Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Bando Veleia
Banner “emininum maskulinum” regia G. Sepe
Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Bando Veleia
Banner “emininum maskulinum” regia G. Sepe
HomeMedia partnershipIl presente interculturale delle generazioni Z

Il presente interculturale delle generazioni Z

Nell’ambito del Progetto Incroci, tra inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca, l’intervista in mediapartnership a uno dei registi coinvolti, Giuseppe Provinzano, del Progetto Amunì-Babel.

Il progetto Incroci, il cui capofila è Teatro Magro di Mantova, in partenariato con Asinitas Onlus di Roma e Progetto Amunì-Babel di Palermo, grazie al sostegno di Fondazione Alta Mane Italia, intende attivare linee di inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca attraverso le arti performative. Da marzo a ottobre le attività riguarderanno tre progetti laboratoriali (condotti da Flavio Cortellazzi, Giuseppe Provinzano, Fabiana Iacozzilli), l’incontro tra i diversi gruppi in fase creativa e durante le presentazioni al pubblico, l’ideazione di tre giorni di riflessione con la Migra.Art Lab.Conferance che si terrà presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Teatro e Critica, media partner del progetto Incroci, accompagnerà le realtà coinvolte in una serie di approfondimenti e interviste durante tutto il processo di ricerca, attraversando le pratiche creative degli artisti e dei gruppi coinvolti, gli incontri di scambio, le presentazioni, gli interventi.
Questa intervista è rivolta a Giuseppe Provinzano, attore, regista di Babel Crew e  creatore del Progetto Amunì nato nel 2017 grazie al bando MigrArti. Assieme al suo gruppo composto da richiedenti asilo, rifugiati, migranti economici e italiani di seconda generazione, sta  lavorando allo spettacolo Elemen-z.

Foto Nayeli Salas

Giuseppe, parlando del tuo percorso artistico, quali sono state le tue principali esperienze formative?

Io ho una formazione abbastanza classica, ho frequentato l’accademia del Teatro Biondo ed ero anche molto giovane (nel 2001 avevo 19 anni): i primi registi con cui ho lavorato furono Luca Ronconi e Massimo Castri, solo poi ho conosciuto il teatro contemporaneo. Mi sono “completato” formandomi con diversi altri registi: da Memé Perlini a Kristof Warlikowski, da Antonio Latella a Emma Dante, da Davide Enia a Marco Baliani, da Abbondanza/Bertoni a Pippo Delbono. Ho frequentato l’Ecole des MaÎtres con Enrique Diaz, la Summer Academy con Stephan Braunscheweig (attuale direttore dell’Odéon di Paris) ho studiato drammaturgia all’Heiner Muller Geselschaft of Berlin con Matthias Langhoff. Tante belle esperienze ma devo ammettere che sono dove sono adesso grazie a un piccolo grande spettacolo creato con Giuseppe Massa e Fabrizio Ferracane, quel Suttascupa il cui successo ci è “scoppiato in mano” e che ha rappresentato una sorta di bivio; si è trattato di una grande sorpresa, anche se poi abbiamo separato i nostri percorsi. Circa 10 anni fa abbiamo poi messo in scena GiOtto. Studio per una tragedia: anche in quel caso abbiamo avuto la fortuna di girare tanto e abbiamo capito che poteva esistere una dimensione di creazione indipendente. Da lì è nata Babel, che più che essere una compagnia è una crew: diversi professionisti dello spettacolo dal vivo, non solo artisti, che partecipano all’atto creativo (organizzatori, tecnici, scenografici, danzatori, videomaker +… ecc.) creando un gruppo di lavoro che si completa, si riconosce e si sostiene. 

Consolidato il percorso di Babel, abbiamo ideato nel 2017 il Progetto Amunì, rispondendo al Bando MigrArti. Il lavoro con i migranti assume in Babel la dimensione di progetto speciale e parallelo in una terra come la Sicilia che è da sempre crocevia del Mediterraneo.

In che rapporto si trovano all’interno della tua pratica artistica il tema della migrazione e il teatro? 

