Visto al Napoli Teatro Festival Italia (poi programmato a Centrale Fies, Dro e a Operaestate, Bassano) Mephistopheles, l’ultimo lavoro di Anagoor, montaggio di materiali video dai lavori passati del collettivo, curato da Simone Derai con live set di Mauro Martinuz. Recensione.
Una tempesta sonora di esplosioni e soffi e graffi fa tremare le vetrate del Cortile d’onore di Palazzo Reale. Uno schermo incombe sulle sedute ben distanziate, disposte su un palchetto nero. In video, al ralenti: Johann Wolfgang von Goethe affonda, lo sguardo spento dalla vecchiaia, in una poltrona, fissando il crepitio del focolare. La tavolozza è magnifica, il calore della fiamma è stemperato dalle tinte nordiche, fra cenere e carta da zucchero, dell’interno giorno. Con sinistra leggiadria, alcuni tomi volano nel focolare, mentre una donna porge allo scrittore un corposo faldone. È Ottilie von Goethe, nuora dello scrittore ed essa stessa letterata, come ricordano i sottotitoli. La musica incalza in ondate tremende, il battito del suono cresce con quello cardiaco: qualcosa sta per accadere, deve accadere. La fiamma, bellissima, minaccia la carta, la vita, il pubblico. Un campo stretto sulla pagina fra le mani del vegliardo svela il titolo della sua monumentale opera in versi: Faust.
Alcuni avranno riconosciuto nelle immagini il materiale video per l’opera di Gounod diretta da Anagoor nel 2017, esordio del collettivo alla regia lirica. Mephistopheles. Eine grand tour, concepito e diretto da Simone Derai, è infatti un viaggio nel viaggio, perché risale il raffinato percorso di ricerca nell’immagine filmica prodotta per i lavori del collettivo dal 2012, lungo un binario metaforico che trova in Mefistofele un ideale punto di osservazione sul mondo. Anzi, è possibile parlare di un viaggio alla terza: a quello epico del mitologico tentatore, fa da contrappunto, sin dal titolo, quello nel paesaggio italiano che lo stesso scrittore tedesco attraversò nel 1786. Punctum barthesiano di quel tour è, per Anagoor, il cratere del Vesuvio, che apparirà tanto nei sottotitoli iniziali, unica chiosa testuale al flusso immaginifico, quanto nel girato, ove sarà offerto allo spettatore dall’occhio rapido, panottico ed epidermico di un drone. Nella piazza partenopea, l’evocazione vulcanica è pungente: la minaccia del (vicino) cratere fa da icona al discorso sulla natura e sulla morte di Mephistopheles. Lo stesso cortile d’onore è trasfigurato da quel senso nuovo, tellurico e mortifero, dello spazio. Sin dalle prime battute, lo spettacolo dipana così una performatività che eccede il formato filmico, irrobustita dalla liveness del dj set di Mauro Martinuz. lluminato alla destra dello schermo, il sound designer puntella, carezza, sfregia i fotogrammi, concertandone un commento che resta sempre, potentemente, altro dall’immagine.
Oltre il prologo nel salotto dello scrittore dobbiamo attraversare ancora una soglia, sorta di secondo prologo proprio come nell’introduzione del dramma goethiano: e siamo infatti ancora nel materiale estratto da quel Faust, le cui immagini ci portano nello spazio liminale di una casa di riposo. Nel luogo ultimo che cela la morte fra mura anodine e fredde protesi tanatopratiche, a distanza di sicurezza dal mondo dei vivi, iniziamo un viaggio letteralmente oltre la fine dell’umano. La composizione procede per capitoli, ciascuno introdotto da un simbolo celeste: il Sole, la Luna, Giove, Venere, Mercurio, Marte e Saturno. Una mappa astrale per muoversi nello spazio drammaturgico di un archivio: mutuando gli apparati digital da Lingua Imperii, Virgilio Brucia, Socrate il sopravvissuto, Orestea, e il citato Faust, Anagoor compie insieme un gesto di (auto) catalogazione e creazione, in occasione dei vent’anni di attività. Sorprendentemente, questo fermarsi a osservare il percorso compiuto rivela una tensione profetica, tanto nei contenuti che nei formati: siamo innanzi a un teatro senza attori, immaginato prima della pandemia ma a prova di norme anti-Covid e forse, ancor più radicalmente, un teatro post-umano.
Ma se nei citati lavori della compagnia il sottotesto filosofico osteggia spesso la fruizione oziosa, a discapito di un pubblico più ampio, Mephistopheles colpisce primariamente al ventre passando per sguardo e udito, obliterando lo strato verbale. È nelle viscere dello spettatore, dissodate dal tumultuoso tappeto sonoro, che viene depositato un interrogativo. Da lì, dal proprio singolare cratere dove la ragione procede dal corpo, si è chiamati a tessere un filo nella drammaturgia. La domanda cresce nell’interiorità pre-logica, come una pianta riavvolge la narrazione, e suonerebbe retorica se così non fosse: qual è il senso storico del rapporto che stiamo perpetrando con la natura? Domanda non nuova, ma resa appunto nuova dal punto di vista mefistofelico. Non uno sguardo sul, ma del male, in quanto opera della tecnica che disconosce ogni limite. Un male così inveterato da divenire luminoso, da osservare solennemente attraverso i suoi stessi mezzi tecnologici, alla ricerca della sua estetica, del suo modo di riscrivere e rimontare i corpi e il paesaggio.
Sapienti in tal senso i salti di scala del montaggio, dal primo piano su un taglio di carne appeso, carico di pathos nel dettaglio di una contrazione muscolare post-mortem, alle coltivazioni intensive estese sulla pianura veneta. Passaggi che ricordano il celebre docufilm Anthropocene – The Human Epoch (di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, 2018), ma con una lacerazione performativa fra immagine e suono che porta oltre: ove la composizione fotografica cerca l’estasi, la luce fioca, il tono su tono, la geometria dal sapore classicheggiante, è la musica a trascinare lo spettatore in uno stato di partecipazione dolente. È proprio nella dialettica fra estasi e turbamento che nasce una modalità di fruizione rituale, forse ancestrale, che immette lo spettatore in una liturgia in cui ruscellano sangue, sperma e pianto. Anagoor prosegue così il già solido discorso filologico, finemente intermediale, sul significato del rito teatrale. Sia chiaro, dunque: nell’olocausto di animali e suolo non si dispiega solo una banale retorica veg, o l’ennesima invettiva apocalittica. Mephistopheles rivela il trionfo della morte nella tarda civiltà della tecnica, in un saggio performativo che colleziona il rumore filosofico di fondo di vent’anni di lavoro.
Andrea Zangari
MEPHISTOPHELES EINE GRAND TOUR
Scritto e diretto da Simone Derai
Musica e live set Mauro Martinuz
Montaggio Simone Derai
Fotografia Giulio Favotto
Assistente alla regia Marco Menegoni
Produzione Anagoor 2020
Coproduzione Kunstfest Weimar*, Theater an der Ruhr**, Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee / Museo Madre***, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto.
In collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Villa Parco Bolasco – Università di Padova.
*supportato dal Ministero dell’Ambiente, Energia e Protezione della Natura della Turingia; **supportato dal Ministero della Cultura e della Scienza della Renania Settentrionale – Vestfalia; *** finanziata da POC Regione Campania 2014-2020