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HomeArticoliTeatrosofia #78. La performatività in Democrito parte II

Teatrosofia #78. La performatività in Democrito parte II

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 78 ci guida all’interno della tradizione dei seguaci di Democrito intorno all’arte attoriale.

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 78, continua la riflessione sull’opera di democrito, portata avanti da alcuni seguaci, i Democritei già inaugurata nel n°68.

Painting by John Tenniel.

Tutti i grandi maestri trovano discepoli pronti a continuarne l’opera. Questo fu anche il caso del maestro Democrito, la cui indagine “sistemica” sul teatro, sull’attore o comunque sul concetto di “performativo” fu continuata da quattro dei suoi dieci discepoli: Anassarco di Abdera, Apollodoro di Cizico, Ecateo di Abdera, Nausifane di Teo. In un precedente appuntamento, abbiamo avuto modo di esaminare solo il pensiero del primo di questi filosofi e di concludere che egli rilesse in senso epistemologico la metafora della “vita come una recita”, interpretata dal maestro in senso etico. Oggi si esamineranno i contributi degli altri tre “Democritei”, che perlopiù hanno in comune un aspetto importante. Essi approfondiscono lo studio della componente “retorica” della recitazione e dei suoi effetti, che il loro maestro aveva già riscontrato.
Democrito nutriva, del resto, un notevole rispetto verso la pratica stessa della recitazione. Benché condannasse gli oratori loquaci che nascondono la verità dei fatti attraverso discorsi ingannevoli, egli comunque riconosceva al discorso orale un potere più forte rispetto all’oro e alle leggi scritte nell’esercitare la “psicagogia”, ossia nel convincere le anime umane a comportarsi secondo giustizia, mostrando che cosa ci sia di utile nel comportamento giusto. Se poi sono sue le sentenze raccolte sotto il nome di “Democrate”, il filosofo poteva anche aver pensato che i pensieri morali risultano efficaci non se vengono letti, bensì se vengono ascoltati rettamente. Democrito poteva aver così distinto una recitazione o psicagogia buona da una cattiva. L’una orienterebbe gli esseri umani alla virtù e alla verità, l’altra spingerebbe al vizio e alla menzogna
Fatto presente ciò, possiamo passare ai Democritei. Su Apollodoro abbiamo solo l’isolata ma eloquente notizia di Clemente di Alessandria. Egli riferisce che il Democriteo identificava il fine della vita umana nella “psicagogia”. Non sappiamo come Apollodoro fosse giunto a difendere questa dottrina morale. Dato che abbiamo tuttavia visto che Democrito identificava probabilmente una pratica psicagogica buona che esorta alla verità e alla virtù, è lecito presumere che il discepolo avesse esplicitato in senso tecnico quello che il maestro aveva espresso in termini discorsivi.
Sempre limitate dal punto di vista numerico sono le informazioni circa Ecateo, quanto meno se ci fermiamo a quelle che fanno in modo esplicito il suo nome. Sappiamo anzitutto dal Lessico ippocratico di Eroziano che l’Abderita volle ricostruire il significato del termine κυρβασία. L’ipotesi di Ecateo è che si tratti di una parola usata dai poeti comici per riferirsi al berretto indossato dai barbari, vale a dire alla “tiara”. Abbiamo poi contezza del fatto, tramite lo storico Diodoro Siculo ed Eliano, che l’Abderita studiò il mito degli Iperborei e della loro favolosa isola. Si vociferava che una primavera perpetua fosse evocata ogni diciannove anni da Apollo che suonava la cetra. Gli Iperborei avrebbero venerato a loro volta la divinità con musica e danze, a cui partecipavano in totale sincronia anche i cigni. Diodoro ed Eliano ci informano, insomma, che Ecateo studiò un mito che spiegava una dottrina fisica tramite l’atto performativo di un dio. Più in generale, ci mostrano che l’Abderita si interessò certamente al teatro dalla prospettiva filologica e storica.
Il numero delle informazioni aumenta, invece, se facciamo riferimento alle due fonti che potrebbero attingere al pensiero di Ecateo, ma che hanno un’affidabilità storica molto controversa. La prima fonte consiste in un passo di Clemente di Alessandria. A detta del testimone, Ecateo avrebbe menzionato in un’opera Su Abramo un testo perduto di Sofocle, dove si sostiene che esiste un’unica divinità che governa il cosmo ed è irrappresentabile attraverso le statue venerate nei culti religiosi.
Purtroppo, la fonte di Clemente è controversa sotto molti aspetti. La sua veridicità storica è infatti in forse perché è dubbio: (A) che Ecateo scrisse un’opera Su Abramo, dato che non abbiamo altre citazioni di un simile lavoro – essa potrebbe allora essere una falsificazione posteriore, di mano giudaica; (B) che Sofocle fu effettivamente l’autore di questi versi, in quanto nella sua opera poetica non troviamo espressa una concezione monoteistica della divinità così netta e forte. Per ridimensionare il punto (B), si potrebbe tuttavia ricordare che vedute in parte monoteistiche e critiche della religiosità si trovano in molti autori antichi, non ultimo Senofane, che asseriva che c’è un dio sommo, eccezionale per figura e forma, che coincide con il cosmo. Sofocle poteva allora aver scritto questi versi, magari attribuendoli a un