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HomeArticoliRipartire per noi è un dovere etico. 18 anni di Kilowatt Festival

Ripartire per noi è un dovere etico. 18 anni di Kilowatt Festival

Kilowatt Festival 2020. Confermato il festival, presentato il programma che omaggia la carriera di Roberto Latini. Intervista

Foto Luca Del Pia

Kilowatt Festival da qualche giorno ha presentato il programma definitivo, è stato uno dei primi festival ad essere confermato. La diciottesima edizione dell’evento, dedicato alle arti performative della Val Tiberina, si svolgerà in quella condizione unica rappresentata dalla convivenza con la pandemia. Abbiamo raggiunto telefonicamente i due direttori artistici, Lucia Franchi e Luca Ricci – ideatori nel 2003 del progetto che ha luogo a Sansepolcro, borgo in provincia di Arezzo – per entrare nelle contraddizioni che naturalmente emergono lavorando in un periodo di emergenza; tra misure governative, questioni etiche e dibattiti di settore.

Manca un mese all’inzio di Kilowatt 2020. Come state?

Ci hanno appena rifiutato la domanda di cassa integrazione, ma per il resto bene.

Alla compagnia Capotrave?

Luca Ricci (LR): A noi e ai nostri collaboratori di CapoTrave e di Kilowatt. Purtroppo la formula del lavoro intermittente a chiamata per lo spettacolo dal vivo non è stata protetta adeguatamente dai vari decreti del governo: è stata completamente dimenticata in quello di marzo ed è a malapena citata in quello di maggio; l’unica possibilità che forse ci è rimasta è quella del bonus da 600 euro, ora allargato anche a chi ha avuto 7 giornate lavorative in un anno. Io sono contento che questo bonus vada a tutti, ma non è possibile trattare allo stesso modo chi ha versato contributi per 220 giornate all’anno e chi per 7 giornate. Bene che si tuteli chi ha lavorato anche poche giornate, soprattutto se è un giovane artista o tecnico o organizzatore, ma non è giusto che un lavoratore che ha lavorato 8 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana, per 12 mesi, venga discriminato rispetto agli altri lavoratori solo perché lavora a chiamata, che è una formula di contratto diffusissima nel nostro settore. Non è che chi lavora a chiamata versi allo Stato meno contributi di un lavoratore con un altro tipo di contratto, ne versa uguale… allora perché in questo difficile frangente il lavoratore a chiamata deve essere discriminato? È un buco legislativo che trovo ingiusto. Ora sono arrabbiato, poi mi passerà.

State per portare la nave in porto: organizzare un festival durante una pandemia: lo considerato un atto eroico?

Lucia Franchi (LF): No, non ci sentiamo per nulla eroi. “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi” diceva il Galileo di Brecht. Quando nei mesi scorsi io, Luca e il nostro gruppo di lavoro eravamo scoraggiati, pensavamo spesso alla condizione dei profughi africani o mediorientali, due drammi umani che ci toccano molto da vicino, per i tanti viaggi che abbiamo fatto in quei luoghi: paragonando la loro condizione alla nostra, subito le nostre difficoltà acquistano un peso modesto ed emerge quanto siamo privilegiati. È un esercizio che serve a relativizzare: noi non abbiamo avuto lutti e anche chi si è ammalato tra i nostri conoscenti – e qualcuno c’è stato – è poi guarito. Abbiamo lavorato per 3 mesi senza stipendio, come spiegava Luca, ma abbiamo tenuto quasi sempre alto il morale e siamo stati convinti che, fino a che non fosse emersa una impossibilità certa e assoluta, noi avremmo fatto tutto quello che era nelle nostre facoltà per realizzare anche questa edizione del festival.

LR: Poi c’era anche una questione legata alle responsabilità che ci sentivamo e ci sentiamo di avere verso i nostri collaboratori, verso gli artisti e verso il nostro ambiente professionale. Ora – in base a quel decreto governativo di maggio che citavo prima – lo Stato ci riconoscerà tramite il FUS un finanziamento più o meno identico a quello dello scorso anno, ma ce lo darà praticamente a fondo perduto. Di fronte a questo “dono” si può reagire in due modi: qualche teatro ha reagito dicendo “ok, questi soldi dello Stato sono una forma di ristoro, manteniamo i livelli occupazionali – che già non è poco – e se non si può organizzare niente, non facciamo niente”. Altri, come noi, hanno sentito la responsabilità di ridistribuire quei finanziamenti agli artisti, ai tecnici e ad altri pezzi del settore esterni alla nostra struttura. Ognuno si è regolato come ha creduto, ma io credo che le due ipotesi moralmente non si equivalgano.

