Cordelia - le Recensioni

HomeCordelia - le Recensioni

BRAVE (di Paola Bianchi e Valentina Bravetti)

Cominciamo dalla fine, dal termine degli applausi, quando il remix disco di A far l’amore comincia tu si prende la scena inaugurando un piccolo dance floor pubblico. Qualcuno dalle prime file della platea situata su tre lati della scena si alza e raggiunge Paola Bianchi e Valentina Bravetti, poi altre e altri. Danzano in scena da seduti, a gambe incrociate, a terra, e in ginocchio, proprio come è costretta a fare Valentina Bravetti a causa della malattia. All’inizio le due performer sono come un corpo unico Paola Bianchi tiene Valentina Bravetti vicino a sé, si comincia dai movimenti più piccoli, dai polsi fino alle gambe, ma i ruoli si invertiranno successivamente. Bianchi lavora da anni su una performatività che ha un tratto creativo documentaristico, alcuni dei suoi progetti hanno come obiettivo l’archiviazione delle posture e dei gesti attraverso la loro descrizione: avere a che fare con il corpo e igesti di qualcun altr*, nel caso di Brave in maniera diretta, tattile. È una danza ancorata al pavimento quella di Bianchi e Bravetti, eppure ha l'ambizione dell'elevazione ed è influenzata anche dalla Deposizione di Rosso Fiorentino. La prima fase è quasi di accudimento, ma senza pietismi: si muove con energia e precisione il corpo di Bianchi, insieme a quello di Bravetti, ma è pieno anche di umana simbiosi. Nella fase successiva il corpo di Bravetti può sperimentare la libertà del movimento, gli arti si muovono con lentezza e precisione ritmica; con un moto costante, ipnotico, la performer disegna un cerchio attorno allo spazio scenico. Intanto sul fondo l'altra scompone il movimento con dolorosa precisione. A Teatri di Vetro le comunità si ritrovano, si riconoscono, artiste e artisti assistono a vicenda a lavori e incontri di colleghi e colleghe. Sono giorni preziosi questi ricamati da Roberta Nicolai e dal suo gruppo a India (e prima al Teatro del Lido), che quest’anno hanno portato a Roma spettacoli che trovano con difficoltà delle repliche e  una comunità di riferimento nella Capitale. Ciò vale anche per quest'opera importante di Bianchi e Bravetti, che grazie a un crowfunding ha inoltre visto sbocciare un’importante ricerca sull’audiodescrizione per le persone cieche. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Teatro India per Teatri di Vetro; concept e coreografia Paola Bianchi creato e danzato da Valentina Bravetti e Paola Bianchi Crediti completi

ENTERTAINMENT (Menoventi)

Cosa domanda l’amore? Piuttosto plausibilmente, per Lacan l’amore domanda di mancare all’Altro, quello che ci sta sempre davanti, talmente onnipresente da farsi, appunto, mancanza, allucinazione. È esperienza comune quella mancanza che si fa ossessione, col conseguente paradosso: è possibile amare tanto qualcosa che, pur essendoci sempre, non c’è? Nelle pieghe dell’interrogativo Ivan Vyrypaev misura alcuni paradigmi della rappresentazione teatrale, squadernata come flusso erotico lungo un circuito mai chiuso tra attore-spettatore-personaggio. Due personaggi, un uomo e una donna, vanno a teatro. Tant* altr* uomini e donne, noi, andiamo con loro. Al di qua e al di là di una linea che non c’è ci sediamo, specchiandoci. Tamara Balducci e Francesco Pennacchia prendono posto su una gradinata, mentre il pubblico, ai piedi della tribuna, si scopre forse in scena, dopo aver attraversato distrattamente una quinta de facto. Ma lo spettacolo si svolge appena sopra le nostre teste, in un punto improprio all’altezza dello sguardo di Balducci e Pennacchia, che osservano l’azione invisibile, la commentano, si interrogano sui ruoli e sul confine tra gli (assenti?) attori e i loro (assenti?) personaggi. Un uomo e una donna, Steven e Margot, si corteggiano, nonostante la non-presenza della moglie di lui, che dilata il gioco. Balducci e Pennacchia sono prima spettatori che riferiscono l’azione, poi diventano Steven e Margot. Mescolando i toni del cinema americano degli anni ‘40 e di un teatro dell’assurdo rimasticato dal drammaturgo russo, Entertainment ci offre un gioco elegante e sfuggente che forse trova un limite proprio nella ritrita materia metateatrale. La sapienza attorale e la pulizia registica di Gianni Farina raggiungono però un grado metafisico nell’allungo finale quando, consumato (in remoto) l’amplesso amoroso, Steven e Margot restano imprigionati in un congedo finale ipnotico e misterioso, macchiettistico e toccante insieme nella reiterazione di un addio impossibile. Il grido degli amanti, d’altro canto, per Lacan è encore! (Andrea Zangari)