personaggio influenzato dalle dottrine senofanee, o da alcune analoghe. La difficoltà espressa al punto (A) è di contro più insidiosa, sebbene si possa supporre che, se anche ci troviamo di fronte a un falso, il suo autore poteva aver comunque attinto al vero Ecateo. Sappiamo che quest’ultimo si era del resto occupato dei culti divini e del problema della rappresentabilità di dio, durante lo studio della religione degli Egizi. Costoro userebbero statue per venerare una divinità di cui non conoscono la forma, che forse coincide per loro con Ammone: il primo tra gli dèi, invisibile e nascosto, che è allora irrappresentabile mediante immagini. Constatato ciò, possiamo supporre che, se i versi sofoclei sono autentici, Ecateo potrebbe averli confrontati con le credenze egizie sul divino. In tal caso, potremo pensare che egli si interessò al teatro di Sofocle, fermo restando che si tratta di un’ipotesi inverificabile.
Ben più interessante è l’altra fonte controversa su Ecateo. Parliamo stavolta di un estratto da Diodoro Siculo, su un peculiare costume egizio. Lo storico riferisce che gli Egizi solevano risolvere le loro controversie giuridiche tramite dibattiti scritti e non orali, perché credeva che un’accusa o una difesa pronunciata oralmente non era un modo affidabile per giudicare in modo rigoroso. Accusati e accusatori fanno uso, infatti, dell’oratoria, del discorso compassionevole e dell’«incantesimo della recitazione» (τῆς ὑποκρίσεως γοητεία) per muovere i giudici a trascurare sia il contenuto delle leggi, sia la verità dei fatti. La recitazione risulta, da questa prospettiva, un veicolo di inganno, di psicagogia dannosa e di pietà che acceca la facoltà di giudizio. Il ricorso allo scritto da parte degli Egizi costituisce allora un modo per neutralizzare gli effetti perniciosi della magia ingannevole dello stile recitativo.
Si tratta di una concezione molto affascinante, che valuta il teatro dal punto di vista etico e conferma la tendenza generale antica a svalutare il teatro come una forma di inganno funesto. La sua attribuzione ad Ecateo rimane purtroppo controversa per un banale fatto. Diodoro – che pure come si è visto cita e conosce gli studi dell’Abderita sui costumi egizi – non fa qui più il suo nome. È solo supponendo che lo storico continui ad attingere ad Ecateo che risulta possibile attribuire al secondo questa originale concezione. In ogni caso, se anche l’Abderita registrò in effetti questa pratica egizia, non per questo possiamo dedurre che egli volesse approvarla anche dal punto di vista etico, tenendo appunto sempre in mente che Democrito riconosceva una pratica psicagogica buona. Il suo interesse poteva fermarsi di nuovo al livello esclusivamente storico e filologico, mentre sul piano morale poteva avere idee diverse e più consone a quelle del suo maestro.
Nausifane di Teo incarna infine il Democriteo che sviluppa al massimo grado l’apprezzamento di Democrito per il discorso orale o la recitazione “psicagogica”. Secondo quanto riferisce la parafrasi polemica che troviamo nel libro VIII della Retorica di Filodemo, tale filosofo era convinto che lo studio della fisica o della scienza della natura insegnasse a diventare dei perfetti retori politici. Gli argomenti proposti da Nausifane sono molti. L’unico che ci interessa davvero da vicino in questa sede è però quello che deduce che il filosofo politico diventa persuasivo o “psicagogico” perché conosce ciò che la natura umana desidera per sua struttura fisica, dunque convince a compiere o credere a qualcosa perché fa presa su ciò che è oggettivamente utile per gli uomini e le donne. Per esempio, come fa il politico che studia la fisica a convincere il suo uditorio che è meglio essere giusti e non ingiusti? Lo potrebbe fare dimostrando che, dato che sa che per natura l’essere umano trae utilità o giovamento dallo stato di quiete dell’anima, allora coltivare la giustizia è cosa migliore, giacché conduce a questa beata disposizione psichica, come insegnava sempre Democrito. Da questo punto di vista, il retore politico esercita con la recitazione una sorta di traduzione in atto di ciò che nella fisica rimane pura teoria. Per Nausifane non basta conoscere la natura e capire che la quiete dell’anima rappresenta il nostro bene. Occorre anche restituire ad altri questo sapere, attraverso un sapiente discorso performativo.
Si è così dimostrato come i tre Democritei analizzati proseguono, in positivo, una promettente pista di ricerca sul carattere “psicagogico” della recitazione, aperto con la consueta acutezza da Democrito. Dall’altro canto, però, possiamo notare in negativo come questo traguardo ha luogo a prezzo di una perdita. Con la riflessione di Apollodoro, Ecateo, Nausifane, si perde la vocazione “sistemica” che Democrito aveva assecondato. I suoi discepoli sembrano aver applicato al teatro, infatti, solo una tra le molteplici discipline da lui coltivate. Per sintetizzare il tutto con un’immagine, potremmo dire che la dottrina di Democrito fu come un grande arazzo da cui i vari Democritei ritagliarono un unico pezzo o lembo del disegno complessivo, facendone oggetto di riflessione a sé. Ciò che per il maestro rappresentava una visione d’insieme diventa per i discepoli uno studio specialistico.

