanti cercano di scuotere alcuni di noi dal torpore di una narrazione poco originale, perché reitera uno stereotipo che necessita forse di cambiare forma per arrivare davvero alle nuove generazioni. “Da dove si inizia per cambiare la Storia?” recita un titolo, ma – cosa forse ancora più urgente in questa sede critica – da dove si inizia per cambiare come la Storia viene percepita? (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler, scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda, costumi Micol Joanka Medda, ambienti sonori Andrea Baggio, produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana, Foto Masiar Pasquali
UNA STANZA TUTTA PER SÉ (visita coreografica di Camilla Monga)
C’è un’opera meravigliosa di David Tremlett (nella mostra a lui dedicata dal titolo Another Step, a cura di Marina Dacci, a Reggio Emilia, presso i Chiostri di San Pietro, fino al 9 febbraio 2025). Si tratta di My Places #14, del 2019 (pastello e polvere di grafite e collage su carta). Cuce assieme un frammento di mappa a stampa e un testo fittamente scritto a mano (ma sottosopra), creando un confine che alla vista si dissolve: uno finisce nell’altro, vicendevolmente. È forse l’opera più significativa di come Camilla Monga ha lavorato con gli interpreti della MMCD Company per comporre una visita coreografica alla mostra negli spazi e fra le opere di questa collezione, dal titolo woolfiano Una stanza tutta per sé. Divisi in piccoli gruppi, e armati di cuffie audio, abbiamo letteralmente assistito a una spazializzazione dei segni, delle architetture e dei paesaggi di Tremlett nei corpi di un duo molto complice, anche energico e assai consapevole dell’inedita situazione performativa, composto da Mario Genovese e Matilde Gherardi. Gli spazî allestiti e attraversati dai due corpi sono plurali e anche molto diversi tra loro: ma è in cuffia la più vera stanza rivendicata da Virginia Woolf. Qui, voci solo femminili, piene di sussurri di canto di suoni e rumori in una solitudine che scoppia dalle orecchie direttamente fuori nelle stanze della mostra, come una estensione fisica nei corpi dei due interpreti. È quindi in cuffia che prende luogo la più vera visita coreografica, perché spazializzata in un ascolto che è indipendente dal visivo eppure indirettamente in dialogo con le opere polimateriche di David Tremlett grazie alla presenza dei danzatori. Tali opere, non sono mai un mero sfondo alla performance danzata, ma vere partiture che generano movimento, o anche più raramente vi si oppongono, in un contrappunto però sempre questionante: quale libertà? in quali corpi? fra quali muri? in compagnia di chi? Il duo ne è già una esemplificazione, ma attraverso la presenza che più gli è propria, Monga sembra restituire una vita alle opere in alcuni casi come un riflesso, una dissolvenza parallela, un possibile ulteriore inventario del mondo ordinario. (Stefano Tomassini)
Visto ai Chiostri di San Pietro, Fondazione Palazzo Magnani, Festival Aperto, ITeatri di Reggio Emilia, visita coreografica della mostra Another step di David Tremlett, performance site specific di Camilla Monga e dei danzatori della MM Contemporary Dance Company.
I PIANTI E I LAMENTI DEI PESCI FOSSILI (Annamaria Ajmone)
C’era un tempo in cui i pesci comunicavano parlandosi in modo gentile. Era un tempo lontano, non connotato dalla presenza umana. Ora, nel mondo che noi tutti conosciamo, quei pesci urlano per farsi sentire. Che ne è della risonanza della loro voce? Che ne è del loro lamento nello spazio-tempo dell’uomo? Annamaria Ajmone si fa interprete di questa vocalità assente, una vocalità forse solo perduta, e assieme a Veza Maria Fernandez Wenger ne ricostruisce la genealogia, avviando la performance prima con una gestualità fluida di ricerca – sono mani che fendono l’aria aprendola, cercando una dimensione propria in essa, di matrice più spaziale che sonora – poi con uno studio rigoroso basato sulla vocalità profondissima, che parte dal fondo dello stomaco per salire e passare fin su dalla gola, una vocalità su cui sembrano originarsi tutte le cose – quella negata alla natura e quella ritrovata dall’essere umano che cerca di riconnetervisi. Su un tappeto di pitture fossili a cura di Natália Trejbalová, Ajmone con precisione e cura continua a cercare i lamenti di chi non c’è più: lo fa con un’attenzione nuova, attraverso una relazione vocale ma anche uditiva con l’altro da sé. Così, le sue frequenze sonore si intrecciano con quelle di Veza Maria Fernandez Wenger, connotando lo spazio di presenze altre, che non appartengono al nostro tempo, ma che sono tracce, testimonianza di un passato che incessantemente torna a trovarci sotto mentite spoglie. La performance, nonostante dimostri la peculiarità e la precisione delle indagini sviluppate da Ajmone, sembra tuttavia rimanere imbrigliata in uno stadio embrionale di ricerca che necessita d’essere approfondita e scandagliata nelle sue possibilità rivelatorie, sia a livello drammaturgico che scenografico (Andrea Gardenghi).