Il Progetto Amunì si rivolge a richiedenti asilo, rifugiati ma anche migranti economici e italiani di seconda generazione con l’intento di creare un confronto trasversale che annulli le differenze avvicinando ragazze e ragazzi dal diverso background culturale.

Io avevo seguito da uditore alcune fasi del Progetto Arrevuoto di Marco Martinelli a Scampia: quando abbiamo ideato il Progetto Amunì, sebbene con risorse economiche e capacità di gran lunga inferiori, ho voluto fare mia quella stessa utopia, che un giorno questi ragazzi potessero avere le capacità e la possibilità di staccarsi da noi (come successo poi a Punta Corsara) e proseguire la propria strada. Per questo il Progetto Amunì cerca di muoversi dunque come se avesse una sua dimensione, se non nell’immediato, sicuramente nella sua visione di medio/lungo termine. 

Inseguire quell’utopia significa avere un obiettivo che ti porta ad andare avanti e nella pratica vuol dire indirizzarli il più possibile verso la professionalizzazione, chiedendo loro un certo tipo di attenzione e di adesione al lavoro. Per me è anche una grande palestra in cui io stesso mi formo e cresco con loro. Ricerca e Formazione si compenetrano con l’atto creativo e con il confronto culturale: molt* ragazz* hanno necessità di capire cosa sia il teatro visto da dentro, nella misura in cui c’è poca conoscenza delle pratiche laddove manca tutto un background culturale occidentale, persino la stessa considerazione che il teatro possa essere un lavoro. Si tratta di un’utopia al quadrato: per molti di loro è inconcepibile vivere di teatro, non hanno mai conosciuto qualcuno nel loro paese che vivesse di questo, quasi non esiste l’idea concreta del teatro come lavoro o del mestiere dell’attore, per quanto ne siano affascinati.

Foto Nayeli Salas

Che tipo di lavoro porti avanti con i tuoi attori durante questi percorsi di formazione?

Sin dall’inizio ho sempre pensato che non mi andava di fare un laboratorio con incontri bi-settimanali, non era e non è nelle mie corde. Mi interessa di più una pratica immersiva, ritenendo che questa sia volano per maggiori risultati e anche un po’ per tendere a quell’utopia professionalizzante. Per questo motivo il nostro lo definiamo un “laboratorio permanente di ricerca e formazione”, due aspetti complementari e continuamente intrecciati. Ci incontriamo una settimana al mese per sessioni intensive da 5/6 ore, e lì succedono tante cose, sia sul palco che fuori. Mi ritengo fortunato (soprattutto di questi tempi), perché questa modalità mi permette di entrare e uscire da un contesto in cui si può fare teatro in maniera molto pura ma con un grande potenziale creativo. Non siamo interessati a creare degli obiettivi formativi per i ragazzi, non siamo un’accademia: stiamo sugli stimoli che provengono da loro, viviamo la scena a partire dai loro talenti, li coltiviamo, costruiamo percorsi partendo dalle loro peculiarità. Lavoriamo per 7-8 settimane spalmate in diversi mesi, e produciamo tantissimo materiale, dopodiché arriviamo all’allestimento vero e proprio, prendendoci il tempo necessario, immergendo il gruppo nella pratica con un approccio del tutto professionista. Riconosciamo loro delle borse di studio durante la fase laboratoriale e quando siamo in allestimento una paga da allievo attore, quale sono in tutto e per tutto. 

Durante il percorso ciascuno di loro porta dentro il lavoro quello che ritiene di saper fare, apprende quello per il quale si sente più portato e su quello lavoriamo:  ci sono dei ragazzi più avanti che hanno iniziato 4 anni fa, altri che hanno appena iniziato… i primi fanno da traino per i secondi che restituiscono entusiasmo e freschezza. Non è necessario portare tutti allo stesso livello, ma piuttosto vivere questo contesto con liquidità, pretendendo una certa serietà e concentrazione e restituendo loro la medesima attenzione rispetto alle loro capacità e allo sviluppo di queste, individuando, se è il caso, delle propensioni verso un tipo di linguaggio che poi può trovare forme diverse da quelle inizialmente esplorate. In sintesi, il Progetto Amuni è legato a Babel come una treccia, si compenetrano sia dal punto di vista creativo che produttivo, vivono lo stesso spazio (lo Spazio Franco) ma non è escluso che questa treccia possa sciogliersi quando i tempi saranno maturi.

