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Cordelia - le Recensioni

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VICE’ (regia di Eugenio Patanè)

Una corsa spasmodica verso il baratro della scena madre conclusiva: parliamo di Vice', di Eugenio Patanè, con Luana Toscano ed Elmo Ler, dramma sul quale poco altro è da aggiungere. Si è appena conclusa l'ottava edizione di Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali nella cittadina catanese di Zafferana Etnea, dove abbiamo avuto modo di confrontarci, appunto, con questo accorato corto teatrale. La valorizzazione di tale formato (qui inteso come una performance di circa quindici minuti) risponderebbe alle caratteristiche del contemporaneo: brevità, incisività, varietà di contenuti. A questo "genere", ancora orfano di una distribuzione strutturata, TR8 ha voluto offrire uno spazio sia fisico che di discussione. L'indecisione, forse anche l'incoerenza, delle scelte programmatiche ha fatto sì che il dibattito, animato da una numerosa giuria, si sia concentrato su alcuni temi trasversali, in qualche modo divenuti esemplari di questioni più ampie: lo stato di salute dell'attuale drammaturgia, il confronto con la proposta internazionale, i limiti e i pregi della gestione di un festival nelle realtà più marginali. Sul primo piano, il TR8 ha rilevato una carenza effettiva. Tutti gli spettacoli di prosa, siciliani (ad eccezione dello Zoe di e con Sara Baldassarre, l'unico valido, cui è andato la menzione della Commissione stampa e della Commissione giovani), sono stati ammorbati da indiscutibili carenze narrative e registiche, tra le quali gli interpreti si sono mossi con non poche difficoltà motorie, spaziali o addirittura respiratorie. In Vice', ad esempio, il problematico rapporto tra madre e figlio procede con strazio tra episodi dialogici di misura poco ponderata. Lo sviluppo narrativo avanza a strattoni, nello sforzo di una sintesi irrisolta: sarà stato difficile imbottire questo corto di tutto il pathos che la compagnia forse reputava necessario. Alla platea nazionale si è offerto uno spaccato impietoso della proposta insulare, dove pure è possibile trovare lavori di più significativa e riconosciuta originalità. Locale e provinciale sono due concetti non coincidenti ed è bene considerarli distinti, soprattutto se si opera in un'ottica di "valorizzazione del territorio".

Visto a Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali, Teatro Falcone e Borsellino, Zafferana Etnea (CT), Zafferana Etnea. Crediti: Drammaturgia di Luana Toscano, Regia di Eugenio Patanè, Interpretato da Luana Toscano, Elmo Ler e con la partecipazione di Eugenio Patanè, Prodotto da Gruppo ELE.

EXISTENZ (di Wihad Suleiman)

Quando si pronuncia il termine “esistenza” si intende generalmente un sinonimo di “vita”, ossia la precondizione necessaria dell’essere al mondo. Tuttavia – la realtà è sempre più complessa – sembrerebbe più completo raffinare la definizione attraverso i riferimenti al contesto entro cui essa si manifesta: è la stessa esistenza quella in tempo di pace o in tempo di guerra? Ha la stessa qualità l’esistenza agiata rispetto a quella al limite della sopravvivenza? La drammaturga araba-tedesca Wihad Suleiman porta luce su questa Existenz, in prima mondiale alla Sala Assoli per la regia di Lydia Ziemke, intesa come condizione esistenziale di quattro personaggi (Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran, Alois Reinhardt) immersi in una dimensione spaziale ridotta, un quadrato di terra suddiviso in rettangoli sequenziali, fosse da cui ognuno fa emergere la propria storia; appeso al centro è un enorme orecchio azzurro nella penombra, come se l’udito sostituisse la vista, indagata con una torcia che viola di ognuno l’intimità. La guerra ha ridotto in memoria la loro vicenda, nel passato qualcosa si è incagliato prima di diventare presente: ogni personaggio lamenta ciò che ha perduto, o non accetta di perdere, trascinato via dalla guerra come un grande tsunami. Ostinati suoni di chitarra elettrica rendono cupa l’atmosfera, i monologhi intrecciati – prima tradotti in cuffia assieme a dei suoni ambientali, poi con sovratitoli – cercano una pace che non c’è, un motivo tra le deliranti paure e il tradimento della speranza, finché l’uscita dalle fosse crea un’interazione imprevista, un sostegno, un senso profondo di solidarietà. La scena acquista un’aria post-apocalittica, il testo, ora restituito in una lettura a leggio, entra via via in una dimensione poetica più eterea e meno concreta, frutto di una frammentazione drammaturgica che non aiuta la comprensione unitaria della vicenda; ma, viene da dire, non sono che gli effetti della violenza efferata, il delirio frammentato di chi è costretto a chiamare “esistenza” ciò che, forse, non lo è più. (Simone Nebbia)