Visto a Teatro India per Teatri di Vetro; di Ivan Vyrypaev, con Tamara Balducci e Francesco Pennacchia, regia Gianni Farina, traduzione Teodoro Bonci del Bene, immagine Magda Guidi, voice over Consuelo Battiston

SOMEWHERE (di Lucia Guarino e Ilenia Romano)

La partitura coreografica, visiva, e sonora di Somewhere fa compiere un viaggio al pubblico in platea; la sensazione è di una sorta di incantamento, di torpore. Sarà il caldo della sala del Teatro India, sarà la cadenza ritmica dei movimenti, l’universo luminoso che gravita attorno fatto di linee iridescenti, bagliori, crepuscoli e albe; sarà ma, inaspettatamente insieme, Lucia Guarino e Ilenia Romano puntinano una dimensione di vuoto pneumatico con una coreografia dalle meccaniche veloci e ipnotiche fatta di gesti che come ingranaggi si corrispondono e si oppongono, molto introversi, sul posto, a disegnare una piccola porzione di spazio, “un cono di movimento” che poi si sposta, si muove, piroetta, e si allarga in altri angoli. Sia Guarino che Romano, con indosso maglie dai colori anch’essi antinomici, si dislocano in solitaria senza essere però isolate, “monadi” le chiameremmo di primo acchito ma non c’è nulla nelle loro traiettorie che sia autonomo: sin dai primi microscopici passi, riverberi e echi dinamici, fino alle nevrotiche scosse che dagli occhi e poi testa, collo e spina dorsale coinvolgono tutta la fisicità, e poi le spigolature e aperture, le corse, i salti; tutti i movimenti combaciano a distanza, si incastrano legando insieme l’habitat individuale delle singole danzatrici, e in questo caso coreografe, con quello dei luoghi le cui fotografie sono proiettate sullo sfondo. Il brutalismo e macrostrutturalismo delle Vele di Scampia, il Serpentone del Corviale, e di altri riconoscibili edifici diventano estensione inanimata e immobile degli “strutturalismi coreografici” costruiti in scena. Ma più che la desolazione e l’abbandono, i gesti di Guarino e Romano sembrano voler sondare la possibilità di colmare l’assenza sconfinata, di mettere il corpo al centro, anzi due corpi che si incontrano pur nelle deviazioni, ripensando la geografia urbana per creare una cartografia umana, fatta di calma e tensione, relazione e distacco, paura e incontro. (Lucia Medri)

Visto al Teatro India per Teatri di Vetro ideazione, creazione, interpretazione Lucia Guarino e Ilenia Romano, luce Gianni Staropoli, musiche AA.VV., con il sostegno amministrativo di Nexus Factory, con il sostegno alla residenza artistica di CURA centro umbro residenza artistica – Spazio ZUT, Teatri di Vetro – Triangolo Scaleno, Home- centro umbro residenze artistiche. Foto di Margherita Masé

LINGUA_DA CLAUDE CAHUN (di Alessandra Cristiani)