LF: Sì, il tema si pone proprio sul piano morale. Noi non ci sentiamo per nulla coraggiosi, perché abbiamo semplicemente fatto quel che andava fatto, ma ci sentiamo tra quelli che hanno percepito di avere un dovere etico.

da Kilowatt Festival 2019

Il dibattito attorno al tema della riapertura in queste settimane ha espresso anche posizioni nette rispetto a un pensiero più attendista, si legga l’articolo di Renato Palazzi ad esempio. C’è stato  nel vostro caso un momento in cui vi siete detti che forse sarebbe stato meglio fermare tutto e pensare di utilizzare quei finanziamenti statali in altro modo?

LR: Ma che vuol dire stare fermi!? Stare fermi non può essere un obiettivo. Se vuoi stare fermo, fallo pure, ma non è che il mondo smetterà di girare perché 100 artisti sono stati fermi. Cosa avrebbero dimostrato stando fermi? Nessuno ci considererà maggiormente solo perché stiamo fermi. Io credo che l’obiettivo debba e possa essere solo e soltanto ripartire, prima e meglio possibile, in condizioni di sicurezza e di rispetto degli individui-lavoratori, perché tutti possano riprendere a esprimere le proprie competenze e professionalità e a ognuno sia restituita la dignità di vivere del proprio lavoro creativo e non dei sussidi.

La cosa si presenta diversamente, se lo stare fermi è legato alla necessità di approfondire, studiare, riflettere. Questo lo rispetto. Ma anche qui, lasciami dire, che ognuno farà un po’ come crede e che non siamo tutti uguali. Io per esempio sono un iperattivo, ma sono anche una persona che si ritaglia molti spazi di pensiero e meditazione. Ci siamo inventati il bando delle Residenze Digitali con Armunia, AMAT, Anghiari Dance Hub e ATCL, per cui abbiamo visionato uno per uno 400 progetti.

E poi, guarda, se quei soldi statali – per quelle istituzioni o soggetti riconosciuti che adesso non riprenderanno le attività – verranno usati per rinnovare, progettare, rilanciare, io sarei felice di stupirmi e dire: hanno fatto bene a fermarsi, perché hanno fatto un passo indietro per farne due avanti. Ma posso prevedere che non accadrà? Però sarei felice di sbagliarmi.

Detto ciò, le reazioni interiori di ognuno vanno rispettate. In questi mesi io sono stato a lungo al telefono con i 54 artisti chiamati per il festival di quest’anno: alcuni ci hanno detto che non se la sentivano di confermare il loro impegno con noi, per le ragioni più diverse, soprattutto legate al fatto che non avevano avuto la possibilità di provare o alla natura di forte contatto tra individui dello spettacolo, resa impossibile dalle regole di distanziamento che oggi vanno rispettate pure sul palco; ma anche se qualcuno, solo per una ragione ideale e di principio, avesse detto “non vengo perché voglio fermarmi”, io lo avrei rispettato. Ma il rispetto deve esserci in entrambe le direzioni: non mi piace chi ti fa la morale dicendo cosa devi e non devi fare, non mi piace chi ti dice che non devi scrivere spettacoli sul Covid, chi ti dice che devi stare fermo, non mi piace mai l’atteggiamento di chi ha sempre capito prima e più di te come bisogna fare.

Appena pubblicaste il bando delle Residenze Digitali ci fu qualcuno che storse il naso…

LF: Sì, ci dissero che il teatro era altro. Cosa sia il teatro noi crediamo di saperlo abbastanza bene, dato che lo pratichiamo da vent’anni, ma non era questo il punto: con quel bando noi non volevamo negare nulla del teatro fatto dal vivo, ci mancherebbe! Ma ci sono dei momenti in cui i ripensamenti sono vitali. Dentro quei 400 progetti digitali ne abbiamo scoperti almeno una decina di molto appassionanti, che trovano nello spazio digitale non un ripiego, ma il loro ambiente naturale. E allora, pure qui: perché negarsi questa opportunità di conoscere altro?