Visto al Campania Teatro Festival, Napoli. Crediti: Con Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran E Alois Reinhardt; Regia Lydia Ziemke; Testo Wihad Suleiman; Scene E Costumi Claire Schirck; Co-Creazione Palcoscenico E Costumi Raffaëlle Bloch; Drammaturgia E Traduzione Christopher-Fares Köhler; Sound Design E Direzione Tecnica Nils Lauterbach; Musica Nils Lauterbach & Mohamad Al Rashi

HANSEL E GRETEL (di Michele Losi)

Tutto inizia ai margini del bosco, come spesso accade in una fiaba. Solo che stavolta l’ingresso non è una metafora, ma proprio concretamente bisogna entrarci quando si viene chiamati: “Venite bimbi!”, dice una voce tra gli alberi, mentre una signora in coda ci pensa su e risponde, rivolta forse verso sé stessa: “Tanto tempo che qualcuno non mi chiamava bimba…”. Inizia così, Hansel e Gretel di Michele Losi a Sebastiano Sicurezza, un’esperienza di teatro immersivo e itinerante, appunto, nel bosco di Campsirago per Il Giardino delle Esperidi Festival. Il paesaggio, prima di tutto, notturno del bosco, offre la condizione ideale perché le sfumature della fiaba dei Grimm sviluppino il proprio carattere più oscuro, anche in virtù del fatto che l’ambiente visivo è sostenuto dalla creazione di un ambiente sonoro che, attraverso le cuffie offerte in dotazione ai partecipanti, ne esplicita l’intenzione. Il bosco dunque, habitat per eccellenza della fiaba, è allo stesso tempo luogo effettivo sempre ricco di nuovo spazio d’azione e metafora della paura onirica che raccoglie i diversi tempi dell’essere umano in uno solo, comprimendo passato e futuro in un presente magmatico e sospeso. Il testo è ricco di azioni e oggetti che compaiono e scompaiono velocemente, lasciando che l’apparizione generi fin da subito una percezione già memoriale; ognuno dei momenti che si succedono nella drammaturgia lascia intravedere una particolare delicatezza poetica che accentua la dimensione onirica. Un amuleto, consegnato all’inizio del percorso, segnerà il legame tra la partecipazione e la vera e propria immersione, cui dona un carattere ancora più profondo il profumo delle piante emanato dalle poche gocce di pioggia che entra prepotente nella drammaturgia. Nel bosco la necessità e il desiderio, fin quasi alla brama, si mescolano tra le offerte della strega e il fuoco accogliente per scaldarsi; i sassolini segnano la strada luminosa per uscire, infine, nel sentiero catartico del proprio futuro. “Sarebbe più bello non sapere”, dicono i due bimbi. Ma sapere, in fondo, è già diventare. (Simone Nebbia)

Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival, Campsirago. Crediti: da un’idea di Michele Losi, Sebastiano Sicurezza | regia Michele Losi | drammaturgia Sofia Bolognini, Sebastiano Sicurezza | con (in alternanza) Barbara Mattavelli, Benedetta Brambilla, Giulietta De Bernardi, Sebastiano Sicurezza, Stefano Pirovano | suoni Luca Maria Baldini, Diego Dioguardi| supervisione alle azioni e scene Anna Fascendini | costumi Stefania Coretti | produzione Campsirago Residenza | con il sostegno di NEXT – Laboratorio delle idee per la produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo – Edizione 2021/2022

DISADIRARE. UN’ALTRA ILIADE (regia di Adriana Follieri)

