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Intervista ad Angelo Campolo. Fame di relazioni

Intervista in media partnership all’attore e regista Angelo Campolo, vincitore, con lo spettacolo STAY HUNGRY Indagine di un affamato, delle 21 repliche tra quelle messe in palio dal progetto In-Box 2020.

Angelo Campolo in una scena di Stay Hungry. Foto di Giovanni Canitano /Giuseppe Portuesi

Angelo, mi piacerebbe partire dalla tua formazione, e non solo da quella accademica, in quanto diplomato al Piccolo di Ronconi, ma da tutto l’insieme di esperienze che ti hanno formato come artista. Se dovessi indicarmi le più illuminanti…

Innanzitutto direi Ronconi, intanto per l’età in cui l’ho incontrato: a 18 anni, non ero mai andato fuori da Messina e avevo con me una buona dose di entusiasmo e spavalderia che mi consentivano di affrontare un gigante come lui con una certa incoscienza, che a quell’età è ancora sana ma anche se poi deve trasformarsi in altro! È stato un passaggio forte, a volte anche traumatico e però necessario, per poter accedere a una disciplina del fare teatro, a un rigore, un rispetto nei confronti di questo mestiere che non ho mai dimenticato. La passione, la spontaneità e l’estro da sole non bastano. Mi sento fortunato perché ha rappresentato il contatto con un’epoca fertile del teatro, oggi definitivamente tramontata. 

Subito dopo ho incrociato personalità artistiche che mi hanno aiutato nel lavoro sul corpo (penso in primis al mio maestro Michele Abbondanza, ma anche ai preziosi laboratori con Emma Dante) e nel lavoro sulla scrittura scenica (al Piccolo devo le masterclass con Lev Dodin e Vassiliev nel 2005 e, in anni più recenti, sono stati importanti i laboratori al teatro Valle con Antonio Latella). Poi tutto questo è confluito nell’odio-amore nei confronti della mia città che è Messina; ecco, ritornare è stata un’altra occasione formativa importante. Messina è una città di passaggio, che magari manca di quel carattere forte di altre città come Palermo o Catania, dal punto di vista del rapporto con la tradizione. Però, paradossalmente, lì dove non c’è molto da preservare ha trovato terreno fertile la volontà di aggregarsi e fare teatro. Ho avuto la fortuna di incrociare Annibale Pavone, attore che mi è stato accanto nei primi anni di esperimenti nell’ambito della didattica teatrale. Ma devo nominare anche registi come Ninni Bruschetta, che mi ha offerto il ruolo da protagonista nell’Amleto, ed Enzo Vetrano e Stefano Randisi, che mi hanno accompagnato per un triennio, grazie a Trovarsi di Pirandello. Amo da sempre la loro poetica e la loro capacità di rileggere i classici, l’artigianalità con la quale affrontano questo mestiere, che fa dell’esito artistico una conseguenza e non una premessa.

A fianco all’attività attoriale e registica, dunque, sei anche formatore a tua volta e, a partire da questa esperienza, per Carocci editore hai pubblicato nel 2018 un volume di didattica teatrale, Un codice per la fantasia. Cosa permette lo strumento teatrale all’interno dell’attività pedagogica e cosa il contrario?

Dipende da come vogliamo intendere il teatro: si possono trovare tante strade tutte giuste e sacrosante purché siano coerenti e si abbia il coraggio di portarle fino in fondo. Più che il teatro delle forme interessato maggiormente all’estetica, a me interessa il teatro come opportunità di relazione e quindi di conoscenza. E questo è un comune denominatore con la pedagogia. Con il libro ho provato a offrire il mio piccolo contributo per guardare al teatro non come processo di mera rappresentazione ma come strumento pratico di apprendimento. Mi riferisco, se vuoi,  a quel process-drama che i paesi europei da anni ormai inseriscono anche nei programmi scolastici.