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Ma anche gli Abderiti insegnano che nella vita esiste un fine: Democrito, nello scritto Sul fine della vita, lo ripone nella tranquillità dell’animo che egli chiama anche benessere. (…) Ecateo pone come fine il bastare a sé e Apollodoro di Cizico la psicagogia, come Nausifane l’imperturbabilità che, egli dice, è quella che Democrito chiamava intrepidezza (Clemente di Alessandria, Stromati, libro II, cap. 21, sezione 130, § 5 = Democrito, fr. 68 B 4 DK; Ecateo, fr. 73 A 4 DK; Apollodoro, fr. 74 A 1 DK; Nausifane 75 A 1 DK; trad. modificata)

Molti che compiono le azioni più malvage praticano i discorsi più nobili (Democrito, fr. 68 B 53a = Stobeo, Florilegio, libro II, cap. 15, § 33)

Tributare elogi per belle azioni è bello: giacché il dar lode a cattive azioni è indizio di birbanteria ed imbroglioneria (Democrito, fr. 68 B 63 DK = Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 14, § 8)

Bisogna dire la verità, non fare molti discorsi (Democrito, fr. 68 B 225 DK = Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 12, § 13)

Il discorso risulta molte volte più forte alla persuasione dell’oro (Democrito, fr. 68 B 51 DK = Stobeo, Florilegio, libro II, cap. 4, § 12)

Si manifesta migliore colui che fa uso di incitamento alla virtù e di persuasione col discorso, piuttosto che della legge e della costrizione. Infatti è probabile che commetta falli nascostamente colui che sia tenuto lontano dall’ingiustizia dalla legge, mentre colui che sia stato guidato a ciò che è dovuto con la persuasione non è probabile che compia qualcosa di stonato né di nascosto né in modo manifesto. E per questo che colui che agisce rettamente per coscienza e conoscenza diventa ad un tempo valoroso e di animo retto (Democrito, fr. 68 B 181 DK = Stobeo, Florilegio, libro II, cap. 31, § 59)