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: danza e voce: Annamaria Ajmone, Veza Maria Fernandez Wenger, set e immagini: Natália Trejbalová, ricerca e collaborazione drammaturgica: Stella Succi, vestiti: Fabio Quaranta, disegno luci: Elena Vastano, consulenza set sonoro: Attila Faravelli, progetto web: Giulia Polenta, organizzazione: Francesca d'Apolito, diffusione: Alessandra Simeoni, produzione: Associazione L’altra
PERMANENT TRESPASS (Sanja Grozdanic e Bassem Saad)
Due donne sedute su un divano ricoperto da un telo bianco, tra un piccolo scrittoio antico e una scala che non porta a nulla, stanno ferme parlandosi in un gergo particolare, quello dell’elogio funebre. Dietro di loro il fondale è aperto, illuminata di un azzurro misto d’ambra appare l’altare della ex chiesa di Santa Maria Maggiore che è l’attuale Teatro Nuovo Montevergini. In questo luogo incredibile, che sembra un’oasi sospesa nel quartiere Capo di Palermo, prende forma il loro dialogo. Tra la poesia e la concretezza del lutto tutto è enigmatico, difficile da penetrare. La sostanza è che questo elogio funebre in cui il compianto non appare mai, nè mai viene nominato, è incerto, dilatato nel tempo, si forma man mano che lo spettacolo va avanti. Risulta difficile sentirsi coinvolti in questa scena, perchè non c’è una trama, i personaggi sono ambigui, per intere sequenze su di loro scende il buio e intervengono una terza voce narrante e proiezioni di immagini di guerra che invocano un’epoca, passata e presente, che viene definita “il Secolo Americano” iniziato nel 1948 e mai finito. Questo “secolo” ha visto sorgere moltissime guerre, quella in Afganistan, quella in Bosnia, quella in Siria. Le donne, in accordo a questo assunto ipotetico diventano via via più inclini a parlare di guerra, a ragionare in termini di oppressi e ribelli, di oppressori e dittature, di paesi dominanti e non, e il senso dell’elogio cambia. Chiamano in causa la relatività del tempo: esiste un tempo per i ribelli e un tempo per il lutto, non significa che non siano coincidenti nel tempo presente. Il tempo del compianto perdura come le guerre. Ma chi o cosa stanno piangendo non si saprà mai. Non c’è nemmeno nelle intenzioni di Sanja Grozdanic e Bassem Saad, autrici e attrici dell’opera, l’interesse a cadere nel tranello del pathos che evitano senza sforzo usando un linguaggio formale e monotonale. Relativizzando persino la fissità del testo, che cambia un poco ad ogni replica, lasciano aperte moltissime domande. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto da Sanja Grozdanic e Bassem Saad Suono Sandy Chamoun Realizzato grazie al supporto di The Curtis R. Priem Experimental Media and Performing Arts Center and Netwerk Aalst Presentato a Teatro Bastardo con il supporto di Goethe-Institut Palermo
LA SIGNORA PALERMO HA DUE FIGLIE (di Ernesto Tomasini)
“La Signora Palermo ha due figlie non è uno spettacolo, è una serata. La Signora Palermo non si va a vedere, si va a trovare. Come un'amica, una parente, una parte di voi che avevate sepolto.” (ndr)
E infatti la signora Palermo di Ernesto Tomasini ci accoglie in casa sua: una grande sala con file di sedie disposte a formare due corridoi/passerella, del Teatro Montevergini di Palermo in occasione della nona edizione di Teatro Bastardo. Dopo moltissimi anni di premiata carriera all’estero, Tomasini vuole parlare della sua città in un clima di totale accoglienza. È la star di Teatro Bastardo, è l’unico che può aprire le porte di questo festival che ha l’obiettivo duplice di ospitare e stravolgere le regole dell’ospitalità. Nessuno di noi si sentirà al sicuro mentre occupa la propria sedia; come pubblico di questa performance ibrida tra commedia e dramma siamo chiamati a contribuire alle funzioni domestiche della padrona di casa e delle sue figlie (interpretate dalla drag perfomer Caso X, alias Alex Incognito, e la stand up comedian