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Cordelia - le Recensioni

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DISADIRARE. UN’ALTRA ILIADE (regia di Adriana Follieri)

Se c’è qualcosa da amare nel teatro, la possibilità di osservare l’attore cambiare nel tempo è una di quelle cose. Nella cornice del Campania Teatro Festival, a distanza di un anno, ritornano sul palco i ragazzi dell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola insieme alle studentesse dell’I.I.S.A.M De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti; nella delicata riscrittura dell’Iliade, Adriana Follieri ha in mente di poter mettere in scena una crescita formidabile. E ci riesce. Ci riescono tutti e tutte. Seguendo la legge che vietava la diretta messa in scena di violenze e traumi, dal racconto epico viene completamente estirpato qualunque intento celebrativo della guerra come affermazione di sé. Non esiste alcuna vittoria, bensì la disperazione della possibilità che questa prenda forma nel dolore e nelle disgrazie. Lo spazio (costruito da Pino Beato) non ha alcuna pertinenza fisica, poiché non deve contenere corpi, ma idee. Dei pesanti blocchi vengono disposti per ordinare i movimenti in giri perpetui e marce senza fine; potrebbero essere dei blocchi di marmo in cui fermare gli eroi nell’immagine che a loro apparterrà per sempre, e invece quei giovani corpi li usano per ergersi ed esporsi. In scena non sono concepiti movimenti isolati e solitari, ma sono lunghi andamenti collettivi, complessi proprio in virtù del fatto che vanno compiuti in totale armonia col ritmo delle presenze vicine. L’unico elemento farraginoso, è la persistenza in diegesi delle musiche (originali di Luca Caiazzo) che rallentano eccessivamente l’azione più che accompagnarla. Poteva essere tutto ovvio, tutto tristemente già visto, e invece è stata compiuta un’operazione di ricostruzione del senso delle immagini molto significativo. È doveroso spendere poche parole (saranno sempre poche) su quei ragazzi aiutati una buona volta ad essere padroni di ciò che vedono in sé stessi, a sforzarsi di esperire, come tutti, sempre nuove esistenze: non più ignari caratteristi, macchiette succubi del divertimento altrui, ma attori.

Visto a Teatro Trianon Vivian; Crediti, Con i giovani attori dell’Istituto Penale per minorenni di Airola e le studentesse dell’I.I.S.A.M. De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti e con Gianluigi Signoriello e Paola Maria Cacace; Drammaturgia Adriana Follieri in collaborazione con Fabrizio Nardi; Regia Adriana Follieri; Musiche originali Luca Caiazzo; Disegno luci Davide Scognamiglio; Scene Pino Beato; Foto Sabrina Cirillo; Produzione CCO – Crisi Come Opportunità.

BASTARDO. CHI HA PAURA DELL’UOMO NERO (di Carlo Massari)

Carlo Massari, performer e fondatore della compagnia C&C, riporta ancora una volta al centro Corpo e Cultura nell’ultima creazione presentata ad Attraversamenti Multipli. E se FARSI CORPO, il laboratorio che ha condotto all’interno del festival abita ed entra in dialogo con la natura urbana del Parco di Torre del Fiscale (qui, l’articolo della RE.M che ne racconta l’esito performativo), Bastardo entra in dialogo col presente più prossimo del quale lo spettatore è parte integrante. Il format si auto propone/impone di aspettare un tempo molto breve prima della performance così da costringersi a dialogare con il qui e ora: rispondere all’idolatria post mortem di Silvio Berlusconi, due settimane dopo la sua morte, ad esempio. Se l’arte dal vivo contemporanea continua ad avere meccanismi di produzione e distributivi che impongono - nei migliori dei casi - una visione in differita della creazione degli artisti sul reale, l’idea produttiva di Bastardo è basata invece su una costruzione di materiale semi/improvvisato legato strettamente a tematiche sensibili della contemporaneità. Capita allora, il 29 giugno 2023, di assistere al corpo di Carlo Massari piegato dalle barzellette sulla propria morte di Silvio Berlusconi; di consumare il “menomale che Silvio c’è” sulle note della Passacaglia della vita, perché “bisogna morire”; di esasperare il “presidente noi siamo con te” in una coazione a ripetere durata decenni; di vedere alcuni spettatori alzarsi; di interrogarsi sul cadavere caldo della decenza; di chiedersi se politicamente scorretto sia la sigla di Forza Italia per la coreografia o l’esaltazione alla quale abbiamo assistito, fino all’elogio funebre in ginocchio. Carlo Massari si fa Bastardo per parlarci di noi in un’intuizione riuscitissima che fa scivolare la ricerca puramente fisica in quella politica, muovendo verso il presente qualunque muscolo possa essere usato. Coreografia e cronaca, partitura fisica e critica sul presente non erano mai stati così vicini. (Luca Lòtanowww.lerem.eu)