Andate a cercare un ritratto di Claude Cahun. Fatevi penetrare alla prima visione: qualcosa di disturbante e tenero vi confonde. Gli occhi sono tremendi, le linee ovoidali della sagoma del viso avvolgono le labbra, una fessura orizzontale che stride e taglia. Non dice ma parla, perplime e affascina, è sfuggente e impossibile da verbalizzare: è la sua resistenza surrealista dinanzi al tempo. La nettezza del volto, il cui sfondo ombrato delle foto degli anni trenta si concentra nel nero di un segno, la ritroviamo tracciata, sul pube pancia e sguardo di Alessandra Cristiani, che distesa a terra, in parallelo e di spalle, si volta con impercettibili movenze scoprendo “ciò che resta” di Cahun sul suo corpo. Il linguaggio è incarnato in lei, la lingua è muta. Non c’è articolazione verbale ma gestuale; linguistica è la posa plastica, ricurva, contratta, a nascondere proprio il volto, riferimento espressivo celato dalla chioma rossastra. Oltre la realtà, il surreale, è la perfezione circospetta con cui le braccia, avvolte in guanti bianchi, accostano al corpo una maschera bianca: nello spettatore si schiudono immaginari pittorici, fotografici, poetici che in maniera sinestetica si condensano nell’immanenza di Cristiani. La corporeità scrive ma viene anche scritta, attraverso parole che l’artista traccia con la china sul petto, gambe, piedi, braccia, per trasformare l’integrità bianca della nudità in un campo di incisione, dilatato e accogliente. Il pubblico anche sarà invitato a parlare scrivendo sul corpo dell’artista, un’azione non di marcatura ma di rivelazione incandescente. Dalla platea, il ritorno sul palco segna un cambiamento, comico, diremmo, e sanguinolento: il nero diventa rosso e si mescola alla veemenza di azioni più estatiche, spinte nell’insondabile, tra luce abbacinante e buio. Il suono compenetra la carne, che ride e piange e trema. Tutto è potenza nel piccolo grande mistero di Cristiani. Vorremmo abbracciarlo più spesso, avrebbe bisogno di più spazio per farsi spazio. (Lucia Medri)

Visto al Teatro India per Teatri di Vetro progetto e performance Alessandra Cristiani, suono Ivan Macera, musiche aggiuntive Alessandro Cortoni, luce Gianni Staropoli, produzione PinDoc, Foto di Margherita Masé

ALICE! È TARDI (di F. Pallara e R. Ferrari, Regia F. Pallara)

Tornando, dopo una prima versione nel 2014, sul classico di Lewis Carroll, Alice! è tardi del teatrodelleapparizioni è un esperimento di linguaggio scenico su una delle tradizioni più fortunate del teatro di figura, il burattino a guanto. Con due piani per ambientare diverse linee narrative, la baracca disegnata da Marco Lucci ospita l’ottimo debutto di Eleonora Bracci accanto a Francesco Picciotti, ormai artigiano della manipolazione degno delle più floride famiglie di pupari. Wonderland diventa un Giardino, un mondo arcadico di calma e leggerezza; più che un inquietante labirinto, quasi un’utopia à la Hume, che chiede di farsi piccoli e arguti, atti a scomparire dentro alle piccole o meno piccole peripezie del quotidiano. In questo affascinante Altrove si è tutti conigli: Alice è la figlia del Bianconiglio, padre premuroso che se la perde per strada per inseguire il ritmo frenetico della vita adulta; altri non è che Alice stessa, più grande in scala. Terzo coniglio quasi identico, entità di mezzo tra infanzia e maturità, è una coscienza parlante, la cui sottile resa semantica deve essere ancora perfezionata. Mescolando pupazzi e peluches si ottiene una consistenza soffice e solo in apparenza rassicurante, una plasticità tutta nuova per una manipolazione di alto livello: con prismatici registri vocali e una solida destrezza nella manovra nascosta, tutto scorre fluido tra sipari, mini-set e chirurgici puntamenti luce. In una baracca dalla inedita profondità di campo, Fabrizio Pallara (che firma la drammaturgia con Roberta Ferrari) è in grado di disegnare un mondo altro dove, come nella fantasia infante, tutto è plausibile. Tra Humpty-Dumpty, Cappellaio, Bruco e una Regina di Cuori severa maestra, questa geniale compagnia di ricerca per (tutte) le nuove generazioni posiziona ancora il discorso su un livello alto e stratificato, senza timore di rendere un complesso ragionamento sul valore e lo strapotere del Tempo, evocato, a una maniera quasi cechoviana, come possibile alleato ma pure carnefice silenzioso e fatale. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro di Roma - Torlonia, Crediti: da Lewis Carroll; un'idea di Fabrizio Pallara; drammaturgia Roberta Ferrari e Fabrizio Pallara; regia Fabrizio Pallara; con Eleonora Bracci e Francesco Picciotti; produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG con teatrodelleapparizioni

CONFINI DISUMANI (Equilibrio Dinamico)