Celeste Siciliano) e intanto siamo testimoni di un cambiamento in atto: le figlie della vetusta Palermo, afflitta da un’arretratezza importante, desiderano superarla e abbandonarla. Sono il simbolo dell’autodeterminazione ma anche del malessere. Tutto ciò che succede al di fuori della casa è attraente, seduce, crea dipendenza. Quello che rimane dentro sembra stancare persino la sua artefice che vive nella speranza di riscatto, nell’arrivo di un “gerontofilo”, qualcuno che si innamori della sua vecchiezza. Quest’opera allegorica riuscitissima in cui intervengono l’esperienza decennale del musical di Tomasini, il linguaggio della stand up comedy e l’esuberanza drag, oltre che i riferimenti popolari di ogni tipo, crea moltissima ilarità ma si porta dietro anche l’amarezza, specie per il pubblico palermitano: la difficoltà di interpretazione della signora Palermo e la fatica della nuova generazione di andare avanti, si insinua nella nostra coscienza politica e le risate si fanno sempre più acute perchè ricolme di disagio. fg (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto e diretto da Ernesto Tomasini Con Ernesto Tomasini, Caso-x e Celeste Siciliano Con Ryuki Costumi e scenografie Caso-x ed Ernesto Tomasini Assistente regia Sabrina Artelli coprodotto da Teatro Bastardo e Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino con la collaborazione di Goethe-Institut Palermo
TRACHINIE (regia di Walter Pagliaro)
Deianira è un personaggio in attesa, come spesso capita alle donne del mito greco. Attende il suo sposo, Eracle, il potente, l'avventuriero, quello delle fatiche, il semidio. Le Trachinie tra le tragedie di Sofocle è una delle meno rappresentate, Walter Pagliaro la illumina con passione, intelligenza e mestiere in un allestimento andato in scena al Teatro di Documenti. Talvolta gli astri si allineano: il regista è un depositario della tradizione strehleriana, ma con Giorgio Strehler lavorò anche lo scenografo Luciano Damiani prima di scavare nel Monte dei Cocci di Testaccio un teatro che è una sorta di utopia - il Teatro di Documenti, appunto, una ricerca architettonica in cui allargare in confini della ricerca teatrale. Pagliaro sfrutta due dei piani disponibili: scendiamo le scale per arrivare allo spazio scenico -1 dove troviamo un telo in plastica nero che delimita la scena e si allunga fino alle scale sul fondo, sopra le nostre teste una rete di fili rossi da cui pendono alcune lampadine, occupiamo i tre lati disponibili della platea. Qui si muoverà la Deianira di Micaela Esdra, anch'essa custodisce una tradizione che sta scomparendo, che le permette un'ampia tavolozza di colori vocali. Qui ogni parola è pesata, scelta nel suo significante recitativo, nelle sue levigature. Efficace anche Fabio Maffei nel ruolo del figlio, in grado di consegnare al pubblico una performance di rara intensità. Il coro, sempre grande interrogativo per la regia, è risolto nella bella prova, spesso all'unisono, di Cristina Maccà e Valeria Cimagli. E poi Fabrizio Amicucci ed Elisabetta Arosio, araldo e nutrice in un recitare anche in questo caso generoso e preciso. Lo spazio di Damiani qui riscopre il proprio statuto di luogo del mistero, scendiamo nella profondità del mito per ritrovarci in una piccola sala, come di fronte ad un altare catacombale, discepoli fortunati di un rito in via di estinzione. Deianira si era tolta la vita per grottesco dolore, ora di fronte a noi, con un colpo di teatro, c'è Eracle, ma sulla sgangherata sedia a rotelle il corpo e la voce trasformati di Micaela Esdra, in un suggestivo gioco del doppio tutto novecentesco. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro di Documenti. Regia Walter Pagliaro. Con Micaela Esdra, Cristina Maccà, Fabrizio Amicucci, Elisabetta Arosio, Fabio Maffei, Valeria Cimaglia. Spettacolo itinerante. foto Mattia Simoncelli
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