Visto a Attraversamenti Multipli. Crediti: Carlo Massari / C&C Company Produzione: C&C company, Coproduzione: Margine Operativo

RELIC (di Euripides Laskaridis)

Straordinario e travolgente, il greco Euripides Laskaridis ha presentato, allo Studio 3 del CN D di Pantin, il suo famoso assolo Relic (2015). Una figura trasfigurata nell’anatomia da gommapiuma e larghe protesi, interamente fasciata di collant, abita la scena non come l’utopia di un corpo futuro, ma come reliquia, relitto, retaggio, se non addirittura cimelio, di qualcosa che sopravvive e resiste dal passato: «A thing left behind, be it memory, object, language or being». Questa cosa ‘lasciata indietro’, che come la morte livella ogni gerarchia di valori fra parole, cose ed esseri viventi, torna neo-zombie in un processo trasformativo di resistenza al tempo della cancellazione e dell’indifferenza. E sembra non dover rispondere a nessuno, talmente alto è il mimetismo con il circostante, la presa sulla forza del passato. È un lavoro generato come risposta alla crisi greca di quegli anni, e mette alla prova i confini di ogni norma contro le ideologie rassicuranti sulle sorti progressive del futuro. L’atmosfera domestica di una casa (con tanto di pianta salottiera e wc neoclassico) qui viene letteralmente fatta saltare. Con i mezzi del cabaret e del vaudeville, in una fisicità sfrontata piena anche di humor nonmeno che di (finti) pudori, tutti da primo piano, come una sacerdotessa acrobata, una fattucchiera arcaica o una pitonessa da speculative fiction. Tutto è ribaltato, e riscattato, financo il tempo della vita. La performance di Laskaridis è piena di bizzarrie e anche di chincaglierie, di trovate in sequenza a disposizione di un immaginario domestico, da ‘teatro fatto in casa’, pure selvaggio, artificiale, per accumulo. Alla fine, l’impressione è che non manchi proprio niente. Quel che resta è già tutto quel che serve per destabilizzare dogmi e norme. Come nella retrotopia descritta da Bauman, andare a ritroso con il passato può trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. (Stefano Tomassini)

Visto al CN D (Pantin/Parigi). Director, choreographer, set designer and performer, Euripides Laskaridis; Artistic collaboration, Tatiana Bre; Dramaturgy consultant, Alexandros Mistriotis; Costumes, Angelos Mentis; Sound design, Kostas Michopoulos; Sound installation & live operation, Kostas Michopoulos, Giorgos Chanos, Nikos Kollias, Kostis Pavlopoulos.

JÉRÔME BEL (di Jérôme Bel)

È incredibile che siano passati quasi trent’anni. Faccio fatica a tenerne il conto (oggi, poi, che tutto ci ha segnato...). Jérôme Bel di Jérôme Bel, che è del 1995, è riapparso intatto, in tutta la sua forza (e retorica) nel programma del camping estivo del CN D di Pantin a Parigi. Il seminale lavoro di Bel, qui anche con due degli straordinari interpreti originari (Frédéric Seguette e Claire Haeni), risente della lettura di Le Degré zéro de l’écriture, e ammicca evidente al Barthes di Roland Barthes. Cinque corpi nudi fanno a pezzi le strutture verbali e i significanti che sorreggono il dispositivo teatrale, con l’uso soltanto di una lampada (con un effetto perenne di grotta platonica), la voce che solo canticchia (brani, credo, della Passione di Matteo) e la scrittura che designa (i nomi) e trasporta (i significati attraverso i significanti) anche per cancellazione (così della scritta JOHANN SEBASTIAN BACH non resta leggibile che ABBA, e sùbito parte Dancing Queen). La richiesta di una scena senza gerarchie estetiche e coercizioni culturali, la ricerca inesausta di un neutro possibile (ma che resta simbolico) capace di giustizia, è sapientemente inseguito (e assorbito) non senza l’uso di forti metafore e inevitabili allegorie. Tuttavia ciò che maggiormente, alla fine, sorprende in questa evidenza tutta ragionamento sul come e sul cosa dei meccanismi della performance, riconosciuti e smontati ed esposti, è che non crea nostalgia alcuna. L’ultimo interprete compare in scena di tutto punto vestito, per partecipare al meccanismo che lo celebra, giusto il tempo per gli altri performer di uscire di scena, e lasciarlo solo, per gli applausi finali. Dopo trent’anni, tutto accade di nuovo ma nel tempo allenato della memoria, senza l’oblio necessario al sentimento della nostalgia. Come per quei saggi critici, fondamentali e formativi, che una volta bene assimilati e resi operativi, alla rilettura risultano poi freddi e frenanti, incapaci di deriva. (Stefano Tomassini)