Parlo per la mia esperienza, ma sono sicuro di condividerla con tanti che in Italia operano in questo ambito: quanti ragazzi, cosiddetti “a rischio”, vediamo sotto i nostri occhi appassionarsi a cose che normalmente non farebbero mai? Il percorso teatrale li spinge a leggere di storia, geografia, disegnare, interpretare il senso delle immagini, perfino parlare di politica, prendere posizione su certi temi. Andare in scena diventa l’atto finale, frutto di una responsabilità acquisita che il teatro, più di altre materie didattiche, credo possa offrire. Ma noi lo continuiamo a scambiare con la socialità e l’intrattenimento, quando va bene, non dandogli il giusto riconoscimento che merita. D’altro canto, io stesso come attore, sono maturato grazie ai ragazzi con cui lavoro – che sono considerati “ai margini”, come i richiedenti asilo o ragazzi dei percorsi di riabilitazione –, i quali spesso correggono e puliscono il mio modo di stare in scena. Non che mi diano delle indicazioni su come recitare, ma le esperienze che insieme maturiamo influenzano per forza di cose il modo e la responsabilità che ho quando vado in scena. La nostra dialettica non è mai data per scontata, anzi, tutto il contrario. Il grande esercizio che mi offrono è di trovarmi di fronte a persone che non la pensano come me. Ostili e contrariati, in prima battuta, mi obbligano a guadagnarmi sul campo la loro attenzione, il rispetto verso quello che propongo. Il momento in cui questo “accordo” prende forma, lo capisci strada facendo, nei gesti e negli umori che pian piano si trasformano. Ed è, per me, la ricompensa più bella.

Foto di Giovanni Canitano /Giuseppe Portuesi

Il concetto di fantasia è centrale nella tua pratica artistica, tanto da comparire anche nel nome della compagnia che hai fondato DAF Teatro dell’esatta fantasia. Cos’è dunque per te questa dimensione fantastica e come entra nella realtà? 

Entra attraverso un ossimoro. Mettere insieme due termini apparentemente opposti, seguendo la lezione di Gianni Rodari, è la vocazione del tipo di teatro che mi piace fare. Non provare a conciliare o addomesticare l’inconciliabile, perché sicuramente ci sono delle distanza che è giusto rimangano tali, ma rilanciare sempre rispetto alla sfida di scoprire fantasia e bellezza nei luoghi o nei concetti dove non è detto che possa trovarsi, come nell’esattezza, nel rigore, nella disciplina. A volte perdo un sacco di tempo per spiegare agli insegnanti che il teatro, spesso, è molto più vicino alla matematica che alla letteratura. In scena non facciamo altro che contare! Scoprire il teatro dove non pensi che possa esserci, come in un cortile, in un’aula di scuola, in un centro anziani. Il teatro può esserci non solo attraverso la struttura fisica, ma soprattutto attraverso la relazione. Il che, ripeto, non significa fare socialità e basta, intrattenere, ma provare, in quei contesti, a immettere il linguaggio del teatro per reinventare forme nuove nello stare insieme. Per esempio, tutta l’esperienza che facciamo con Caritas in Sicilia da più di tre anni, il progetto Teatr/ali curato da me e Giuseppe Ministeri, organizzatore della compagnia DAF, si sviluppa sempre in luoghi non teatrali, chiese sconsacrate, dormitori, comunità alloggi… Dall’anno scorso abbiamo ricavato una sala per prove e laboratori, lo Spazio B,  dentro un istituto di suore. Un luogo molto lontano dal teatro!

 

Da una parte la fantasia, ma dall’altra la realtà. E di questa ce n’è parecchia nello spettacolo con cui ti sei aggiudicato il maggior numero di repliche di quest’edizione di In-Box project, Stay Hungry – indagine di un affamato. C’è la componente autobiografica che immetti nel lavoro, il tuo aver lavorato con i migranti, i bandi a sfondo sociale che immagino tu possa avere davvero compilato. E poi da qui, sembrano dipanarsi tutta una serie di riflessioni: sul motto sardonico e beffardo di Steve Jobs, che nel tuo spettacolo assume un altro significato; sui giochi burocratici e politici che hanno segnato esplosione e declino delle azioni a sostegno del fenomeno migranti… Come tutto questo trova forma in scena?