La legge ha l’intento di procurare vantaggio all’esistenza degli uomini; ma può procurarlo soltanto quando gli uomini stessi vogliano adattarsi alle condizioni vantaggiose; ed infatti la legge mostra la propria efficacia a coloro che accettano di obbedirle (Democrito, fr. 68 B 248 DK = Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 1, § 33)

Se uno ascolta queste mie massime con intelligenza compirà molte azioni degne di un uomo buono ed eviterà di compiere molte azioni malvagie (Democrate, Massime = Democrito [?], fr. 68 B 35 DK)

Κυρβασίην: la cosiddetta tiara. Ecateo dice che i comici chiamano così il berretto barbarico (Eroziano, Lessico ippocratico, κυρβασίην = Ecateo di Abdera, fr. 73 B 14 DK)

La razza degli Iperborei e gli onori che essi nel loro paese tributano ad Apollo è materia di canto per i poeti e viene esaltata anche dagli storici; tra questi c’è pure Ecateo, non quello di Mileto, ma quello di Abdera. Non mi sembra necessario riferire ora le molte e importanti notizie che egli fornisce; le rimando a un’altra occasione, proponendomi di riportarle in modo particolareggiato, quando ciò riuscirà più gradevole a me e più utile a coloro che mi ascoltano. Questa mia trattazione esige che io mi soffermi soltanto su ciò che sto per dire adesso. Apollo ha come suoi ministri i figli di Borea e di Chione, tre di numero, fratelli per nascita, alti sei cubiti. Quando essi celebrano, durante la festa tradizionale, la cerimonia in onore del dio, ecco che dai monti chiamati Rifei giungono in volo innumerevoli nugoli di cigni, i quali, dopo aver circondato il tempio quasi volessero purificarlo col loro volo, scendono nel recinto, che è di proporzioni grandiose e bellissimo. Quando dunque i cantori innalzano al dio il loro canto e i citaristi accompagnano il coro con la loro musica piena di armonia, allora anche i cigni unendosi a loro fanno sentire la loro voce melodiosa, senza mai stonature o stecche; come se ricevessero l’intonazione dall’istruttore del coro, cantano all’unisono con gli indigeni, esperti conoscitori della musica sacra. Terminato l’inno, quei coristi alati (chiamiamoli così), dopo aver compiuto in onore del dio i riti tradizionali e aver soavemente cantato le sue lodi per tutta la giornata, se ne vanno via (Ecateo di Abdera, 73 B 3 DK, FGrHist 264 F 12 = Eliano, La natura degli animali, libro XI, cap. 1; trad. Francesco Maspero)

Di coloro che raccolsero gli antichi racconti mitici Ecateo ed alcuni altri dicono che nella zona dirimpetto alla regione celtica in mezzo all’Oceano vi è un’isola di estensione non inferiore alla Sicilia. Essa si trova a settentrione ed è abitata da popoli denominati Iperborei pel fatto di dimorare molto al di là del vento di borea; ed avendo quest’isola un suolo ferace e produttore di ogni frutto e godendo un’eccezionale mitezza di clima, produce due raccolti all’anno. (…) Dicono poi [Ecateo e altri] che anche la luna da quest’isola appare assai poco distante dalla terra e presenta delle alture visibili di aspetto simile a quelle della terra. (6) Si dice pure che il dio si reca nell’isola ogni diciannove anni, quando giungono a compimento le rivoluzioni periodiche degli astri; e appunto per questo il periodo di diciannove anni è chiamato dai Greci grande anno. (7) Durante questa sua apparizione il dio tutte le notti ininterrottamente suona la cetra e dirige le danze dell’equinozio di primavera sino al levar delle Pleiadi, godendo delle giornate serene da lui stesso concesse. Regnano in questa città ed esercitano l’autorità religiosa quelli che portano il nome di Boreadi perché discendenti di Borea e si tramandano sempre le cariche di generazione in generazione (Diodoro, Biblioteca storica, libro II, cap. 47, §§ 1 e 5-7 = fr. 73 B 5 DK)