Ci sono alcune figure che consideri tuoi maestri? 

Penso che un Maestro sia quella figura che nel proprio percorso, a prescindere dalla quantità di tempo passatoci, sia capace di spostare la tua bussola di qualche grado, di lasciare un segno. A volte può essere qualcosa che hai visto. O che hai vissuto brevemente ma intensamente. Non ho un solo Maestro: la mia formazione l’ho vissuta “bulimicamente e curiosamente” per allargare le mie conoscenze e colmare le mie lacune. Un mosaico: Ronconi mi ha buttato giovanissimo nel Grande Teatro, e grazie a lui ho capito e appreso sin da subito il livello di profondità e di approfondimento necessario, e ancora me lo porto dietro. Memé Perlini e Massimo Castri li ho incontrati subito dopo e nello stesso periodo: sebbene sembrassero 2 modi di vivere il teatro agli antipodi, in vero tenevano dentro la stessa essenza pura fatta di carne e di pensiero, che dunque potevano convivere. Ho avuto una sbandata per Antonio Latella ai tempi di Querelle, della trilogia su Genet: il primo che mi ha mostrato la contemporaneità del teatro da un altro punto di vista.  E a proposito di punti di vista, il brasiliano Enrique Diaz che mi ha regalato un approccio completamente diverso ed extra-europeo dell’atto creativo. Un tassello prezioso che custodisco con grande cura. Non posso non citare Franco Scaldati: quando conosci un Poeta saresti uno stronzo a non dissetarti alla sua fonte. Il suo sguardo sulla società, sulla nostra Palermo, la sua scrittura che va oltre la poesia e oltre il teatro. Mimmo Cuticchio è l’ultimo che mi ha cambiato la rotta: ho imparato il cunto? Tecniche di narrazione, la manovra dei pupi? Anche, ma l’insegnamento più grande è la capacità di aprire il mio immaginario, di sviluppare le mie capacità improvvisative e infine di gestire un gruppo. Mimmo usa spesso la metafora dell’equipaggio di una nave per definire una compagnia, in cui ognuno ha un ruolo fondamentale per non affondare. Mimmo Cuticchio è il mio Capitano di riferimento capace di sporcarsi le mani, valorizzare le qualità di chi è con lui e donarsi con grande generosità e rigore. 

Parlando del Progetto Incroci: quali temi, quali pratiche state mettendo in atto? Se, quanto e a causa di quali variabili il tuo lavoro ha subito un cambio di approccio?

Parto dall’ultima tua domanda: noi siamo tecnicamente “i campioni in carica” dell’ultimo Premio Migrarti, con il nostro Volvèr vincitore quale Miglior Spettacolo. Siamo riusciti a girare ancora per un altro anno mentre il bando MigrArti fu sospeso dal governo gialloverde. Sull’onda lunga di quel successo siamo arrivati sino al Piccolo di Milano, con grande orgoglio da parte mia e pura incoscienza da parte dei ragazzi ed è stato li che abbiamo incontrato la Fondazione Alta Mane, che ci è venuta in soccorso nella maniera più bella per un artista. Sono venuti autonomamente a vederci al Piccolo, senza che li avessimo invitati, hanno evidentemente apprezzato ma soprattutto hanno colto come dietro ci fosse un certo tipo di lavoro che li interessava e quindi hanno voluto sostenerci.

