Questa recensione fa parte di Cordelia di maggio 25
Nello spazio di Z.I.A (Zona Indipendente Artistica), Debora Benincasa si mostra con parsimonia. Inizia il suo monologo, intitolato Lady Macbeth. God save the Queen, dentro una struttura lignea – che diventerà leggio, secretaire, letto, trono – da cui fa emergere ora una mano, ora un tacco, ora il volto, piagato da un’insopprimibile noia, e infine il corpo, modellato in un abito anni ’20, con paillettes da flapper e diadema Art Déco. Ci inchioda con lo sguardo, mentre oppone a tutto ciò che le si posa davanti un sarcasmo zoologico: chiama le serve «piccole ermelline scaltre»; vede negli occhi del marito «padelle da opossum bastonato»; sogna, per il proprio martirio, l’accoppiamento con una mantide religiosa. La scrittura di Benincasa declina variamente il disgusto di Lady Macbeth di fronte all’inerzia del mondo e ne arricchisce la foga e la scaltrezza, desunte da Shakespeare, con una brama da esteta dannunziana, in corsa verso il raggiungimento orgastico del potere. «Non amo che le rose che non colsi», scriveva Guido Gozzano, e così anche lei, una volta raggiunto l’apice del prestigio, prova insoddisfazione contemplando il suo reame: «La vista – ammette – è uguale a tutte le altre». Nel finale, se, da una parte, il racconto dei traumi infantili di Lady Macbeth sembra rispondere frettolosamente alla tendenza contemporanea di rileggere le grandi cattive come ex-buone tradite nell’amore e nell’innocenza (si veda alla voce Maleficent), dall’altra è molto affascinante, coerente e ben preparato il passaggio della regina dal bovarismo estenuato delle prime battute, che vorrebbe cogliere in fallo i propri servitori per provare il brivido di punirli, al suo desiderio di essere sfidata, combattuta e consumata da sudditi – e, in un sottile ribaltamento metateatrale, da spettatori – troppo compiacenti perfino per scongiurarne il suicidio. (Matteo Valentini)
Visto allo Z.I.A. di e con Debora Benincasa co- regia e ricerca movimenti Simone Ceccobelli scengorafia Adele Gamba costumi Simone Randazzo Suono e voci Martino Scaglia e Flavia ChiacchellaLighting designer Andrea Gagliotta produzione Anomalia Teatro