In verità, anche la tragedia distoglie dagli idoli e insegna a sollevare lo sguardo al cielo. Sofocle, come attesta lo storico Ecateo nel libro Su Abramo e gli Egiziani, grida apertamente sulla scena: «Uno solo per verità, uno solo è Dio, che fece il cielo e la terra vasta e l’onda rilucente del mare e la forza dei venti. Ma noi mortali, aberrando nel cuore in gran numero, innalzammo come conforto dei nostri affanni statue di dèi in pietra, o immagini di bronzo o d’oro lavorato o d’avorio. E a queste tributiamo sacrifici e vane feste, e c’illudiamo così d’essere pii!» (Clemente di Alessandria, Stromati, libro V, cap. 115, § 1 = Ecateo di Abdera, fr. 73 B 15 DK partim, FGrHist 264 F 24; Sofocle, fr. 618, dubbio; trad. Giovanni Pini)

Senofane di Colofone, insegnando che dio è uno e incorporeo, si esprime così: «Uno, dio, tra gli dèi e tra gli uomini il più grande, / né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza» (Senofane di Colofone, fr. 21 B 23 DK = Clemente di Alessandria, Stromati, libro V, cap. 14, sez. 109, § 1)

Il sole e la luna sono divinità, quello designato col nome di Osiride, questa col nome di Iside: ed essi sono simbolicamente rappresentati dallo scarabeo e dal serpente e dallo sparviero e da altri animali ancora, come riferisce Manetone nel Compendio della fisica ed Ecateo nel primo libro Sulla filosofia degli Egizi. Innalzano statue e templi perché non conoscono la forma della divinità (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, § 10 = Ecateo di Abdera, fr. 73 B 6 DK)

Mentre molti ritengono che il nome peculiare di Zeus presso gli Egizi sia Ammone… dice Ecateo di Abdera che gli Egizi adoperano questo nome anche tra di loro quando chiamano qualcuno: perché è un vocabolo che ha valore di appellativo. Perciò essi, invocando e pregando il primo degli dèi (che identificano con l’universo, appunto perché è invisibile e nascosto) affinché appaia visibile e manifesto ad essi, lo chiamano col nome di Ammone (Ecateo di Abdera, fr. 73 B 8 = Plutarco, Su Iside e Osiride, passo 354C8-D8)

Attenzione particolare gli Egiziani ponevano nell’amministrazione della giustizia, convinti che le sentenze pronunciate in tribunale avessero peso grandissimo sulla vita associata, sia in positivo che in negativo . Era infatti evidente ai loro occhi che, se i colpevoli di reati contro le leggi venivano puniti e le vittime dell’ingiustizia risarcite, in tal modo si sarebbe realizzata un’eccellente correzione delle trasgressioni; se invece il terrore che i colpevoli hanno dei tribunali fosse vanificato da danaro o da favori, vedevano che ne sarebbe derivato lo sconvolgimento della società. Ragion per cui, scegliendo come giudici comuni gli uomini migliori delle città più illustri, non venivano meno a tali propositi e convinzioni. Erano infatti soliti eleggere dieci giudici per ciascuna delle città di Eliopoli, di Tebe e di Menfi; e questo consesso di giudici non sembrava inferiore al Consiglio dell’Areopago di Atene o al Collegio degli Anziani di Sparta. Una volta riunitisi, i trenta sceglievano al loro interno il più nobile e lo nominavano giudice supremo; al suo posto la città di appartenenza inviava un altro giudice. Le indennità per far fronte ai bisogni erano pagate dal re, ai giudici in misura sufficiente al loro mantenimento, ma in misura assai maggiore al giudice supremo. Costui portava al collo, appesa ad un a catena d’oro, una figurina fatta di pietre preziose che rappresentava la Verità; e i dibattiti avevano inizio appunto quando il giudice supremo indossava la catena con l’immagine della Verità. Posti accanto ai giudici gli otto volumi che contenevano l’intero corpo delle leggi, la procedura voleva che l’accusatore specificasse per iscritto i singoli capi di imputazione, le modalità del fatto e l’entità dell’offesa o del danno; poi, sempre secondo la procedura, il difensore, preso atto della valutazione della parte avversa, rispondeva per iscritto alle singole imputazioni, sostenendo che l’accusato non aveva commesso il fatto oppure, se l’aveva commesso, che non costituiva reato o ancora, se si trattava davvero di un reato, che meritava una pena minore. Successivamente era norma che l’accusatore replicasse per iscritto e che a sua volta il difensore presentasse le sue controdeduzioni. Dopo la consegna ai giudici dei due documenti scritti di entrambe le parti in causa, ai trenta spettava allora il compito di manifestare all’interno del consesso le proprie decisioni, mentre al giudice supremo era riservato l’ufficio di porre l’immagine della Verità su di una o sull’altra delle istanze presentate dalle parti in contesa. Questo era dunque il modo, secondo la tradizione, in cui si svolgevano tutti i processi in Egitto, nella certezza che a parole gli avvocati avrebbero oscurato in misura molto sensibile la giustizia. Sapevano infatti che l’arte degli oratori, il fascino dello stile declamatorio e le lacrime degli accusati inducono molte persone a trascurare il rigore delle leggi e la cura della verità; e spesso si erano visti giudici di grande esperienza e fama lasciarsi trascinare dall’eloquenza degli avvocati o per forza di inganni o di persuasione o di compassione. Se invece le parti in causa dovevano presentare le loro istanze per iscritto, era lecito aspettarsi giudizi rigorosi, in quanto si prendevano in considerazione i nudi fatti. In tal modo infatti gli intelligenti non sarebbero stati avvantaggiati nei confronti dei più tardi, gli esperti nei confronti degli inesperti e i bugiardi o gli audaci nei confronti di chi è sincero e di carattere riservato, ma tutti avrebbero avuto ciò che è giusto su di una base di eguaglianza, in quanto la legge concedeva tempo sufficiente alle controparti di esaminare le reciproche argomentazioni e ai giudici di giudicare la documentazione presentata dagli uni e dagli altri. (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro I, capp. 75-76 = Ecateo di Abdera, FGrHist 264 F 24)