La forma la trova in un rilancio continuo, dal punto di vista narrativo, con il pubblico. Lo spettacolo si sviluppa come un racconto autobiografico, un flashback che prende avvio a partire dalla compilazione di un ennesimo bando a tema sociale. Il pubblico all’inizio ne ride ritrovando l’assurdo in quelle formule con le quali la nostra generazione lotta ormai  da anni (“under 35”, “max 400 battute”, “da inviare entro la data di scadenza”, ecc.). Poi, piano piano prendono forma i capitoli della storia. Tre anni di vita, tra il 2015 e il 2018, come  fossero storicizzati, anche se abbastanza recenti. E dietro quelle etichette, quegli slogan, quei titoli, cominciano ad affiorare le storie umane, protagoniste di questo percorso laboratoriale nato a Messina, in piena emergenza sbarchi. Partito con poche aspettative ha invece lasciato un segno importante nella mia vita e, spero, in quella delle persone che lo hanno incrociato. Il pubblico segue alti e bassi di questa avventura che si sviluppa nell’arco di un triennio e, in controluce, legge la trasformazione di un paese che ha schizofrenicamente cambiato idea sul tema dell’accoglienza, lasciando per strada, come se niente fosse, progetti, percorsi umani, storie di vita.  Lo spettacolo non vuole imporre alcuna denuncia, anche se una sua posizione ce l’ha, ma cerca di mette lo spettatore di fronte alla complessità delle storie con le quali sono venuto in contatto, non facendo il giornalista, o il documentarista, ma continuando a fare il mio mestiere d’attore. Senza giudizi o estremismi racconto a piccoli passi, quello che, attraverso il mio lavoro, ho visto, intuito, provato, sbagliato, nella mia relazione con questi ragazzi che provengono dal Mali.

 

Foto di Giovanni Canitano /Giuseppe Portuesi

Francesco Perrone, tra gli ideatori del premio In-Box, in una recente intervista che ci ha rilasciato, ha sottolineato una particolare accezione del termine “emergente”, identificandolo come «un lavoro di qualità, valido, che però non ha l’adeguata visibilità presso critica, operatori e pubblico». Dunque, l’avere ottenuto 21 repliche distribuite all’interno di tutti i partner della rete implica un riconoscimento di valore a fronte di una mancanza, o per lo meno, di una non ancora avvenuta emersione. Ti riconosci in questa definizione? Come speri che possa mutare la ricezione (da parte di pubblico, critica e operatori) del tuo lavoro?

Viviamo un momento così particolare che parlare solo del mio lavoro mi sembrerebbe presuntuoso. Tra le poche cose buone che la pandemia ci ha offerto, c’è sicuramente il fatto che la categoria dei lavoratori dello spettacolo si è ritrovata a discutere insieme come non accadeva da tempo (mai così, a mia memoria). L’opportunità è unica e, da questo punto di vista, io sono fiducioso che resterà traccia dello straordinario lavoro fatto in questi mesi da gruppi come Attrici e Attori Uniti, l’Attore visibile, Zona Rossa, Cresco o il sindacato attori. Il premio In-Box, che ringrazio ancora per il riconoscimento ricevuto, penso che costituisca un esempio virtuoso, una cosiddetta “buona pratica” di politica culturale, che molte istituzioni dovrebbero prendere ad esempio, se non addirittura imitare. In palio non ci sono targhe o premi in denaro, ma lavoro. Il premio mette insieme, in forma assembleare, tante realtà che si confrontano e discutono intorno al lavoro di tante compagnie indipendenti che fanno fatica a portare in scena i propri spettacoli.

Tra gli impedimenti non c’è solo la crisi economica. Il nostro principale nemico è l’ignoranza delle istituzioni rispetto a quello che facciamo. Su questo fronte, soprattutto, si sta sviluppando la protesta dei lavoratori. Spettacolo e politica non riescono a comprendere una il linguaggio dell’altro e trovano raramente un punto di incontro. Lo vediamo nei sistemi grandi (se pensiamo a come sia stato fino ad ora fallimentare il progetto dei teatri nazionali o a certi bandi istituzionali che costruiscono cattedrali nel deserto ) e in quelli piccoli (un comune che inaugura un teatro senza la graticcia o con il palco in marmo).  Con chi te la prendi? Con il fatto che non si interpellano le persone che fanno questo mestiere. Parlare di tutto questo in Sicilia è ancora, se possibile, più complicato, considerando che è una delle poche regioni a non avere un circuito teatrale. Un vero peccato, con tutti gli spazi straordinari che abbiamo. Iniziative come la Rete Latitudini o i festival di Tindari e Segesta andrebbero sostenute, cavalcate e non ignorate. La strada che abbiamo di fronte è lunga e difficile, forse i risultati non si avranno adesso, ma in futuro, per le generazioni che verranno. Siamo stati buoni con i maestri che ci hanno preceduto, non li abbiamo divorati in salsa piccante, come suggeriva di fare Pasolini. Loro però, mi permetto di dire, si sono preoccupati ben poco di pensare a coloro che sarebbero venuti dopo. Sono fiducioso che, in questo, non seguiremo il loro esempio.

 

Qui tutte le info sugli spettacoli finalisti di In-box 2020

 

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