La compagnia Equilibrio Dinamico porta in scena, nella suggestiva coreografia di Roberta Ferrara, un corpo compatto fatto di migliaia di corpi. Sotto le luci degli elementi naturali che sfaldano i contorni già di per sé confusi, un coro compatto appare dal fondo: è un movimento continuo lento, oscillatorio, un trascinarsi con ostinazione come un mare senza limitazioni di costa. L’elemento naturale, di acqua e di sabbia, è a sua volta evocato in maniera pervasiva da un repertorio musicale che riproduce più che un’idea universale di Mediterraneo, una più semplice e immediata di Sud. Come ogni mare, il coro compatto ha le sue correnti interne, e dal lento fluire il ritmo deflagra in una forsennata fuga circolare da cui emergono i singoli, la cui corsa in prima fila diventa emblematica quanto un’antica immagine sacra. Persino gli attimi in cui il coro, frantumato in singole componenti che si ricompattano momentaneamente nello scontro per poi sospingersi lontano, hanno il portato del sacro. Il misticismo, traghettato dall’elemento della perenne sofferenza corporale, si estende su tutta la scena per attribuire una dignità altrove rifiutata; ma vi riesce in parte, perché è un senso di imponenza che distrae. Un pensiero laterale, una riflessione sulle note di regia che partono dalla scrittura emotivamente troppo semplicistica di Erri De Luca; una scrittura che ha comunque contribuito, in scena, a formulare immagini di notevole spessore figurativo e di un non trascurabile impatto emotivo, ma su cui è necessario postillare: la disumanità non è un qualcosa che esiste, ma è un processo di elaborazione del senso di colpa che porta a vedere nell’altro esclusivamente il dolore che gli viene provocato (il più delle volte da chi poi elabora l’idea di disumanità), commettendo l’errore di identificare quell’altro col solo dolore, senza che ci sia una storia individuale a controbilanciare. Semplificando: quella dell’esule e della vittima di guerra è una categoria compattante di facce tutte uguali che esclude le vite. (Valentina V. Mancini)

Visto al Piccolo Bellini; Crediti: Compagnia Equilibrio Dinamico; Concept e coreografie Roberta Ferrara; Disegno luci Roberto Colabufo; Costumi Franco Colamorea; Produzione Equilibrio Dinamico; Con il sostegno di Teatro Koreja

MARIA STUARDA (di Davide Livermore)

Sembra che per Davide Livermore il teatro sia un gigantesco corpo da travestire e scuotere a suo piacimento, godendone gli effetti grotteschi e seducenti. Il suo Maria Stuarda è un oggetto ammiccante, prodotto per piacere a colpo sicuro, per essere ammirato. L’allestimento scenico è minimale: pochissimi elementi a restituire ampi e imponenti spazi vuoti, dal gusto vagamente gotico. Ogni personaggio più che entrare in scena, appare e contribuisce all’allestimento, impreziosendolo come un bell’oggetto deliziosamente decorato. Dalla cima di una scalinata, un angelo fa le veci di un crudele caso divino, e getta una piuma che andrà a cadere, appunto per caso, ai piedi di chi dovrà morire. A contendere le personalità delle due regine consanguinee sono Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni, straordinarie nel virtuosismo di proporsi, di sera in sera, in entrambi i ruoli in un tormento appassionato. Conosciuto il responso, inizia un ricco gioco di travestimenti e cambi di personalità, mentre Giua, sotto le sembianze di un David Bowie poco convincente, accompagna costantemente l’azione della prosa di Schiller con brani musicali: sarebbe un dramma musicale se non fosse per la laccata patina glamour da video musicale. Ma non il glamour che avrebbe suggerito la presenza di Bowie, quel rivoltoso sovvertimento dell’immagine che diventa pura espressione di sé senza una categoria di valori a determinarla o senza una logica di mercato a cui far riferimento, ma quello freddo e vuoto da Condé Nast. Tutto è uno sfoggio sfrenato di bellezza eccessiva, dai costumi di Dolce e Gabbana, alle interpretazioni forzate in un tecnicismo sperticato; emblematica è un’eccentrica Linda Gennari nei panni dell’inquietante Mortimer, tanto mellifluo e angosciato da non riuscire a mantenere una posa eretta. Restano memorabili delle splendide immagini, come quella iconica di Elisabetta (in quella sera, Laura Marinoni) seduta algida di profilo contro un fondale rosso veneziano. Ma quando la malia del glam svanisce con lo spegnersi delle luci, che resta? (Valentina V. Mancini)

Visto al Teatro Mercadante, Crediti: Di Friedrich Schiller; Traduzione Carlo Sciaccaluga; Regia Davide Livermore; Con Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi, Gaia Aprea, Linda Gennari, Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia, Giua (chitarra e voce); Costumi regine Dolce & Gabbana; Costumi Anna Missaglia; Allestimento scenico Lorenzo Russo Rainaldi; Musiche Mario Conte;