Se c’è qualcosa da amare nel teatro, la possibilità di osservare l’attore cambiare nel tempo è una di quelle cose. Nella cornice del Campania Teatro Festival, a distanza di un anno, ritornano sul palco i ragazzi dell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola insieme alle studentesse dell’I.I.S.A.M De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti; nella delicata riscrittura dell’Iliade, Adriana Follieri ha in mente di poter mettere in scena una crescita formidabile. E ci riesce. Ci riescono tutti e tutte. Seguendo la legge che vietava la diretta messa in scena di violenze e traumi, dal racconto epico viene completamente estirpato qualunque intento celebrativo della guerra come affermazione di sé. Non esiste alcuna vittoria, bensì la disperazione della possibilità che questa prenda forma nel dolore e nelle disgrazie. Lo spazio (costruito da Pino Beato) non ha alcuna pertinenza fisica, poiché non deve contenere corpi, ma idee. Dei pesanti blocchi vengono disposti per ordinare i movimenti in giri perpetui e marce senza fine; potrebbero essere dei blocchi di marmo in cui fermare gli eroi nell’immagine che a loro apparterrà per sempre, e invece quei giovani corpi li usano per ergersi ed esporsi. In scena non sono concepiti movimenti isolati e solitari, ma sono lunghi andamenti collettivi, complessi proprio in virtù del fatto che vanno compiuti in totale armonia col ritmo delle presenze vicine. L’unico elemento farraginoso, è la persistenza in diegesi delle musiche (originali di Luca Caiazzo) che rallentano eccessivamente l’azione più che accompagnarla. Poteva essere tutto ovvio, tutto tristemente già visto, e invece è stata compiuta un’operazione di ricostruzione del senso delle immagini molto significativo. È doveroso spendere poche parole (saranno sempre poche) su quei ragazzi aiutati una buona volta ad essere padroni di ciò che vedono in sé stessi, a sforzarsi di esperire, come tutti, sempre nuove esistenze: non più ignari caratteristi, macchiette succubi del divertimento altrui, ma attori.

Visto a Teatro Trianon Vivian; Crediti, Con i giovani attori dell’Istituto Penale per minorenni di Airola e le studentesse dell’I.I.S.A.M. De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti e con Gianluigi Signoriello e Paola Maria Cacace; Drammaturgia Adriana Follieri in collaborazione con Fabrizio Nardi; Regia Adriana Follieri; Musiche originali Luca Caiazzo; Disegno luci Davide Scognamiglio; Scene Pino Beato; Foto Sabrina Cirillo; Produzione CCO – Crisi Come Opportunità.

BASTARDO. CHI HA PAURA DELL’UOMO NERO (di Carlo Massari)

Carlo Massari, performer e fondatore della compagnia C&C, riporta ancora una volta al centro Corpo e Cultura nell’ultima creazione presentata ad Attraversamenti Multipli. E se FARSI CORPO, il laboratorio che ha condotto all’interno del festival abita ed entra in dialogo con la natura urbana del Parco di Torre del Fiscale (qui, l’articolo della RE.M che ne racconta l’esito performativo), Bastardo entra in dialogo col presente più prossimo del quale lo spettatore è parte integrante. Il format si auto propone/impone di aspettare un tempo molto breve prima della performance così da costringersi a dialogare con il qui e ora: rispondere all’idolatria post mortem di Silvio Berlusconi, due settimane dopo la sua morte, ad esempio. Se l’arte dal vivo contemporanea continua ad avere meccanismi di produzione e distributivi che impongono - nei migliori dei casi - una visione in differita della creazione degli artisti sul reale, l’idea produttiva di Bastardo è basata invece su una costruzione di materiale semi/improvvisato legato strettamente a tematiche sensibili della contemporaneità. Capita allora, il 29 giugno 2023, di assistere al corpo di Carlo Massari piegato dalle barzellette sulla propria morte di Silvio Berlusconi; di consumare il “menomale che Silvio c’è” sulle note della Passacaglia della vita, perché “bisogna morire”; di esasperare il “presidente noi siamo con te” in una coazione a ripetere durata decenni; di vedere alcuni spettatori alzarsi; di interrogarsi sul cadavere caldo della decenza; di chiedersi se politicamente scorretto sia la sigla di Forza Italia per la coreografia o l’esaltazione alla quale abbiamo assistito, fino all’elogio funebre in ginocchio. Carlo Massari si fa Bastardo per parlarci di noi in un’intuizione riuscitissima che fa scivolare la ricerca puramente fisica in quella politica, muovendo verso il presente qualunque muscolo possa essere usato. Coreografia e cronaca, partitura fisica e critica sul presente non erano mai stati così vicini. (Luca Lòtanowww.lerem.eu)