Foto Nayeli Salas

Noi per Incroci abbiamo scelto di raccontare il Presente, i figli di quel passato sul quale sta lavorando Fabiana Iacozzilli per Asinitas, e che daranno vita a quel futuro sul quale sta indagando Flavio Cortellazzi per Teatro Magro. Il lavoro che stiamo facendo, Elemen-z, ovviamente soffre dell’onda lunga della pandemia: anche il Progetto Amunì, come tanti altri, è stato travolto completamente. Dopo il primo mese di lockdown e di grande smarrimento, abbiamo provato a tentare un percorso di  didattica a distanza per restare collegati con i/le ragazz*. Siamo riusciti a strutturare un mirabolico schema di lavoro che divideva il gruppo in piccoli gruppi di 4/5 che si vedevano quotidianamente. Hanno lavorato con me sul piano drammaturgico, con Sergio Beercock su quello musicale, con Luigi Maria Rausa sull’interpretazione, con Simona Argentieri movimento scenico e danza, con Rossella Guarneri creazione dell’immaginario… così per due mesi, fino a metà giugno. Quando li abbiamo ritrovati in presenza, abbiamo notato che, sebbene avessimo prodotto tantissimo materiale, la loro tendenza era quella di accantonare quello avvenuto in remoto, mentre il ritorno alla pratica scenica in presenza aveva una differente adesione e voglia di raccontarsi: il nostro presente non è la pandemia ma lo sguardo sul mondo e sulla società contemporanea da un punto di vista generazionale. 

Ci racconteresti più nel dettaglio allora come avete lavorato e come state sviluppando lo spettacolo?

Abbiamo lavorato e riflettuto parecchio prima di capire che direzione imboccare, abbiamo accantonato definitivamente quanto prodotto in Dad e alla fine ci siamo fidati di quanto necessario fosse per loro, dell’espressione dei loro corpi pieni di energia e solitudine, raccontando della loro Generazione Z. Loro sono i nati dal ‘95 al 2010 nell’era della Rete, che non hanno conosciuto il mondo senza connessioni in remoto, un punto di vista  che li unisce tutt* trasversalmente a prescindere dalla loro provenienza. 

Cerchiamo di stimolarli molto da un punto di vista creativo, vogliamo che siano loro a tirar fuori le cose senza imboccarli. Io stesso cerco di non aggiungere parole; registro, ricompongo, ma non voglio che ci sia il mio giudizio o il mio punto di vista che falserebbe il tutto. Ci sono stati (e ci saranno) grandi momenti di smarrimento nella ricerca: tanti di loro preferiscono il linguaggio del corpo, o la musica, a volte sembra teatro-danza… sicuramente non è prosa ma semplicemente loro, come generazione, sono fisiologicamente poco inclini alle etichette e questo si riflette molto anche nella pratica scenica.  

In Elemenz non ci sono personaggi, stiamo lavorando su un coro generazionale: abbiamo esplorato paure, speranze, istanze, difficoltà a creare relazioni. La loro tendenza a fare gruppo pur soffrendo di un innato solipsismo. Nel farlo, siamo inevitabilmente entrati a contatto con un oggetto in particolare, lo smartphone, che è diventato sia elemento scenico che drammaturgico, una “protesi” della loro essenza. Abbiamo proceduto allestendo una 1ma variazione che abbiamo presentato in streaming a dicembre. Una pratica che non amo (lo streaming) ma che era necessaria per dare concretezza a un primo step della nostra ricerca. Avremmo dovuto presentare una 2nda variazione proprio a Mantova al Teatro Magro a febbraio scorso per poi procedere alla 3a e definitiva variazione questa estate: invece siamo di nuovo qui, come tutti, a cercare di capire se potremo andare in scena nelle prossime settimane o se dovremo ribaltare nuovamente i nostri piani. In questo marasma, l’aver scelto di procedere per variazioni ci permette di guardare al lavoro come una materia sempre viva. 