SAGOMA (di F. Pisano, Regia D. Iodice)

Cos’è oggi un teatro che ha per oggetto solo sé stesso? Scritto durante il periodo pandemico, Sagoma è la riflessione di Fabio Pisano, con la regia di Davide Iodice, sul valore di un teatro lasciato al buio, dove le figure di riferimento si muovono confuse alla ricerca di identità. Niente è stato previsto al di fuori dello spoglio e buio palcoscenico del Teatro Nuovo, nemmeno l’identità di un’embrionale presenza estranea. Esiste l’attore in quanto finto e in quanto vero, in quanto mestiere e in quanto oggetto poetico. Il palco è senza allestimento, un elemento tecnico persino banale e brutto (con le luci d’emergenza, a mo’ di pudenda, a vista) che quasi impedisce, o rende eccessivamente difficile, l’essere in scena. Si è al momento in cui lo spettacolo è solo l’idea vaga di una rivisitazione dal teatro beckettiano nella mente dell’attore, Nando Paone, la cui frustrata urgenza è capire che postura assumere al momento di agire. Cerca sé stesso in una controluce «senza riverbero», che lo faccia sagoma, un astratto corporeo, così da poter impersonare ciò che più gli corrisponde senza dover subire il peso dei ruoli che ha di volta in volta vestito o che l’hanno fatto iconico e lo hanno allontanato da quello che realmente è. Il suo unico interlocutore è il tecnico delle luci-servo di scena Matteo Biccari: è trait d’union tra la realtà e la finzione. Non è possibile scorgerne il volto, così com’è dietro i fari, ma il suo mutismo, tanto dissonante rispetto all’incessante parlare del compagno, e i suoi movimenti repentini e plateali lo rendono immediatamente comprensibile. Forse molto più naturale, per paradosso, di quanto sia l’attore stesso. Da questo buio stracciato dall’intermittenza delle luci, emerge la presenza ingombrante del pubblico seduto in platea, inquietante folla dai volti bianchi a ostacolare i bisogni dell’attore. Con dichiarati riferimenti pirandelliani, l’azione si ripete in cerchio fino a che non perde di senso e non produce il riso, in una formula consueta nella scrittura di Pisano. Troppo interessato a esistere e basta, questo teatro pare non sapere cosa vuol essere davvero. (Valentina V. Mancini)

Visto al Teatro Nuovo, Crediti: di Fabio Pisano; Regia, spazio scenico, luci, musiche Davide Iodice

LA SCATOLA DEI BISCOTTI (di M. de Giovanni, Regia A. Renzi)

Dio, o chi per lui, ce ne scansi e liberi dai detentori del “potere” culturale di questo Paese (e di Napoli soprattutto!). Difficilmente si può trattenere la frustrazione dopo aver subito la grottesca intromissione dell’ingombro immaginativo qualunquista e piccolo borghese da RAI 1, col suo portato ideologico pericolosamente banale in cui Maurizio De Giovanni, che è uno degli esponenti più in voga di questo ingombro immaginativo, alimenta la sua penna. La scatola di biscotti rielabora alcuni elementi della tradizione eduardiana, o comunque se ne lascia suggestionare da quelli, senza però toccarne le estreme profondità. Marina Confalone è una agente dello spettacolo che torna a casa, in un paese meridionale, per il funerale della madre (Chiara Baffi) che non vede da svariati decenni; da sola in casa (un delizioso salotto realizzato da Lino Fiorito, tanto caro e chiaro nella memoria di moltissimi), si lascia andare a una lunga conversazione con sé stessa e con i fantasmi del suo passato. Da qui, uno stereotipo dopo l’altro utile solo a solleticare la gola del pubblico. I personaggi sono delle sagomette a una dimensione e non hanno troppo che coinvolga o stupisca; in questa dinamica, che non è assolutamente ingenua per quanto manca di spessore e correttezza, i personaggi femminili sono le vittime ideali: la donna ricca, frigida e infelice ma che riscopre la gioia negli affetti della famiglia; la mamma meridionale che nasce vive muore per i figli; la bella ragazza, un po’ semplice e stupidina, ma di ottimi sentimenti (tant’è che con quello «stacco di coscia» mica è uno stereotipo lei: vuole una famiglia e si fa una bella numerosissima famiglia, di cui lei, giovane ancora, è madre, nonna e bisnonna!). Gli uomini non fanno una fine migliore: lo stronzo e il dolcissimo amore di gioventù (Andrea Cioffi che è un ottimo e stimabile professionista, come attore e autore, merita visibilità molto più adatte alla sua persona). Nessuno si salva, nemmeno il povero pesce rosso chiuso in quella minuscola palla. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro San Ferdinando; Crediti: Di Maurizio de Giovanni; Regia Andrea Renzi; Con Marina Confalone, Chiara Baffi, Andrea Cioffi, Silvia D’Anastasio; E con le voci registrate di Tony Laudadio e Andrea Renzi; Scene Lino Fiorito; Disegno luci Carmine Pierri; Video e foto di scena Serena Petricelli; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