Visto a Attraversamenti Multipli. Crediti: Carlo Massari / C&C Company Produzione: C&C company, Coproduzione: Margine Operativo

RELIC (di Euripides Laskaridis)

Straordinario e travolgente, il greco Euripides Laskaridis ha presentato, allo Studio 3 del CN D di Pantin, il suo famoso assolo Relic (2015). Una figura trasfigurata nell’anatomia da gommapiuma e larghe protesi, interamente fasciata di collant, abita la scena non come l’utopia di un corpo futuro, ma come reliquia, relitto, retaggio, se non addirittura cimelio, di qualcosa che sopravvive e resiste dal passato: «A thing left behind, be it memory, object, language or being». Questa cosa ‘lasciata indietro’, che come la morte livella ogni gerarchia di valori fra parole, cose ed esseri viventi, torna neo-zombie in un processo trasformativo di resistenza al tempo della cancellazione e dell’indifferenza. E sembra non dover rispondere a nessuno, talmente alto è il mimetismo con il circostante, la presa sulla forza del passato. È un lavoro generato come risposta alla crisi greca di quegli anni, e mette alla prova i confini di ogni norma contro le ideologie rassicuranti sulle sorti progressive del futuro. L’atmosfera domestica di una casa (con tanto di pianta salottiera e wc neoclassico) qui viene letteralmente fatta saltare. Con i mezzi del cabaret e del vaudeville, in una fisicità sfrontata piena anche di humor nonmeno che di (finti) pudori, tutti da primo piano, come una sacerdotessa acrobata, una fattucchiera arcaica o una pitonessa da speculative fiction. Tutto è ribaltato, e riscattato, financo il tempo della vita. La performance di Laskaridis è piena di bizzarrie e anche di chincaglierie, di trovate in sequenza a disposizione di un immaginario domestico, da ‘teatro fatto in casa’, pure selvaggio, artificiale, per accumulo. Alla fine, l’impressione è che non manchi proprio niente. Quel che resta è già tutto quel che serve per destabilizzare dogmi e norme. Come nella retrotopia descritta da Bauman, andare a ritroso con il passato può trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. (Stefano Tomassini)

Visto al CN D (Pantin/Parigi). Director, choreographer, set designer and performer, Euripides Laskaridis; Artistic collaboration, Tatiana Bre; Dramaturgy consultant, Alexandros Mistriotis; Costumes, Angelos Mentis; Sound design, Kostas Michopoulos; Sound installation & live operation, Kostas Michopoulos, Giorgos Chanos, Nikos Kollias, Kostis Pavlopoulos.

JÉRÔME BEL (di Jérôme Bel)