Il concetto dei Visionari lo abbiamo inventato in un momento di crisi, ad esempio. E anche lì alcune persone ci dicevano che non andava bene, che era uno sbaglio far decidere il pubblico, che gli spettatori avrebbero scelto solo le cose più stupide, che dovevamo prima fare delle lezioni ex catedra a questi spettatori, e tanti suggerimenti simili. Siamo fieri di vedere che oggi quella piccola idea, si è diffusa ovunque, in Italia e in Europa.

Questo per dire che l’unica cosa che conta è la capacità di reagire alle difficoltà. Non conta tanto dividerci tra chi sta fermo e chi riparte, come fossero squadre contrapposte. Piuttosto, come sempre, conta solo che tutti diano una spinta di pensiero, di idee e di vita, al mondo del teatro, ognuno con la propria strategia.

T.I.N.A. Giselda Ranieri_©DIANE_ilariascarpa_lucatelleschi_

Voi siete stati tra i primi ad annunciare le date del festival, quali sono le misure di sicurezza che avete previsto per i vostri lavoratori, gli artisti e il pubblico? Avete pensato a ulteriori misure oltre a quelle indicate da Stato e Regioni?

LF: Il 15 giugno abbiamo riaperto il Teatro alla Misericordia di Sansepolcro (cuore del festival), in queste settimane ci siamo preoccupati di attrezzare lo spazio di lavoro dedicato allo staff interno, nelle condizioni previste dalla legge (i prodotti igienizzanti, le norme esposte a vista, le mascherine da fornire…), poi, il 21 giugno riprenderemo le residenze e anche lì ci stiamo prendendo cura di allestire tutto al meglio per la sicurezza degli artisti (inclusa la foresteria) e poi dal 20 luglio inizierà il festival e altrettanti accorgimenti li avremo anche per il pubblico.

LR: Il momento più delicato accade sul palcoscenico, è lì il punto più scivoloso: tutta la procedura riguardante spettatori, tecnici e artisti prima della messinscena è complessa, ma non lo è di più di altri settori. Noi che facciamo spettacolo abbiamo una difficoltà tutta speciale, che inizia da quando si spengono le luci in sala e dura fino all’applauso finale: come faccio a rappresentare uno spettacolo fortemente basato sul contatto se ci sono le regole del distanziamento, con mascherina o addirittura – recente follia –, con l’obbligo di indossare i guanti ogni volta che in scena tocco un oggetto? Senza dubbio chi ha scritto norme come quella dei guanti dimostra una scarsa conoscenza del nostro settore e un’attenzione marginale per il nostro lavoro. Detto questo, però, pur di fronte a questa difficoltà, dobbiamo lavorare creativamente per trovare soluzioni alternative, sperando che siano brevi e temporanee: in questo giorni mi capita di sentire al telefono artisti mentre sono in prova e mi descrivono la scena che stanno pensando chiedendomi se sia legale farla così, in base alle regole vigenti. Da un lato fa ridere, dall’altro fa piangere pensare che gli artisti debbano creare in questo modo.

La difficoltà poi è anche relativa alla modifica continua di queste norme, già nell’ultimo decreto, rispetto al 17 maggio ci sono diverse novità.

LF: Sì, tra l’altro questo regolamento è in vigore fino al 15 luglio, dunque, quando comincerà Kilowatt è possibile che arrivi un altro regolamento, che, come spesso accade, ci verrà comunicato il giorno prima… Ma il problema, come al solito, nel nostro Paese, è relativo allo sport nazionale dello scaricabarile. Ad esempio, nelle più recenti norme per la danza, leggiamo questa frase: “l’obbligo per i danzatori, quando non direttamente impiegati nello spettacolo, di mantenere la distanza di almeno un metro tra loro”, dunque per esclusione siamo portati a pensare che quando sono impegnati in scena possono non mantenere la distanza… sarà così? Perché questo non è scritto esplicitamente da nessuna parte? I regolamenti sono fatti in un modo per il quale Stato e Regioni mettono un confine che è superabile, ma la responsabilità poi è sempre di chi quelle regole deve utilizzarle. Se accade qualcosa, poi la colpa è tua.

