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Marco D’Agostin. La danza prima, e dopo, la distruzione

Marco D’Agostin presenta il suo ultimo lavoro Avalanche, in prima nazionale a Inteatro Festival. Recensione

Foto di Alice Brazzit

Prima che tutto venga travolto, lasciamoci guardare; i nostri nomi e quelli dei nostri amici facciamoli risuonare, compitiamoli come se li udissimo per l’ultima volta nello spazio di un vuoto rarefatto. Ascoltiamo il movimento, ancora, percepiamone la densità scalfita nell’aria; non abbandoniamolo, non dimentichiamolo. Sedimentare la parola e il gesto, raccogliere insieme le macerie di una distruzione già avvenuta e amare quelle macerie perché solo da lì, dalla furia naturale della distruzione, si può ricostruire. Di nuovo, dopo la valanga. Avalanche: «Tutto quello che non è sopravvissuto agisce, invisibile, su tutto ciò che invece è rimasto e che viene revocato come regola, collezione, elenco di possibilità». “Nel dopo” di questo momento, stanno Marco D’Agostin e Teresa Silva, agenti di una “stratificazione coreografica” che ha a che vedere con la geologia dei minerali, la cristallizzazione lucente di schegge di movimento, presentata in prima nazionale a Inteatro Festival, lavoro coerente con l’idea duplice di decostruzione e memoria per la quale si è distinta quest’ultima edizione della storica rassegna di Polverigi.

Foto di Alice Brazzit

Forse due astronauti, colonizzatori di un pianeta vergine oppure due ritornati Adamo ed Eva in tuta operaia; i danzatori D’Agostin e Silva lavorano e faticano ad articolare parola: mugugnano suoni, soffiano vocali morbide e corpose, le lasciano depositare sugli accennati, ma decisi movimenti che sondano una nuova dimensione dell’esserci. Gradualmente distinguiamo parole che si diranno in lingue diverse, una decostruzione esplosa del senso, un’altra, che travalica il suo stesso concettualismo per farsi archivio della permanenza. Le partiture veicolano un’indagine che, prima di dispiegarsi nel movimento, gioca con la lingua (vocal coach Melanie Pappenheim) – fusione sincretica tra italiano, inglese, francese, portoghese – e il linguaggio coreografico (movement coach Marta Ciappina), l’una rifrazione indispensabile per l’altro. «La questione del limite e dunque, in ultima istanza, della fine» continuiamo a leggere dal programma di sala mentre ascoltiamo The Disintegration Loops di William Basinski, a cui il coreografo si dichiara affezionato, ma affezionato a cosa? All’incontro tra limite e fine nella disintegrazione reiterata: si ascolta e esperisce ciò che cessa di esistere, e nella riproposizione della sua morte ecco che gli si dà nuova vita, imperitura.

Foto di Alice Brazzit

«Quello che vedrai è già successo» si sente dire più volte inframezzato dalle pieghe sonore di Pablo Esbert Lilienfeld, elettronicamente contigue a quelle di Basinski per le modalità attraverso cui ricreano un ambiente desolato; e quell’accaduto lo si guarda anche. Ma come? Con occhi spersi, assenti a tratti, in altri socchiusi, spaventati, coperti quasi a volerli proteggere, prepararli con la giusta precauzione alla luce di un nuovo pianeta che secondo Abigail Fowler, light designer, è illuminato con algida nettezza. La parola è in anticipo della distruzione, la lingua si articola per ricordare, il linguaggio del corpo viene cesellato per costituirsi archivio della fine. Quasi a voler contenere il nuovo progetto, First Love, al quale Marco D’Agostin sta lavorando in questi giorni e che sembra proseguire quell’analisi sulle macerie dandole però ora un segno diverso, facendosi narrazione documentata attraverso scatti quotidiani di momenti che permangono; momenti, appunto, salvati.

Una brand new dance che fa della parola la condizione fondante al movimento e alla relazione tra i due danzatori. La parola determina infatti la coreografia arrivando per giunta a gravare su di essa, come verso il climax finale in cui Teresa Silva si piega al peso di ciò che pronuncia e viene annientata, di risposta Marco D’Agostin perde il controllo del gesto, come se rimanesse orfano di una guida, di una regola. Nel silenzio percepiamo la valanga imminente, l’arrivo della perdita, il suo rapido sopraggiungere… Restiamo, nuovamente, muti e immobili.

Lucia Medri

Inteatro Festival, Polverigi – giugno 2018

AVALANCHE
di Marco D’Agostin
con Marco D’Agostin, Teresa Silva
suono Pablo Esbert Lilienfeld
luci Abigail Fowler
movement coach Marta Ciappina
vocal coach Melanie Pappenheim
direzione tecnica Paolo Tizianel
cura e promozione Marco Villari
coprodotto da Rencontres Choréographiques Internationales de Seine-Saint-Denis, VAN, Marche Teatro, CCN de Nantes
con il supporto di O Espaco do Tempo, Centrale Fies, PACT Zollverein, CSC/OperaEstate Festival, Tanzhaus Zurich, Sala Hiroshima, ResiDance XL
Progetto selezionato nell’ambito del bando Marche Teatro / Inteatro Festival Call

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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