Foto Nayeli Salas

Cosa vogliono dire questi ragazzi? Ho difficoltà a definirlo in questo stadio del lavoro e forse non è nemmeno possibile definirlo in termini narrativi: vogliono “farsi spazio” e cercano attenzione, tra di loro e nei confronti delle generazioni precedenti. Forse dirai “è banale, anche noi Millenials abbiamo avuto bisogno di spazio”, ma questa banalità oggi è corroborata da nuovi strumenti, nuovi spazi virtuali in cui rifugiarsi, laddove per questa generazione non esiste una linea di demarcazione netta tra reale e virtuale, perché il virtuale fa parte in tutto e per tutto della loro realtà. Il virtuale è reale e il reale è virtuale. Nonostante questo, abbiamo rintracciato una relazione “mitologica” tra i giovani di tutte le epoche: punti di contatto che caratterizzano i ragazzi di una certa età che da sempre vivono uno scontro con la generazione che li ha preceduti. Non sarà una drammaturgia con una storia definita e definitiva, bensì si muoverà a partire da immagini, canti, suoni, coreografie, da frammenti che entrano ed escono dal coro: una dinamica riprodotta dal gruppo istintivamente e che li ha connessi con un teatro originario; un coro di ragazz* che si identificano in una medesima generazione dal quale emergono alcune singolarità. Ed è per me fantastico notare come, nonostante stessimo tracciando il presente, il Teatro, e la sua essenza pura che nel Progetto Amunì si riesce a innescare, ci riporti a dinamiche fondanti i rapporti scenici, istintivamente, come se oggi fosse 2500 anni fa e 2500 anni fa fosse già oggi. Forse è questo il presente? 

Quali questioni (tematiche, artistiche, sociali) pensi che potrete incrociare con gli altri partner del progetto?

La particolarità e la visionarietà di Incroci sta, a mio avviso, nell’incrociare pratiche che hanno la medesima natura ma che approcciano differentemente i percorsi formativi e creativi: Asinitas è una scuola di italiano per ragazz* in una fase di prima accoglienza e ogni anno invita un/una regista diversa a lavorare in percorsi laboratoriali di alto profilo; Teatro Magro collabora con lo Sprar di Mantova e sta componendo una compagnia formata da ragazzi stranieri e professionisti. I ragazzi del Progetto Amunì sono invece tutti molto giovani (dai 15 ai 26 anni) e vivono stadi diversi in termini di inserimento socio-culturale. Anche il rapporto tra formatori e gruppo è diverso: intraprenderemo questi incroci per tracciare strade diverse e definirne peculiarità comuni e distanze. 

Con Andrea Porcheddu, che in collaborazione con Cecilia Carponi sta seguendo il progetto incroci per la consulenza scientifica, abbiamo iniziato un percorso di analisi e approfondimento a partire dalla suggestione di creare le condizioni per facilitare l’accesso al lavoro artistico per questi ragazzi ma la problematica è molteplice: oltre alla natura differente delle nostre realtà, resta l’improbabilità della proposta professionale per dei ragazzi economicamente e socialmente fragili, considerando che la strada dello spettacolo dal vivo è fragile di per sé, soprattutto in questo momento storico. 

Nel panorama italiano non ci sono molti attori stranieri, laddove in Italia siamo indietro di almeno due generazioni quanto a equità nell’accesso alla professione artistica. A volte esistono delle eccezioni e nel nostro caso sono importanti: il Teatro Biondo, allestendo lo spettacolo Bengala a Palermo, con la regia di Marco Carniti, ha scritturato quattro dei nostri ragazzi e ragazze – una bengalese, una Srilankese, un maliano e un mauriziano – che faranno parte, e da protagonisti, del cast dello spettacolo, con il sottoscritto nel doppio ruolo di attore e coach. Certo, si tratta di una produzione tematicamente particolare e circoscritta, ma intanto hanno firmato il loro primo contratto da professionisti con una grossa produzione. Da un punto di vista simbolico è un tassello verso il raggiungimento della nostra Utopia che continuiamo a inseguire dentro e fuori il Progetto Amunì. 

Redazione

 

Leggi anche l’intervista a Paolo Masini, creatore del progetto MigrArti, nell’ambito del Progetto Incroci

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

È possibile salvare il mondo prima dell’alba?

Recensione. Il nuovo spettacolo di Carrozzeria Orfeo compone un monito severo e ruvido sui vizi della società capitalista, ma lo fa attraverso una lista...

Media Partnership

Prospero – Extended Theatre: il teatro europeo in video, già disponibile...

Raccontiamo con un articolo in media partnership gli sviluppi del progetto dedicato alla collaborazione internazionale che ha come obiettivo anche quello di raggiungere pubblici...