ABRACADABRA INCANTESIMI DI MARIO MIELI STUDIO #3 (di Irene Serini)

Nella sala teatrale dell’Angelo Mai ci ritroviamo in cerchio, una serie di sedie disposte attorno a un figura grafica, esoterica, sul pavimento: linee, punte di una stella, quadrati tutto inscritto nella forma circolare.  Troppo facile trovare la quadra del cerchio, la protagonista dirà: «da un certo punto di vista, è molto più interessante far circolare il quadro.» Sono venuto qui per uno spettacolo su Mario Mieli, attivista, filosofo, protagonista della storia della comunità LGBTQ+, invece mi trovo di fronte a un’opera difficile da incasellare, per nulla facile da raccontare, ma soprattutto mi trovo a conoscere, un’artista unica con un approccio originalissimo alla scena. Irene Serini comincia in mezzo al pubblico, occupando una delle sedie vuote, dà il buonasera ad ogni spettatrice e spettatore. Parla di uno spettacolo su Mario Mieli, di uno studio facente parte di un più ampio progetto, corre attorno allo spazio, poi esce di scena e ricomincia. C’è qualcosa di inafferrabile in questa sua capacità di camminare costantemente sulle nuvole, di seminare piccoli indizi (come il richiamo alla Traviata Norma), di aprire parentesi metateatrali che apparentemente non c’entrano nulla ma che invece rimandano a qualcosa di preciso. Il/la medium di questa seduta spiritica (la parola abracadabra è nel titolo di ognuno dei 5 studi) è un clown fuori tempo, un buffone sornione e problematico: pantaloni, camicia e cravatta scuri, capelli corti tirati indietro con il gel. All’occorrenza vestirà anche una mantella con cappuccio con la quale girerà in cerchio nella penombra, un cenno, anche ironico, alla relazione di Mieli con la massoneria. Ecco l’esoterismo nel disegno sul pavimento, riferimento alle ricerche degli ultimi anni, prima che l’attivista trentunenne si tolse la vita. Serini dissemina spunti e contraddizioni, più che uno spettacolo autobiografico il suo è un atto d’amore e di alchimie teatrali. Nel finale l’attrice inverte lo spazio, inverte la norma appunto, sedendosi sugli spalti dell’Angelo Mai in un commiato delicato e commovente: «Prova anche tu, insieme a me, a non battere le mani e a vedere cosa succede». (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Angelo Mai. ABRACADABRA – incantesimi di Mario Mieli [#studio3] quando inizia lo spettacolo? di e con Irene Serini luci e suono Caterina Simonelli organizzazione e produzione Maurizio Guagnetti con il sostegno della compagnia IF Prana

ANNA KARENINA (regia di Luca De Fusco)

