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Il ’77 di Pirani e Scotti. La rivoluzione nell’anno de I Giusti

Il ’77. Non sono tanti gli anni cardine della storia italiana ad essere rimasti autonomi dall’epoca in corso, come significassero da soli qualcosa che la storia avrebbe giudicato. C’è il ’22 che dà inizio al Fascismo, il 43′ dell’invasione tedesca, il ’68 delle rivolte studentesche che molti tendono a identificare, una generazione più tardi, con un nuovo e più aspro corso rivoltoso: appunto, il ’77. Ma non c’è errore maggiore che considerare questi anni scevri dell’epoca che li avvolge. Al di là dell’ovvio flusso che coinvolge i cittadini nella storia, determinati da essa e per essa determinanti, con la conseguente perdita di contestualizzazione e quindi di significato completo, c’è un altro motivo fondante che risponde alla categorizzazione della storia in una conformazione immobile, incapace così di restituire alla visione la tridimensionalità degli eventi, con le loro sporgenze, le parti chiare e quelle in ombra. Di tanti, quest’anno è fra i più recenti a subire questo processo. La generazione di chi allora aveva vent’anni, oggi non ne ha ancora sessanta e ha dovuto fare i conti con l’impianto accusatorio che chiede conto del clima di violenza e sovversione respirato in quegli anni. Conseguenza di ciò è stata per molti, per troppi, quella di chiudersi in una forma di penitenza privata, compitando il proprio spunto rivoluzionario con una coscienza punitiva e, quindi, ritratta in sé stessa, non più per la collettività.

La lunga introduzione è necessaria per dare conto di uno spettacolo difficile da accettare e per questo importante, realizzato grazie a una collaborazione ibrida che scavalca le generazioni: un’autrice che quegli anni li ha vissuti e ha sentito la necessità di farne narrazione e un gruppo di attori giovani, quasi nessuno ancora nato all’epoca dei fatti. ’77 La rivoluzione è finita. Abbiamo vinto, scritto da Francesca Pirani che collabora anche alla regia di Eugenia Scotti, è uno spettacolo che mette in scena il quotidiano di quegli anni, scene di vita collettiva in cui forte era il dibattito, il confine labile fra pensiero e azione, la differenza col movimento studentesco di dieci anni prima forse riconducibile appena all’uso di un verbo: l’idea prima che tutto potesse cambiare era ormai diventata irrimediabilmente l’idea che tutto dovesse cambiare.

Nello spazio non c’è niente, i nove attori iniziano tutti in scena e si muovono attorno a un grande tavolo oppure a un materasso in terra. Una telefonata in radio e la ricerca di un’umanità che si sta perdendo è il punto di partenza e forse proprio l’intero tema della vicenda. Un gruppo di ragazzi sta per fare una scelta determinante: la clandestinità, la lotta armata. Attraverso i loro dialoghi riscopriamo urgenze nobili ma cristallizzate, diremmo ideologiche. Prende, ad ascoltarli, un sentimento misto di sdegno per l’azione e rimpianto per il pensiero. È un sentimento senza pace, senza redenzione. Ma lo spettacolo va avanti in fretta, si vedono questi ragazzi nel momento di passaggio in cui sono mescolati la responsabilità e l’incoscienza, come quell’accendersi una sigaretta, o una candela, in una stanza dove si fabbricano bombe molotov; misurano le proprie ansie e i timori individuali e collettivi, quasi incapaci di distinguere i due momenti esistenziali. Non è un caso, dunque, che alle scene contemporanee si succedano scene in costume tratte da I Giusti di Albert Camus (1949), come un contraltare che ne fa contesto storico, in cui si prepara l’uccisione del granduca zio dello zar, motivata da grandi ideali di libertà. La realtà mescolata alla finzione di quella Russia, la teatralità che lo stesso Camus rintracciava già in Dostoevskij, il pensiero filosofico che ancora produce (e che ha prodotto un grande spettacolo in The coast of Utopia di Tom Stoppard), hanno un legame profondo con il tempo nostro contemporaneo e in questo spettacolo con efficacia e coraggio, grazie alla qualità di una regia disponibile agli attori e alla generosità che questi sanno mettere in campo (su tutti da segnalare le prove di Bernardo Casertano, Sebastiano Gavasso e Valeriano Solfiti), se ne rende il senso unitario.

Tutti i grandi movimenti popolari svolgono questa funzione di costituire date fulcro per le generazioni che vi si riconosceranno. Sarà per questo che il Teatro Tordinona era strapieno, lo sarebbe stato anche il giorno successivo, ben venti persone sono state rimandate a casa per incapacità di stiparle ancora nella rinnovata sala romana. È questo un dato fondamentale, una partecipazione forse non cosciente ma innegabile per la volontà che esprime: è il momento di riaprire le casse della coscienza, scardinare l’oblio che ha disperso una generazione non pervenuta, madre assente di figli che hanno ricostruito una famiglia dalle poche foto trovate in un cassetto nel mobile di casa, su cui nel tempo s’è posato un velo che della storia fa polvere. Da sparo.

Simone Nebbia

Visto al Teatro Tordinona in marzo 2013

Guarda lo spettacolo completo su e-performance.tv

77 LA RIVOLUZIONE È FINITA. ABBIAMO VINTO
con Ugo Benini, Elvira Berarducci, Bernardo Casertano, Michele di Vito, Sebastiano Gavasso, Irene Maiorino, Francesca P.Pastanella, Adriano Saleri, F.Valeriano Solfiti
costumi Francesca Micheletti
scene Mirco Murgia
regia Francesca Pirani, Eugenia Scotti

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