È incredibile che siano passati quasi trent’anni. Faccio fatica a tenerne il conto (oggi, poi, che tutto ci ha segnato...). Jérôme Bel di Jérôme Bel, che è del 1995, è riapparso intatto, in tutta la sua forza (e retorica) nel programma del camping estivo del CN D di Pantin a Parigi. Il seminale lavoro di Bel, qui anche con due degli straordinari interpreti originari (Frédéric Seguette e Claire Haeni), risente della lettura di Le Degré zéro de l’écriture, e ammicca evidente al Barthes di Roland Barthes. Cinque corpi nudi fanno a pezzi le strutture verbali e i significanti che sorreggono il dispositivo teatrale, con l’uso soltanto di una lampada (con un effetto perenne di grotta platonica), la voce che solo canticchia (brani, credo, della Passione di Matteo) e la scrittura che designa (i nomi) e trasporta (i significati attraverso i significanti) anche per cancellazione (così della scritta JOHANN SEBASTIAN BACH non resta leggibile che ABBA, e sùbito parte Dancing Queen). La richiesta di una scena senza gerarchie estetiche e coercizioni culturali, la ricerca inesausta di un neutro possibile (ma che resta simbolico) capace di giustizia, è sapientemente inseguito (e assorbito) non senza l’uso di forti metafore e inevitabili allegorie. Tuttavia ciò che maggiormente, alla fine, sorprende in questa evidenza tutta ragionamento sul come e sul cosa dei meccanismi della performance, riconosciuti e smontati ed esposti, è che non crea nostalgia alcuna. L’ultimo interprete compare in scena di tutto punto vestito, per partecipare al meccanismo che lo celebra, giusto il tempo per gli altri performer di uscire di scena, e lasciarlo solo, per gli applausi finali. Dopo trent’anni, tutto accade di nuovo ma nel tempo allenato della memoria, senza l’oblio necessario al sentimento della nostalgia. Come per quei saggi critici, fondamentali e formativi, che una volta bene assimilati e resi operativi, alla rilettura risultano poi freddi e frenanti, incapaci di deriva. (Stefano Tomassini)

Visto a Les Laboratoires d’Aubervilliers (Pantin). Crediti: di Jérôme Bel, con Éric Affergan, Yaïr Barelli, Michèle Bargues, Claire Haenni, Frédéric Seguette.

DOVE HANNO TREMATO LE PLACCHE (di Valerie Tameu)

Valerie Tameu, autrice e performer italo camerunense, spiega il processo di Dove hanno tremato le placche, mentre si asciuga il sudore, riprende fiato, in dialogo con la studiosa e ricercatrice Ilenia Caleo che, rispettosa del tempo di “ritorno alla realtà” a fine performance, inizia a impostare l’esaustivo talk tenutosi tra i "resti" splendenti di questa prima apertura del lavoro; prodotta da Spazio Griot e ospitata al Mattatoio La Pelanda, dove martedì si è conclusa la rassegna Rifrazioni curata da Johanne Affricot. «Quando ho iniziato a disseminare le foto di famiglia per casa, mi sono resa conto che avevo già riempito tre stanze». L’indeterminatezza fluttuante propria alla natura della performance è qui “vestita”, letteralmente, dalla concretezza delle azioni e dalla tangibilità degli oggetti: l’archivio di blackness sulla storia della migrazione della famiglia di Tameu viene incorporato, prima indossandolo – la performer si aggira sui pattini ricoperta di strati di vestiti trovati negli armadi – e poi spogliandosene, per iniziare un gioco di memory con quelle stesse foto posate sul tavolo, poi sul corpo, viso, capelli. «La componente visiva dell’archivio non bastava, dovevo poterla maneggiare, perciò l’inserimento del sonoro è stato determinante per creare una narrazione del materiale». Tra i suoni, sia gli estratti documentari dell’omicidio di Jerry Essan Masslo (1989), che diede rilevanza mediatica alla violenza razzista e allo sfruttamento imposto dal caporalato nel Sud Italia, che quelli delle lotte operaie alla Fiat Mirafiori. Riprendendo il titolo, le placche tremano: la geografia delle stratificazioni di memoria, come quella terrestre, muovendosi giustappone archivi personali e collettivi in un’opera di costruzione e decostruzione compiuta dalla performer che, con il tocco deciso ma delicato di una racchetta da tennis, attiverà un effetto domino in grado di disintegrare il monumento/monolite rifrangente al centro della scena. (Lucia Medri)

Visto a Rifrazioni Spazio Griot Crediti: di e con Valerie Tameu, frutto della residenza artistica di SPAZIO GRIOT in collaborazione con Fondazione Polo del '900, Foto di Andrea Pizzalis

IO ERO IL MILANESE (di Mauro Pescio)

