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La danza salvata dai ragazzini – 1/3

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Qualche riflessione sull’estetica della danza dedicata al pubblico dei più piccoli.

Capitolo 1 di 3. Leggi il secondo e il terzo capitolo.

uppercut alice
I am – foto di Carsten Snejbjerg

Esempio uno. Quattro ballerini di breakdance tormentano una povera, esile ma flessuosa danzatrice bionda, piccola e impaurita, ma decisa a passare incolume attraverso un lungo viaggio iniziatico. Tra un divano e una piattaforma di legno inclinata, tra salti vertiginosi e atterraggi che non fanno rumore, sotto fasci di luce e piogge di effetti sonori, il puro movimento della danza jazz, contemporanea e break – forsennato, muscolare e straordinariamente preciso – ricostruisce alcuni episodi di Alice in Wonderland e Attraverso lo specchio di Lewis Carroll. La questione dei sessi emerge evidente, mentre il corpo femminile viene accerchiato, tirato, sollevato, sospinto e scacciato dai quattro maschili, in un ritmo tachicardico, al suono di una musica che scandisce il piegarsi di ogni articolazione. I nostri occhi rivivono le avventure di Alice, ricreate dalla danza come l’espressione fisica ed espressiva di movimenti interni, dalla ricerca dell’individualità verso un disperato rito liberatorio, un sogno a occhi aperti in cui il corpo è il contenitore del senso. I am, Uppercut Danseteater.

Esempio due. Un uomo e una donna, due panche su cui sedersi o camminare, due teche di plexiglass appena della loro misura, come camere di contenimento per una irrinunciabile separazione dell’io. I due si cercano, si trovano, si amano, prima di rendersi conto di non volersi più, di non riuscire più a toccarsi. Con una forte vena ironica, i corpi si scoprono e si sfuggono, si confessano segreti, mettendo in scena con fluidità e sincerità i punti di unione e di separazione tra due sessi. Nei loro occhi fiammeggia la passione e, nei guizzi di una danza ordinata che però si lascia attraversare da energie complesse e da venti d’influenza provenienti dal mimo e dal teatro fisico, il linguaggio jazz si mescola al puro contemporaneo per poi aprirsi a generosi flussi di testo parlato, monologhi interiori declamati con gli occhi persi nel vuoto. Sand Forvirring, Teater Minsk / ZeBU.

asterions hus romeo
Juliet & Romeo – foto da Youtube

Esempio tre. Romeo e Giulietta. Alto e possente lui, barba bionda e grosse braccia scoperte, minuta e muscolosa lei, col ritmo vivo di una scintilla e gli occhi espressivi come quelli di uno scoiattolo. La popolare tragedia di Shakespeare è condensata nell’incontro tra due corpi, nelle loro evidenti differenze, dove si raccolgono i presupposti di un amore che il destino non permetterà. Con l’aiuto di pochi oggetti e azionando un moto che non si arresterà mai, i due finiscono quasi subito a replicare in maniera estenuante la scena tragica della morte, uno nelle braccia dell’altra. Al risuonare tuonante di una marcia funebre, la patetica interpretazione – che si rifà al celebre epilogo in cui Romeo, ignaro del piano architettato da Giulietta e da Frate Lorenzo, si toglie la vita sul presunto cadavere di lei un attimo prima che ella si ridesti dalla finta morte – diventa un leitmotiv esilarante, una sorta di finale obbligato cui nessun tentativo di unione riesce a resistere. La danza è volutamente disordinata e sporca, inserita dentro i ritmi e gli schemi di una sorta di vaudeville di teatro fisico. Juliet & Romeo, Asterions Hus.

Che cosa hanno in comune questi tre esempi? Il fatto di essere stati presentati dentro un festival per bambini, Aprilfestival, da quarantaquattro anni un’istituzione stabile (e però itinerante) nei circuiti teatrali di Danimarca. Un paese piccolo la Danimarca, certo, con una popolazione esigua ben soddisfatta dall’economia comunque fiorente: questo per dire che alcune virtù di sistema si basano anche su un benessere generale. Ma a fare la differenza – nelle arti in generale, ma in particolare nella danza e nel teatro indirizzati al pubblico dei bambini – è un preciso atteggiamento di principio, che pone la cultura e le creazioni come capisaldi della formazione di un paese.

sand forvirring zebu
Sand Forvirring – foto Ufficio Stampa

Va da sé che la qualità dei lavori presentati sia sempre alta e coraggiosa: i linguaggi che si incontrano sulle scene possono fare affidamento su uno spettatore già molto ben alfabetizzato, che conosce i codici performativi ed è – anche in tenera età – aperto ad assorbirne di nuovi. Abbiamo cominciato portando tre esempi selezionati fra la grande quantità di spettacoli visti all’edizione 2014 del festival (Holstebro, Danimarca, dal 31 marzo al 6 aprile 2014). In mezzo a teatro puro, teatro di figura, teatro visuale, teatro musicale e circo, grande spazio è riservato anche alla danza. Una danza in tutto e per tutto formalizzata, che non scende a compromessi per raggiungere un pubblico specifico, che sembra muoversi liberamente tra un genere e l’altro, alla ricerca dell’espressività più completa.
Una delle questioni più ampie e complesse sul linguaggio della danza riguarda senza dubbio la sua possibilità di essere afferrato da pubblici diversi. A fare l’avvocato del diavolo da una e dall’altra parte, si potrebbe dire che i danzatori e i coreografi spesso vorrebbero avere davanti solo fruitori specializzati, in grado di cogliere tutte le possibili sfumature del loro lavoro esattamente nel modo in cui le avevano pensate; ma anche che il pubblico (e, ancor più, la critica) vorrebbe avere davanti un tipo preciso di danza, un movimento immediatamente individuabile, pur nel suo potenziale astratto, in modo da essere inserito in precise categorie. È però un dato di fatto che la componente astratta è anche ciò che più di ogni altra cosa avvicina l’esercizio delle arti sceniche alla comprensione dei più piccoli, che tutte le categorie ben note agli adulti ancora non conoscono e che invece si lasciano attraversare dal messaggio lanciato in modo, certo, tutt’altro che inerte e anzi con uno spirito critico guidato dalla più spietata e trasparente permeabilità, ma pure forti di un immaginario di fantasia e di associazione mentale ancora tutto da costruire.

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

Parti di questo articolo, in lingua tedesca, sono apparse sul mensile Tanz. Per gentile concessione.

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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