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Giuliana Musso. Frontiere di teatro civile

Giuliana Musso torna a Roma dopo otto anni grazie al Teatro Quarticciolo che ospita due eccellenti lavori: La fabbrica dei preti e Mio eroe. Recensione.

La fabbrica dei preti
foto Luciano Paselli
foto Luciano Paselli

La fabbrica dei preti è un tributo alla dimensione umana e affettiva dei preti. O forse no, la fabbrica dei preti è un tributo alla dimensione umana e affettiva degli uomini, al desiderio dell’altro, al filtro di una religiosità qualsiasi che forma e al contempo deforma; è mettersi in guardia di fronte all’ignoranza, alla paura, al terrore di ciò che siamo. Lo spettacolo di Giuliana Musso, finalmente a Roma al Teatro Biblioteca Quarticciolo, è un’opera di narrazione, un monologo civico che parla all’oggi e un documento storico dedicato a quei ragazzi che nel 1965 si sono ordinati sacerdoti, quei ragazzi che sono usciti da un seminario prima del “rivoluzionario” Concilio Vaticano II, e sono entrati nel mondo nell’era delle speranze posti-conciliari; e lì, in quel mondo, hanno provato a rimettere insieme i propri pezzi. È uno spettacolo in bilico tra l’indagine storica e l’ironia popolare, quell’ironia che appartiene al racconto orale e nella modulazione dei toni si dissolve in poesia. Ed è dedicato a Pier Antonio Bellina, sacerdote friulano, autore del libro La fabriche dai predis, che sembra essere sparito nel nulla e che torna a parlare nel testo e soprattutto nel vernacolo dell’attrice vicentina d’origine e udinese d’adozione.

foto Luciano Paselli
foto Luciano Paselli

Una volta varcata la soglia della “fabbrica”, tra le foto d’epoca in cui bambini e ragazzi vestiti da preti sono in fila, sorridono, giocano, studiano, guardano seri, assenti, la domanda che i tre protagonisti interpretati dall’attrice sembrano farsi è: «in cosa ci avete fatto credere?». Tre testimonianze, tre vite iniziate nel regime di quella fabbrica e finite più o meno silenziosamente nella “lotta di classe”. Giuliana Musso piega i tre preti sul suo corpo, trova i moti interni di rivolta a quella fabbrica che annichilisce nella sua comicità energica, senza mai irrigidire l’interpretazione nella retorica. E sui vestiti lasciati appesi alle sue spalle cuce i gesti di un teatro che viene voglia di portare addosso.
La fabbrica dei preti è una Pietà senza Madonna. È l’uomo lasciato morire senza l’abbraccio di una donna, che perde qualcosa di sé stesso. È il corpo femmineo della Musso che ci domanda se sembra un prete, è il farci credere che in quella voce non ci sia carezza femminile. E lo crediamo per tutto il tempo, mentre il testo descrive quelle vite di fede, mentre le foto rendono sensibili alla biografia dei visi, mentre il buio prepara all’epilogo. Perché infine, sì, «sono le persone che ci guariscono». E quell’attrice in chiusura, quella donna che abbraccia l’abito talare – come fosse un giovane prete – tra le sue braccia, ci regala i cinque minuti d’amore di cui quei tre uomini – e noi – hanno bisogno per riallineare il mondo affettivo con l’imperativo del dover credere costantemente, in maniera cieca, a questa vita.

Luca Lòtano

Mio Eroe
giuliana musso
Foto Luigi De Frenza

“Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio”, queste le parole di Maria ai piedi della Croce ne La Buona Novella di Fabrizio De Andrè, Maria madre tra le due madri di altri figli, figli dell’uomo, figli di Dio. Tre sono le madri di figli soldati (come tre le storie di La fabbrica dei preti) che Giuliana Musso fa fluire dalle parole ora sommesse, ora furenti, ora desolate o ferite, dedicate ai giovani Alpini partiti per l’Afghanistan da contingenti italiani. E mai più tornati. Il racconto si anima nella concavità della parabola il cui segmento unisce la vita di prima e quella di dopo, un segmento che parte da un’origine cristallizzata nella nostalgia della presenza e che ha termine nella conclusione nebulosa, la vaghezza di una imperdonabile assenza. Mio eroe – che riporta Giuliana Musso a Roma dopo un’assenza di otto anni e fresco vincitore del Premio Cassino Off 2017 – in tono confidenziale si affaccia tra le pieghe di un dolore intimo, familiare, rianima dai ricordi il percorso che ha condotto alla tragedia. Poteva essere previsto? Ci si può tirare indietro dalla missione? Perché chiamarla “di pace” quando questi ragazzi vanno in mezzo alla guerra?

foto Adriano Ferrara
foto Adriano Ferrara

Colpì qualche anno fa la scrittura di Giuliana Musso per la capacità di indagare una materia di sofferenza anche con la discutibilità della forma (così fu per il felice Tanti saluti), ora l’attrice e autrice, nel mezzo di un giardino di rose viola (che rimanda alla Valle delle Rose, luogo della tragedia) e seduta su una pila di tomi da enciclopedia casalinga, parla da dopo, con la voce di chi è rimasto. Le donne che la abitano hanno un comune destino, pur nato da differenti radici. Ecco dunque che la venatura di sofferenza si fa somigliante e sempre più spessa, la mescola dei sentimenti si indurisce e inarca le domande verso il basso: non è più il Dio di De Andrè cui riferirle, non è più il cielo de Le Troiane a cui mostrare la sorgente del sangue, è un Dio-Stato che esiste sulla Terra e non al di sopra, cui le stesse famiglie, i soldati, gli abitanti tutti appartengono; ad esso le donne chiedono non giustizia, ma definizione del perimetro di responsabilità, si lasciano sfuggire il dolore come un nascosto segreto dalla bocca, coscienti che non esiste risposta alle domande sotterrate nella terra dei figli perduti. Figli delle madri, figli della terra, figli della vita. Per converso, dunque, figli di uno Stato che ne determina i rischi e ne guida la sopravvivenza. Ma nell’amara accettazione del valore donato al rigore e all’etica umana, il vero motivo di fondo è una dignità estrema che attraversa ognuna delle storie, cui proprio la vocazione missionaria degli Alpini, storicamente, dona all’attrice la definizione più precisa, pur luttuosa: «gli Alpini non dicono: è morto; dicono: è andato avanti». Lungo la strada verso il cielo, gli uomini, muoiono con la faccia graffiata dalla terra.

Simone Nebbia

Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma – aprile 2017

LA FABBRICA DEI PRETI
di e con GIULIANA MUSSO
assistenza e ricerche fotografiche Tiziana De Mario
responsabile tecnico Claudio Parrino
collaborazione allestimento Massimo Somaglino
realizzazione video a cura di Giovanni Panozzo e di Gigi Zilli
elementi di scena a cura di Francesca Laurino
ricerche bibliografiche Francesca Del Mestre
consulenza musicale Riccardo Tordoni
produzione La Corte Ospitale

MIO EROE
di e con GIULIANA MUSSO
collaborazione alla drammaturgia Alberto Rizzi
scene e assistenza Tiziana De Mario
musiche eseguite da Andrea Musto
direzione tecnica Claudio “Poldo” Parrino
foto Adriano Ferrara
sarta Nuvia Valestri
organizzazione Miriam Paschini
produzione La Corte Ospitale

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