LR: Io infatti voglio dire grazie agli artisti che saranno al festival, perché ognuno di loro si è preso la propria parte di responsabilità, decidendo di salire sul palco, in un momento in cui quella responsabilità è più facile non prendersela. Già salire su un palco, per un artista, è sempre un’assunzione di responsabilità, in questo momento lo diventa ancora di più.

Per quello che riguarda il flusso degli spettatori, con le norme attuali, quanti ne perderete rispetto agli scorsi anni?

LR: I nostri spazi del festival potevano contenere tra i 100 e i 180 spettatori, adesso oscilliamo tra 65 e 100. Ma faremo una diretta streaming nella piazza di Sansepolcro, chiusa al traffico e con un maxi schermo tipo cinema. Non sarà uno streaming online perché vogliamo preservare la qualità della presenza al festival. Chiederemo agli spettatori, che dovranno acquistare i biglietti online, in anticipo, di vedere non più di due spettacoli al giorno dal vivo, così da poter fruire il terzo trasmesso in piazza, e lasciare posto anche agli altri, perché ognuno veda almeno uno o due lavori dal vivo, ogni sera. Invece, agli spettacoli del pomeriggio (vista la previsione di una minore affluenza e le repliche maggiori) ci sarà posto per tutti quelli che lo vorranno.

LF: Naturalmente anche la piazza con lo streaming dovrà rispettare le norme di distanziamento tra le sedute. Investire in questo sistema di trasmissione video in diretta ci costa più di diecimila euro. Ma per noi è importante che sia in diretta, è importante che coloro che hanno visto lo spettacolo dal vivo incontrino gli spettatori dello streaming alla fine degli spettacoli, per confrontarsi, parlare, commentare. Un festival è anche questo. La diretta streaming è un costo per noi, e non da poco, ma è anche una crescita. Come lo è la completa informatizzazione delle biglietterie. I biglietti di Kilowatt 2020 si compreranno solo online, e si possono acquistare già da adesso. Gli spettatori verranno al festival con il biglietto sul telefonino, dunque senza far circolare carta. Non lo avremmo fatto senza le norme anti-Covid: è stato un costo realizzare questo sistema, ma è anche una crescita per la qualità del nostro lavoro. E grazie alla Regione Toscana che ci ha aiutato in questo.

LR: Per non parlare dei costi aggiuntivi rappresentati dal personale extra che dovrà gestire le sale e garantire l’accesso e l’uscita del pubblico a norma, la continua pulizia delle sale da fare più volte al giorno… Insomma, più ci fai riflettere su tutto questo, e più ci preoccupiamo. Ma ce la faremo!

LF: Sì, e sarà anche bello venire a Sansepolcro: faremo il possibile per creare una situazione piacevole per chi verrà. Noi siamo molto contenti del programma, della qualità degli artisti, dei tanti incontri in programma, siamo così contenti di poter fare il festival che siamo disposti a tutti i sacrifici imposti dalle norme.

Roberto Latini – foto Fabio Lovino

Questa è la 18° edizione del festival, Kilowatt diventa maggiorenne, la vostra specificità è relativa al lavoro svolto dai Visionari (un gruppo di cittadini che si prende l’onere di selezionare parte dell’offerta artistica), con la situazione attuale, relativa alla pandemia, come si sono dovuti muovere? Ci sono state difficoltà in tal senso?

LF: I Visionari quest’anno erano 38 e avevamo 370 video e progetti da esaminare. Da novembre a febbraio si sono visti in presenza, tutte le settimane. Poi, da marzo, hanno continuato tramite Zoom e hanno completato il loro percorso senza ritardare di un giorno, facendo l’ultima riunione la vigilia di Pasqua, con la consueta intelligenza, cura, disciplina. Sono stati un esempio, davvero, e anche per rispetto verso di loro non abbiamo voluto arrenderci. Delle 9 compagnie che hanno scelto, solo una non sarà al festival, perché si trattava di una coreografia che prevedeva molto contatto, ma i Visionari si sono impegnati a scegliere 8 spettacoli l’anno prossimo e come nono inviteranno di nuovo la compagnia che è saltata quest’anno.

Queste compagnie scelte dai Visionari più quelle scelte da voi in qualità di direzione artistica compongono il programma di Kilowatt 2020 e dunque sono anche l’ultima fotografia del teatro contemporaneo italiano prima del ritorno alla normalità, un teatro di pandemia insomma; in programma vedo una evidente alternanza tra artisti più maturi e giovani. Questi ultimi forse negli ultimi anni sono quelli più in difficoltà dal punto di vista ideativo. Proviamo a ragionare dunque su questa fotografia, che riflessione vi suggerisce?