Infatti in tal modo [il filosofo], parlando di ciò che ha la massima importanza, riuscirà a persuadere, dato che anche la moltitudine è pronta a rivolgere a un tale argomento la più grande attenzione, perché ciò che produce la persuasione è il venir a conoscere donde ci verrà l’utile. E gli uomini che, se non si ricorre a questo genere di persuasione che mira al fine supremo della vita, divengono ingrati a quelli che sono stati loro maestri, non si lascerebbero persuadere da nessuno che volesse persuaderli per altra via. (…) Soltanto il fisico, che di questo ha scienza, col conoscere ciò che la natura richiede e col dirlo e con lo spiegare, mediante il suo dire, proprio ciò che è conforme al desiderio [degli ascoltatori], sarà in grado di persuadere. (…) Si adoperano [i retori] a persuadere [la moltitudine] appunto di ciò che essi sanno che quella desidera e di cui non si pentirà, perché essa decide conforme al proprio vantaggio (Filodemo, Retorica, libro VIII, pp. 9-10, colonne 7-8; p. 16, colonna 22, edizione di Sudhaus 1964, vol. II = Nausifane di Teo, fr. 75 B 2 DK)

L’esser giusti presenta questo pregio, che uno può sempre pronunciare il proprio giudizio con fermezza e con animo imperturbabile; mentre dell’essere ingiusti la conseguenza è il continuo timore di qualche male che possa venircene (Democrito, fr. 68 B 215 DK = Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 7, § 31)

[Laddove non diversamente indicato, tutte le citazioni di Democrito, i Democritei e Senofane sono tratte dalla traduzione italiana di Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969. Fa eccezione Ecateo di Abdera, i cui frammenti storici sono raccolti da Philippa Lang (ed.), Hekataios, in Brill’s New Jacoby, cap. 264, e la Retorica di Flodemo, edita da Siegfried Sudhaus, Philodemus. Volumina Rhetorica, 3 voll., Amsterdam, Teubner, 1964. Le altre traduzioni sp sono le seguenti: 1) Francesco Maspero (a cura di), Claudio Eliano. La natura degli animali, Milano, Rizzoli, 2002; 2) Giovanni Pini (a cura di), Clemente di Alessandria. Gli Stromati: note di vera filosofia, Roma, Edizioni Paoline, 2006]
 Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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