Accade raramente, ma accade quando la purezza e la genuinità di un racconto oltrepassano gli strumenti necessari a diffonderlo. Perché Mauro Pescio, autore del podcast Io ero il milanese, appena premiato come documentario dell’anno e che vanta oltre due milioni di ascolti, avrebbe potuto godersi questi frutti e invece ha scelto ora di adattarne una versione teatrale, non per spremere la materia finché si può, ma perché questa storia ha bisogno di presenza, ascolto dedicato, vicino. Insomma, di teatro. È una storia di criminalità che il protagonista, incontrato la prima volta nel carcere di Padova, racconta liberamente: il podcast è reso in frammenti, Pescio lo dirige dal palco e, aiutato da alcuni disegni proiettati sul fondale, commenta, determina, approfondisce quanto la viva voce off di Lorenzo S., questo il nome, può esprimere della propria vita. Si genera presto una partecipazione nel pubblico, offerta dalla forma dialogica, che permette di essere, sentirsi, dichiararsi presenti mentre gli avvenimenti si stringono attorno al protagonista. Io ero il milanese, il verbo è declinato all’imperfetto. Questa è infatti una storia da dopo, raccolta in un tempo in cui Lorenzo, che assunse il titolo onorifico criminale de Il Milanese, ha già compiuto i passi necessari all’emancipazione da una vita rimasta alle spalle; e con essa la reclusione, le conseguenze nefaste che le scelte – o non scelte – hanno determinato. In precedenza il senso di avventura, l’ebrezza, l’adrenalina del gesto criminale lo hanno nutrito, tanto da fargli accumulare una lunga punitiva condanna, finché grazie al lavoro, l’amore, la solidarietà, così come proprio la fiducia nel racconto, tutto è cambiato. Ma questa non è una storia morale, nel definire gli eventi della vicenda l’intenzione di Pescio è ben lontana dal giudizio su uno stile di vita, quella del protagonista più che una redenzione è l’effetto di una crescita interiore che, nata dall’odio per sé stesso, per sé stesso ha scoperto l’amore.(Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di Mauro Pescio e Lorenzo S; con Mauro Pescio; grafiche di Lorenzo Terranera; produzione Raiplysound

LA MANO SINISTRA (di Industria Indipendente)

Secondo l’inveterata tradizione, canonizzata nel Vangelo di Marco (XXV, 32) il Figlio di Dio siede alla destra del Padre. Lì, pare, la realtà si offre particolarmente nitida allo sguardo, tanto da poter sentenziare “E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra” e ancora “[…] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. A sinistra, dunque, le fiamme della dannazione, fragore di corpi e anime liquefatte, lo scarto magmatico di una pulsione ordinatrice che, appunto, discrimina, segrega. Immaginiamo un paesaggio dove ogni cosa, liquefatta com’è, potrebbe sconfinare anche in altro. Industria Indipendente, aka Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, riparte dalla progettazione di un paesaggio eccentrico, disegnato con La mano sinistra, quella del demonio, così come lontano da ogni centro era quel locus remoto di Klub Taiga, un po’ club, un po’ distesa boreale. Ci troviamo in sala come a sbirciare nella penombra alla fine di una festa, quando alcun* si ostinano a bisbigliare e ondeggiare fuori orario, mentre i più hanno svuotato lo spazio. In quell’atmosfera da balera anni ’70, densamente kitsch e misteriosa, un impasto di luci e suoni domina il linguaggio, distorce la vocalità, ubriaca il movimento. Quella de La mano sinistra non è una scrittura sopra le righe, né tra le righe, piuttosto è una pagina squassata, un palinsesto murale underground dove ogni autorialità è complice nello squattare l’architettura scenica. Come epifanie intermittenti si stratificano la coreografia trasognata di Annamaria Ajmone, la scrittura ipnotica di Galli e Ruggeri, il sound immersivo e straniante di Ruggeri, Iva Stanisic e Steve Pepe, le architetture luminose sempre impeccabili di Luca Brinchi, la presenza magnetica di Silvia Calderoni, ringmistress immaginifica e suadente. Echeggiando parole e metodi di Klub Taiga, La mano sinistra non ne costituisce però un secondo capitolo, così come non si danno indice e sinossi nei sogni, piuttosto un B side, che ricopre la stessa superficie del lato A, è fatto della stessa materia, ma emana un suono diverso. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro India. Testi e regia Industria Indipendente (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri); arrangiamenti musicali Steve Pepe, Iva Stanisic, Martina Ruggeri; luci e video Luca Brinchi, Erika Z. Galli; con Annamaria Ajmone, Silvia Calderoni, Martina Ruggeri, Iva Stanisic