Forse solo in bianco e nero può andare in scena oggi un adattamento teatrale del romanzo di Lev Tolstoj. È la scelta di Luca De Fusco: un velatino chiude il boccascena inghiottendo la luce disegnata per tagli e colori drammatici. Su questa parete invisibile si staglieranno immagini video che andranno a interagire con la scena - un’imponente stazione ferroviaria di vetro, legno e ferro. L’adattamento drammaturgico di Gianni Garrera e di De Fusco restituisce con esattezza i nodi narrativi, pur con la scelta non sempre felice di affidare al personaggio il racconto in terza persona dei propri stati d’animo: la tecnica dell’a parte a tratti diventa auto descrizione che crea ridondanza tra la parola detta e quella evocata. La recitazione affettata asseconda l’originale spaccato storico e sociale, ma tale coerenza non aiuta nel tentativo di per sé difficile di rendere giustizia a chi dà il titolo all’opera. Galatea Ranzi ha l’aria aristocratica e la voce flautata, ma certi manierismi, la studiata sfrontatezza e la volubilità frivola, rendono difficile entrare in empatia con una donna vittima di se stessa, la cui lotta interiore per la libertà diventa tortura e autodistruzione, fino alla morte, punizione da lei stessa augurata. Gli uomini che ha intorno le fanno da padre: amanti, fratelli o mariti, sono in ogni caso esseri dotati di maggiore razionalità pur nella debolezza (emblematica è la prima apparizione di Karenin, sospeso in prima, illuminato da un taglio di luce calda, quasi un dio punitore che schiaccia Anna nel luogo in cui poco prima aveva accanto Vronskij). Si è spinti a ragionare sull’opportunità di mettere in scena la vicenda di questa donna (e delle altre, che non ne escono meglio) con una coerenza che sottolinea le spigolature dell’opera: Tolstoj stesso continua a scrivere altre cinquanta pagine dopo la morte della sua protagonista, offrendo redenzione ai suoi sopravvissuti, punendola con l’oblio. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Quirino Di L. Tolstoj. Regia di Luca de Fusco. Con Galatea Ranzi, Con Debora Bernardi, Francesco Biscione, Giovanna Mangiù, Giacinto Palmarini, Stefano Santospago, Paolo Serra, Mersila Sokoli, Irene Tetto. Adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco. scene e costumi Marta Crisolini Malatesta. luci Gigi Saccomandi. Musiche Ran Bagno. Coreografie Alessandra Panzavolta. Proiezioni Alessandro Papa. Aiuto regia Lucia Rocco.

CERTO IO RESISTERÒ (Margine Operativo)

C’è un uomo solo in scena, Stefano Scialanga: giacca, stivali, maglione e pantaloni dai toni scuri, non c’è colore che risalti, lui potrebbe essere chiunque di noi. E poi una sedia, un secchio rosso, e un microfono. Null’altro. Più che un corpo, una voce, data alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci lette, studiate, raccolte e selezionate nei loro passaggi più molteplici da Pako Graziani, che insieme a Alessandra Ferraro firmano quest’ultimo lavoro di Margine Operativo. Le parti di testo recitate da Scialanga fanno emergere la complessità dell’uomo Gramsci, lontano dalla sua compagna, del figlio, che spiega alla madre la strenua convinzione delle sue idee inscalfibili anche dalla pena carceraria considerata dall’intellettuale un dovere di rispetto per restare fedeli ai propri ideali, del politico, eternamente insostituibile per la civile contemporaneità delle sue parole. Tra tutte quelle raccolte nel montaggio drammaturgico di Graziani, a rimanere impresse sono quelle relative alla condizione del naufrago, metonimia di un naufragio più grande, che è collettivo e quindi sociale. Certo io resisterò è un lavoro essenziale privo di retorica e pedanteria, deciso nella scelta dei testi, che si conclude simbolicamente citando la requisitoria del Pubblico Ministero che condannò Gramsci: «per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare», delittuoso intento che fallisce ogni qualvolta si condividono, leggono, consegnano, recitano, spiegano, regalano le parole di queste lettere. Che sia sul palco di Fortezza Est, al Festival della Resistenza e della Memoria al Quadraro - in cui questo spettacolo è stato presentato ad aprile di quest’anno - o in qualsiasi altro luogo, teatro, scuola, casa, presidio, bisogna sempre far fallire questa condanna al silenzio. Soprattutto in giorni di mistificazione e populismo in cui si zittisce e incrimina chi ribadisce la vittoria dell’Italia antifascista che grazie al sacrificio di molti e molte ha fatto fallire chi voleva impedire ai cervelli di funzionare. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est di Margine Operativo, liberamente tratto da “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, ideazione di Pako Graziani e Alessandra Ferraro, regia e drammaturgia di Pako Graziani con Stefano Scialanga, sound designer Dario Salvagnini, light designer Marco Guarrera, produzione Margine Operativo, in collaborazione con Q44 – Festival della Resistenza e della Memoria, Garage Zero. Foto di Carolina Farina

IL CAVALIERE INESISTENTE (regia di Tommaso Capodanno)

