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Romeo Castellucci. Giulio Cesare e l’ars retorica

Romeo Castellucci torna con Giulio Cesare. Pezzi staccati alla Biennale Teatro 2015

 

romeo castellucci
Foto Carolina Farina

Venezia è un albergo. Scattano fotografie con il dito fulmineo sul grilletto, non guardano ciò che ritraggono, ci si mettono in mezzo e fanno un sorriso plasticato, poi felici scappano da un ponte all’altro ma non se ne accorgono di camminare sul confine dell’esistenza, su questa città limite cui non basta un po’ di edifici per dirsi, anche vagamente, terraferma. Turisti vanno e vengono in questa città che non conosce silenzio, se non quello delle notti desolate in cui gli spiriti non sanno penetrare finestre e sonni d’abitanti, restano per strada a sibilare tra i calli e le sporgenze delle palafitte. E poi il silenzio, altro, quello dell’arte. C’è quella cavità del pensiero in cui s’infittiscono le resistenze alla dispersione, alla complessità di un’area urbana scomposta e multiforme, qui dove il silenzio prende la qualità dell’attesa, degli indugi, s’innesta un curioso paradosso: il teatro, arte di dispersione per eccellenza, nella città dell’illusione è costretto a cercare una via di concretezza. In questo andirivieni di respiro è la Biennale Teatro 2015, soprattutto quando prende le forme gassose di un’opera come il Giulio Cesare. Pezzi staccati di Romeo Castellucci, penetrata fin dentro il Cortile del Conservatorio Benedetto Marcello con una visione difficile da dimenticare.

romeo castellucci
Foto Carolina Farina

Era il 1997 quando il Giulio Cesare firmato da Castellucci per la Societas Raffaello Sanzio si presentava sulle scene italiane; lo spettacolo di oggi è stato ripreso già un anno fa per le celebrazioni della città di Bologna al regista romagnolo, con il progetto e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale. Revival? Forse. Eppure questa forma “elementare” torna con una forza cui s’approccia anche chi non ne avesse goduto allora, in cui risuona non la rincorsa a una gloria perduta e forse non rinnovabile ma l’esigenza di riagguantare ciò che ancora vivo, nel tempo presente, all’opera appartiene. Già, perché se quel Giulio Cesare shakespeariano poggiava su due momenti sequenziali, le parole odierne di Castellucci ne riportano un segno distintivo inequivocabile: le «parole intese come arma, come controllo» della prima parte, lasciano il campo alla solidificazione che ne dissipa l’origine materiale e rende il linguaggio un edificio statico, privo di tensione al mutamento.

Un piedistallo statuario al centro del cortile, le finestre non impediscono l’aria né il volo funesto dei piccioni. È il discorso del ciabattino (Simone Toni, con al petto il nome di “…vskij”, omaggio forse datato a Stanislavskij) che introduce ciò che avverrà nel Senato romano; grazie a un endoscopio nella narice una microcamera proietta sulla parete in fondo non le parole ma la loro efficacia metaforica. Il busto di Cesare cala dall’alto per una corda, appeso a testa in giù; ma è lo stesso Cesare (Gianni Plazzi) che si presenta all’uditorio, la sonorizzazione dei gesti sostituisce le parole del monologo, o ancor meglio, le produce in una forma dinamizzata, interpreta – oltre le intenzioni – le sinistre conseguenze di un testamento del potere. Perché al suo seno cresce chi lo ucciderà, al suo seno attenta la mano omicida. Nella tunica rossa il corpo diviene un sarcofago, eternalizzato e trascinato via, chissà se per una sepoltura o per la divinizzazione. Sarà per abbandonare o conservare?

romeo castellucci
Foto Carolina Farina

Tocca a Marcantonio una possibile risposta, perché in lui la ferita non è così presto rimarginata e si scava nella caverna di un’impossibilità linguistica, l’orazione funebre è afona, lo stesso attore Dalmazio Masini è laringectomizzato e costretto dunque a una “tecnica” fonatoria prodotta dalla stessa ferita inferta. Egli che si cosparge il volto del sangue e dello stesso mostra la mano, esibisce di Cesare il mantello, un brandello di plastica da impalcature; eppure, anche in assenza del corpo, quindi della fonia riconoscibile, è chiara ogni pugnalata che non ascoltiamo, così com’è chiara la mano colpevole. Poco prima che le eliche esploderanno una a una tutte le lampadine – e così Cesare, lo Stato, noi – strette nella morsa che le estingue, Marcantonio usa ogni elemento del potere per denunciarne l’aberrazione, indica il piedistallo dov’è scritto ARS, retorica, viene da pensare, indicando così che nel sangue è già l’azione che ne lava i residui. Abbandonare è, dunque, conservare.

Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia

Conservatorio Benedetto Marcello, Biennale Teatro 2015 – Venezia, Agosto 2015

GIULIO CESARE. PEZZI STACCATI
intervento drammatico su W. Shakespeare
ideazione e regia Romeo Castellucci
con Dalmazio Masini, Simone Toni, Gianni Plazzi
assistente alla regia Silvano Voltolina
tecnica Stefano Carboni
produzione Socìetas Raffaello Sanzio
in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Bologna

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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