L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA (di Emanuele Aldrovandi)

In un tempo pressoché indefinito e dalle tonalità neutre, ma così simile al nostro, un’epidemia virale che trasforma gli esseri umani in tacchini costringe l’umanità all’isolamento domestico. Salvo emergenze eccezionali e mansioni quotidiane necessarie, a nessuno è consentito uscire dal proprio confine abitativo, nemmeno per un po’ di jogging. È questo l’ingranaggio che aziona la macchina scenica e drammaturgica del lavoro di Emanuele Aldovrandi: il cortile interno di un palazzo, rievocato negli ambienti metallici di Francesco Fassone al pari di una cella, è il luogo di scontro tra le posizioni morali di un colorito vicinato. L’opposizione tra coppie, Mario e Andrea, Giulia e Anna, è lo strumento di innesto tra i dialoghi, che pongono la questione sul rispetto delle norme, sul bene pubblico, sulla fine del mondo, sulla speranza nel futuro. Le conversazioni tra i condomini si sviluppano così attraverso una verbosità schietta e concitata, tramite incastri di domande-risposte e si susseguono nell’evocare riflessioni, immagini, parole di un lessico che rivela soprattutto il suo sostrato traumatico (contagio, positivi, restrizioni). La scrittura apparentemente semplice di Aldovrandi, ma in fondo di una complessità rara e precisamente calibrata, chiede però allo spettatore di prendere parte a questo dibattito, perché testimone “neutro” delle argomentazioni trattate. E lo spettatore - che siamo noi in sala, noi che quelle fratture di moralità e pensiero le conosciamo bene, noi che quel periodo di isolamento l’abbiamo vissuto sulla pelle - finisce per immedesimarsi, cambiare punto di vista, facendo vacillare la propria presa di posizione, comprendendo la problematicità delle riflessioni di ognuno. È chiara, qui, l’intenzione dell’autore e regista di raccogliere le diverse visioni e di «spingerle alle loro più estreme conseguenze, non de-costruendole col tipico approccio post-moderno, ma piuttosto iper-estendendole, fino al punto di rottura, o al paradosso». E nel paradosso, abitando nuovi confini, queste visioni respirano e sopravvivono, anche alla inevitabile trasformazione collettiva di uomini in tacchini. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: testo e regia Emanuele Aldrovandi, con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi, con la partecipazione vocale di Elio De Capitani

L’UNIVERSO NELLA TESTA (di D.Ninarello, C.Donà, S.Lanza)

«Dentro a una vertigine che danza» vorticano nelle onde vocali le parole di Universo della cantautrice Cristina Donà nell’Arena del Teatro India. Sul palco bianco, vestita di nero con due punti di luce al lato degli occhi, è una visione che ci incanta e canta di altri spazi, di orbite planetarie, di protoni che si incontrano, amorevolmente. Tra il pubblico di Fuori Programma Festival, alcuni intonano sommessamente i testi delle sue poesie, dark metropolitano da sempre un po’ stellare, che ora dialoga con la danza del coreografo Daniele Ninarello e la ricerca sonora della voce, chitarra e live electronics di Saverio Lanza, già produttore e collaboratore di Donà. L’Universo nella testa è una galassia creativa inedita, una triade nata per caso nel progetto Perpendicolare, durante una residenza che gli artisti stavano svolgendo singolarmente a Fabbrica Europa. Ma torniamo all’inizio, quando i corpi dei tre performer “sono caduti” a terra o seduti, e di spalle alla platea, Ninarello ci invita a sentire proprio la nostra materia, la nostra fisicità. Con un verso di Siamo vivi, poco dopo Donà, capelli al vento e occhi socchiusi, chiederà «Da quanto non ascolti il tuo silenzio?». E anche se alcuni di noi vorrebbero alzare la voce sull’incedere affannato di Triathlon, quell’energia da concerto, dopo sollecitata dalla cantante, si traspone, mimeticamente, nell’osservazione della danza di Ninarello che, muovendosi intorno alle due figure musicali, delinea una coreografia di raccordo impostata sui moduli che contraddistinguono la sua cifra di geometrie flessuose: corse, salti, braccia agitate come fendenti, pugni, smorfie anche, rotazioni, le quali si intersecano ai glitch sonori e campionamenti. «È così chiaro se ci pensi, noi che siamo niente, divinamente nell’eterno» dice il brano L’infinito nella testa, e nell'elegante forma di questo ensemble, tutto viaggia nella connessione di infinitesimali frammenti di voce, suono, gesto condivisi, imitati, che si aprono alla vastità dell’emozione, del ricordo, e scende la luce sul solstizio d’estate. (Lucia Medri)