LR: Sono d’accordo con te per quello che riguarda i linguaggi più vicini alla prosa, ma non per la danza. Nella danza si sta vivendo un ricambio generazionale molto interessante: si sono consolidate alcune esperienze emergenti che hanno trovato un sistema molto più accogliente di quello che c’era dieci anni fa, perché tra residenze, festival, bandi di produzione, qualche nuova rassegna anche negli stabili, oggi ci sono opportunità di produzione e sperimentazione che prima erano assenti. E così si è creato un nuovo spazio per una ulteriore generazione di giovani che si è saputa prendere la scena con proposte di qualità: noi al festival ospitiamo, ad esempio, Stefania Tansini, Pablo Girolami, Lucrezia Gabrieli, Giselda Ranieri, Paolo Rosini, Marco Di Nardo, che sono esponenti di questa nouvelle vague di creatori coreografici.

Per i linguaggi più legati alla parola ti do ragione: in questo momento non c’è un passaggio di testimone molto solido, non è apparsa una ondata generazionale particolarmente interessante e anche la generazione precedente non ha avuto grandi opportunità per fare un salto produttivo e lasciare così il campo ad altri. Però, ad esempio, noi in programma abbiamo Angelo Campolo, vincitore di In-Box, che è un nome nuovo e interessante, Collettivo Superstite, compagnia giovanissima composta da ventiquattrenni, Alessandro Sesti che è un altro giovanissimo e interessante autore-attore, così come Pietro Angelini, poi Condorelli/Tringali, un duo che viene dalla Sicilia e porta un lavoro potentissimo, c’è Cinzia Pietribiasi, che lavora già da un po’ ma in questo spettacolo ha individuato in modo netto la sua strada artistica creando un’opera straordinaria: io e Lucia quando abbiamo visto il suo spettacolo abbiamo pianto, e dire che non abbiamo la lacrima facile.

D’altronde noi da sempre lavoriamo prendendoci dei rischi, tra il consolidamento di alcune esperienze (quest’anno Andrea Cosentino, Piccola Compagnia Dammacco, Menoventi, quotidiana.com, leviedelfool, tutte realtà che abbiamo incrociato molte volte) e la scoperta di alcune novità.

E poi quest’anno c’è anche Roberto Latini, lo omaggiate con una serie di percorsi.

Siamo contenti perché è un passaggio generazionale: i padrini e le madrine degli scorsi anni appartenevano ad altre generazioni, Roberto è più giovane, e anche questo è un bel segnale. Con lui faremo una serie di azioni diverse, tutte concordate assieme a lui, che si è messo a nostra disposizione con grande generosità. Siamo andati a riprendere un lavoro che ha girato poco ma che io e Lucia abbiamo amato molto, Amleto. Die Fortinbrasmaschine, poi faremo un incontro pubblico in cui dialogherà con una serie di artisti e studiosi che hanno seguito il suo processo (Andrea Porcheddu, Antonio Audino, Massimo Marino, ma anche colleghi come Rezza-Mastrella, Claudio Longhi, Elena Bucci); ragioneranno sul rapporto fra tradizione e innovazione, ci sarà anche una mostra ideata insieme ai suoi storici collaboratori Gianluca Misiti e Max Mugnai, che ripercorrerà la sua carriera portando registrazioni, testi e immagini inedite. Infine, Roberto si donerà a dei giovani drammaturghi del corso internazionale di drammaturgia di Ert, i quali scriveranno proprio per lui dei testi inediti che leggerà durante Kilowatt 2020.

LF: Vorrei in ultimo sottolineare le presenze internazionali, abbiamo dovuto annullare gli spettacoli di sette artisti stranieri, ma almeno ne abbiamo salvati tre, e tutti e tre di grande qualità: Jérôme Bel, un maestro indiscusso della coreografia internazionale che qui omaggia Isadora Duncan, Mohamed El Khatib, per noi il più interessante drammaturgo del momento di area francese e il belga Benjamin Kahn che ha creato una coreografia intorno al corpo magnetico e potente dell’olandese Cherish Menzo.

Andrea Pocosgnich

 

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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