Piante, arbusti, fogliame che spuntano da zolle grigie, più avanzati, dei blocchi, parallelepipedi e cubi, il fondale è incorniciato da un frontespizio chiaro, quasi bianco e piatto; quattro attrici in nero e un’armatura bianca vuota. Il Cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno, sold-out, per due settimane nella sala b del Teatro India è un bell’esercizio di gioco tra scena e letteratura, un’orchestrazione di possibilità attorali attorno alla narrazione scenica del capolavoro di Italo Calvino. Il giovane regista campano torna a produrre al Teatro di Roma dopo l’esperienza shakespeariana al Teatro Torlonia, qui i mezzi produttivi però sono ufficiali (nella precedente occasione lo spettacolo era la fine di un percorso formativo); anche in questo caso per la drammaturgia collabora con Matilde D’Accardi che firma l’adattamento dal romanzo. Questo spettacolo è composto sostanzialmente da due idee: una suggestiva, originale e compiuta, rappresentata dal personaggio di Agilulfo, il cavaliere dalla corazza bianca e vuota - al seguito dell'esercito di Carlo Magno - in scena si muove grazie al lavoro di Evelina Rosselli che lo fa muovere dall’interno conferendogli anche voce, insomma uno stratagemma da teatro di figura che può portare a interessanti risvolti metaforici e teatrali; l’altra idea invece è più facile e meno folgorante, e riguarda la distribuzione della narrazione su quattro attrici (oltre a Rosselli, Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Giulia Sucapane), interpreti tuttofare che prestano voce e corpo ai tanti personaggi della favola. Tale modalità non lascia spazio ad altre idee registiche facendo sì che lo spettacolo nella sua ora e mezza non esca fuori da un meccanismo un po’ scolastico perdendo l’occasione di inventare altri percorsi. La traduzione teatrale rappresentata soprattutto dalla parola e dai corpi rimane comunque piacevole grazie all’approccio ironico e comico legato alla situazione, ai cambi di registro, alle mutazioni delle cadenze dialettali o alle piccole farciture metateatrali. L’operazione ha avuto infatti grande presa sul pubblico (anche grazie al talento delle quattro interpreti), come è stato confermato dal passaparola con cui si sono riempite le repliche. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro India. Di Italo Calvino adattamento Matilde D’Accardi regia Tommaso Capodanno con Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane, scene Alessandra Solimene immagine di Tommaso Capodanno foto di scena Claudia Pajewski

ƏVƏ (riflessǝ in Andrea Adriatico)

evǝ, titolo originale God’s New Frock, di Jo Clifford «riflessǝ in Andrea Adriatico» per la traduzione di Stefano Casi, è andato in scena all’ Off/Off Theatre in una sala gremita, attenta al testo e grata negli applausi. Sei tubi di plexiglass, con all’interno delle persone indossanti delle tuniche talari, sono ordinati, come delle provette, in fila sul palcoscenico: un’immagine medica di primo acchito e quasi claustrofobica per chi soffre gli spazi ristretti. Con fare didattico, pur mantenendo il tono militante di chi rivendica un sopruso, si alternano le spiegazioni di Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi, Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera, ovvero coloro che danno voce a chi «né signora né signore, né uomo né donna» si oppone alla storia, a come è stata finora raccontata dalla Genesi in poi. Persone innanzitutto che raccontano del loro essere nel mezzo e per questa ragione considerate oggetti di studio, casi umani e clinici, che contravvengono alla Natura. Natura le cui leggi sono state lette, interpretate e trascritte dalla religione e tramite di essa gli essere umani sono stati divisi in uomini e donne, gli uni che si impongono sulle altre, tenendo fuori coloro che non si riconoscono nel binarismo professato e non corrispondente alla verità plurale, scelta, costruita e autodeterminata da moltissimə. Evǝ si inserisce nella produzione di Teatri di Vita come un ulteriore esempio di attivismo culturale e sociale, richiamando l’attenzione sulle biografie di corpi differenti che si stagliano rispetto alla scrittura, uniformata, della Storia, ufficiale e insegnata. Tuttavia resta una perplessità: che quest’ultima drammaturgia pur scagliandosi contro la narrazione imperante, ceda - forse per i toni usati - anch’essa a una forma evangelica e didascalica assomigliando al bersaglio, pur nell’opposizione di intenti, piuttosto che colpendolo. Non potremmo definitivamente emanciparci dal potere spirituale del verbo di Dio e colpire invece quello temporale delle norme promulgate dagli uomini? (Lucia Medri)

Visto a Off/Off Theatre di Jo Clifford, traduzione di Stefano Casi, con Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi e Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera. Una produzione Teatri di Vita, con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura

ULTIMI ARTICOLI

Serena Sinigaglia. La forza della coralità femminile in teatro

Serena Sinigaglia è andata in scena con L’Empireo di Lucy Kirkwood al Teatro Nazionale di Genova. L'abbiamo intervistata partendo proprio da questo spettacolo per...