Visto a Fuori Programma Festival Crediti: Voce e chitarra: Cristina Donà; Coreografia e interpretazione: Daniele Ninarello; Piano, chitarra, elettronica: Saverio Lanza; Produzione: Fondazione Fabbrica Europa, Associazione CodedUomo, Foto di Giuseppe Follacchio

MOLTO DOLORE PER NULLA (di Luisa Borini)

Ha un abito rosso, semplice, che le cade giù sul corpo; sembra un abito per un appuntamento senza troppe aspettative, o per mille appuntamenti diversi e tutti uguali, in cui essere bella, avere l’ansia, portare pene e disordini e incontrarsi con qualcuno che possa, chi lo sa, fonderli insieme. L’attesa di un appuntamento, sembra questa l’immagine entro cui inizia il Molto dolore per nulla di Luisa Borini: lei sola in scena, circondata di led e di tutti quanti gli uomini che ha incontrato e che presenta in una lista, seguendo un ordine da stand up comedy, attraverso una recitazione frontale, divertita, che fa partecipare la platea al proprio disagio, corredando la propria narrazione sulla “lista di fidanzati” con estratti di canzoni celebri che ricalcano uno stereotipo amoroso. Eppure, tra le mani ha un microfono con il filo. Ed è allora che tutto cambia. Il racconto brillante pian piano le si stringe attorno con il filo del microfono, è ciò che le dà la parola ma allo stesso tempo è l’elemento che la incatena: l’incontro con il fratello del suo coinquilino di Bologna, un ragazzo incredibilmente bello, interessante, avventuroso, premuroso, ma che via via si trasforma in un mostro che le toglie dignità e libertà di essere sé stessa, che la convince di essere una nullità, annienta le sue necessità accecato da una gelosia soverchiante. La leggerezza della prima parte, dunque, non è che una deviazione illusoria rispetto all’obiettivo finale: l’amore può trasformarsi nel suo opposto e raramente ci si accorge mentre accade, o forse sì, ma per vergogna si nega. Borini, al primo testo e prima regia, interpreta una storia semplice, diretta, capace di una linearità strutturale, che di certo è alla ricerca di una approvazione e ciò mitiga un necessario conflitto scenico, ma pur timidamente appare una riflessione che sembra il punto nodale: tra essere e sentirsi sbagliata c’è anche la scoperta sorprendente del proprio ruolo in una storia in cui si è vittima ma in cui, allo stesso tempo, è tanto difficile accettare la propria responsabilità. (Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di e con Luisa Borini

Speciale Inteatro Festival 2023

Da decenni Villa Nappi è il cuore della ricerca performativa marchigiana: spazio residenziale e apertura internazionale con lo storico festival Inteatro. Alle spalle c’è il tric, Marche Teatro, diretto da Velia Papa che nella rassegna estiva vede la possibilità di sperimentare i nuovi linguaggi anche attraverso le visioni e le poetiche di giovani artisti. Quest’anno ad esempio Inteatro ha aperto un bando dedicato ad opere site specific che incontrassero il tema della salvaguardia ambientale. Lo spazio pubblico all'aperto si è così popolato di immagini, corpi, scritture coreografiche in cerca di una relazione con il parco che circonda la villa ottocentesca. E poi il Teatro della luna, spazio scenico atipico per nascita e conformazione: la struttura ricorda quella di un palazzetto dello sport (con l’ultima ristrutturazione hanno sistemato dei pannelli fonoassorbenti che scendono dal soffitto come una sorta di installazione permanente) e fu costruito nel 1982 con la collaborazione del Teatro Valdoca, all’epoca giovane compagnia.

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