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Le armi della finzione secondo Lubitsch

Comicità come inganno: una riflessione sul film Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch.

Carole Lombard (Maria Tura)

Questione cruciale, in teatro, nella vita, al cinema, è quali ruoli e scene e spazi prendersi e come. Anche, da che parte stare. Volendo: “se sia più nobile sopportare gli oltraggi o prender le armi per combatterli”. Proprio To be or not to be suona il titolo originale di Vogliamo vivere! (1942) di Ernst Lubitsch. È una commedia, tra le più eleganti e divertenti della storia del cinema, dove accade che a prender posizione, parti e, a modo loro, armi, siano degli attori polacchi nella Varsavia occupata dai nazisti nel 1939. La loro strategia: giocare con l’apparenza.

Va detto che la data è spesso rievocata, oggi, nei discorsi social(i), per una ragione sostanzialmente condivisibile: il tentativo di analizzare il presente europeo, tragico, sfuggente alla comprensione, con l’aiuto di analogie storiche. Meno condivisibili, quando non fuorvianti, sono invece le sovrapposizioni deliberate, la pretesa di far coincidere in toto presente e passato, che allontanano dall’unicità e dal dolore degli accadimenti, semplificando ciò che richiede complessità di sguardo. Così, tentando di evitare questo rischio, diremo che Vogliamo vivere!, diretto da un ex allievo di Max Reinhardt, tedesco di famiglia ebrea espatriato a Hollywood (come altri mitteleuropei: von Stroheim, Wilder, Ophüls, Lang) interessa non per trovarvi rispecchiamenti e suggerimenti che lì è fuorviante e irrispettoso cercare. Semmai, e posto che una commedia non può sovrapporsi agli accadimenti del presente, innesca la riflessione su come il cinema pone, qui, con toni ludici, proprio la questione – teatrale e vitale insieme – della parte da prendere e del ruolo da giocare, e della potenza della finzione.

Appresa la notizia che il professor Siletsky, spia al soldo della Gestapo di Varsavia, intende passare ai nazisti informazioni preziose (sulla resistenza e i parenti dei soldati polacchi arruolati in Gran Bretagna), ecco che la compagnia d’attori dell’affascinante Maria Tura e suo marito Josef imbraccia le sole armi ad essa possibili. Quelle della finzione, del trucco. La spia viene condotta in un finto comando della Gestapo ricostruito nei camerini del teatro, dove Josef interpreta il Colonnello Ehrhardt, altri attori e generici le SS. Non soltanto Siletsky è neutralizzato (colpito da un soldato polacco amante di Maria, e proprio sul palcoscenico muore davvero, e male, col gesto enfatico dei gigioni), ma gli attori si riprendono il proprio mestiere usandolo per ingannare chi inganna. Perché spia è chi, come un attore, si fa passare per ciò che non è, guadagnando la fiducia di coloro ai quali strappa informazioni. Nel perpetuo giuoco delle parti che di lì si innesca, mentre Maria continua a fingersi compiacente e disposta a collaborare coi nazisti, Josef dovrà poi interpretare Siletsky per ingannare la vera Gestapo, e il generico Broski il Fuhrer, così da consentire alla compagnia, ingannate le SS, la fuga nel Regno Unito. Il vertice degli inganni – e del film stesso – si ha quando l’attorucolo Greenberg, con professionalità e intensità sconosciute ai suoi colleghi più celebrati (che spesso si tradiscono, rivelando il volto vero di là delle maschere, salvo i pronti recuperi a forza d’inventiva, barbe finte e aiuti vicendevoli ma un po’ impacciati se sbagliano tempi o entrate) si fa momentaneamente passare come attentatore di Hitler agli occhi dei nazisti, per depistarli. Li persuade d’essere assassino quando spiegando le sue motivazioni di vendetta recita il monologo di Shylock. Dopo che l’“essere o non essere”, pronunciato da Josef nella parte di Amleto in tempo di pace, funzionava come segnale per indicare all’amante di Maria il momento propizio per piombarle in camerino al riparo dal marito, e, in guerra, come regola generale per gli attori che cambiano maschera per ingannare la Gestapo, ecco di nuovo le parole di Shakespeare. Ma, questa volta, autentiche, incarnate, vissute, credute dagli attori e dalla guardia del Fuhrer così beffata.

Felix Bressart (Greenberg)

In generale, questi attori mettono su, a modo loro, una mouse-trap, la cui particolarità sta nell’essere dispositivo comico: se nella tragedia shakespeariana essa serviva a rivelare il colpevole, qui consente a resistenti e innocenti fuga e salvezza. Il gioco dell’apparenza, salvifico, è giocato da attori che la prima parte del film ci mostra come egocentrici, vanesi: Josef cerca di continuo conferme di talento e notorietà, Maria pretende di interpretare la prigioniera di un campo di concentramento con un abito lamé. Del resto, i personaggi nobili e bigger than life appartengono alla tragedia. Forse, proprio perché sprovvisti di quella statura, perché frivoli ma capaci di fare qualcosa che non è nella loro natura e carattere, ecco che questi attori ci sembrano, sorprendentemente, eroici. Non a caso, l’inizio del film ce li presenta mentre recitano un improbabile dramma sulla Gestapo, che l’impresario Dobosh vorrebbe fosse “realistico” e serio come ai suoi attori non riesce proprio di essere, inguaribilmente-involontariamente comici, per nulla credibili, non all’altezza della tragedia che dovrebbero interpretare. E in fondo, Lubitsch è “inguaribilmente” lieve, e in questo sublime, quasi per fedeltà all’idea di Reinhardt che concepiva il teatro in modo festoso e sfarzoso, a credere che la vita e la sua commedia possano continuare e liberare, almeno un po’, dalla durezza della quotidianità reale.

È significativo che quel prologo sia piuttosto lungo, e che si riveli finzione scenica con un certo ritardo: è come se Lubitsch ci traesse in inganno, come volesse darci a intendere di farci vedere davvero un film su un commando nazista, per quanto grottesco, come se giocasse con noi spettatori un inganno simile a quello che sarà poi attuato dagli attori ai danni della Gestapo. Quell’incipit, che fa creder vero uno spazio che vero non è, non solo anticipa i vertiginosi rovesciamenti del film tutto, ma enuncia una costante di Lubitsch. L’agire, cioè, spazi permeabili e mutevoli, dove il confine tra realtà e finzione sia sempre discusso, incerto, il gioco delle apparenze rilanciato di continuo. Qui, come in altri momenti nel suo cinema, le porte (di camerini, camere d’albergo, case, quartier generale), e in generale le soglie, son fatte per essere continuamente varcate. E se, da chiuse servono a occultare ciò che accade all’interno, quel qualcosa che è escluso da rappresentazione e visione non è però escluso dalla logica degli eventi, e di nascosto li influenza. Così, allo stesso modo che il fuori-campo, il non-visto, fa “andare avanti” l’azione anche più di ciò che è mostrato, chi dovrebbe in teoria esser nettamente “fuori” dalla resistenza, coloro (gli attori) sui quali non si punta come combattenti, finisce qui per prendervi, paradossalmente, parte. Del resto, all the World’s a stage: fare che sia tragedia o commedia, e che non sia pura illusione il suo continuare e non finire, che possa ancora recitarsi, sta a noi e alle parti che ci scegliamo.

Antonio Capocasale

Vogliamo vivere! (To be or not to be)
di Ernst Lubitsch
USA, 1942
Con: Carole Lombard, Jack Benny, Robert Stack, Felix Bressart

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