Visto a Les Laboratoires d’Aubervilliers (Pantin). Crediti: di Jérôme Bel, con Éric Affergan, Yaïr Barelli, Michèle Bargues, Claire Haenni, Frédéric Seguette.

DOVE HANNO TREMATO LE PLACCHE (di Valerie Tameu)

Valerie Tameu, autrice e performer italo camerunense, spiega il processo di Dove hanno tremato le placche, mentre si asciuga il sudore, riprende fiato, in dialogo con la studiosa e ricercatrice Ilenia Caleo che, rispettosa del tempo di “ritorno alla realtà” a fine performance, inizia a impostare l’esaustivo talk tenutosi tra i "resti" splendenti di questa prima apertura del lavoro; prodotta da Spazio Griot e ospitata al Mattatoio La Pelanda, dove martedì si è conclusa la rassegna Rifrazioni curata da Johanne Affricot. «Quando ho iniziato a disseminare le foto di famiglia per casa, mi sono resa conto che avevo già riempito tre stanze». L’indeterminatezza fluttuante propria alla natura della performance è qui “vestita”, letteralmente, dalla concretezza delle azioni e dalla tangibilità degli oggetti: l’archivio di blackness sulla storia della migrazione della famiglia di Tameu viene incorporato, prima indossandolo – la performer si aggira sui pattini ricoperta di strati di vestiti trovati negli armadi – e poi spogliandosene, per iniziare un gioco di memory con quelle stesse foto posate sul tavolo, poi sul corpo, viso, capelli. «La componente visiva dell’archivio non bastava, dovevo poterla maneggiare, perciò l’inserimento del sonoro è stato determinante per creare una narrazione del materiale». Tra i suoni, sia gli estratti documentari dell’omicidio di Jerry Essan Masslo (1989), che diede rilevanza mediatica alla violenza razzista e allo sfruttamento imposto dal caporalato nel Sud Italia, che quelli delle lotte operaie alla Fiat Mirafiori. Riprendendo il titolo, le placche tremano: la geografia delle stratificazioni di memoria, come quella terrestre, muovendosi giustappone archivi personali e collettivi in un’opera di costruzione e decostruzione compiuta dalla performer che, con il tocco deciso ma delicato di una racchetta da tennis, attiverà un effetto domino in grado di disintegrare il monumento/monolite rifrangente al centro della scena. (Lucia Medri)

Visto a Rifrazioni Spazio Griot Crediti: di e con Valerie Tameu, frutto della residenza artistica di SPAZIO GRIOT in collaborazione con Fondazione Polo del '900, Foto di Andrea Pizzalis

IO ERO IL MILANESE (di Mauro Pescio)

Accade raramente, ma accade quando la purezza e la genuinità di un racconto oltrepassano gli strumenti necessari a diffonderlo. Perché Mauro Pescio, autore del podcast Io ero il milanese, appena premiato come documentario dell’anno e che vanta oltre due milioni di ascolti, avrebbe potuto godersi questi frutti e invece ha scelto ora di adattarne una versione teatrale, non per spremere la materia finché si può, ma perché questa storia ha bisogno di presenza, ascolto dedicato, vicino. Insomma, di teatro. È una storia di criminalità che il protagonista, incontrato la prima volta nel carcere di Padova, racconta liberamente: il podcast è reso in frammenti, Pescio lo dirige dal palco e, aiutato da alcuni disegni proiettati sul fondale, commenta, determina, approfondisce quanto la viva voce off di Lorenzo S., questo il nome, può esprimere della propria vita. Si genera presto una partecipazione nel pubblico, offerta dalla forma dialogica, che permette di essere, sentirsi, dichiararsi presenti mentre gli avvenimenti si stringono attorno al protagonista. Io ero il milanese, il verbo è declinato all’imperfetto. Questa è infatti una storia da dopo, raccolta in un tempo in cui Lorenzo, che assunse il titolo onorifico criminale de Il Milanese, ha già compiuto i passi necessari all’emancipazione da una vita rimasta alle spalle; e con essa la reclusione, le conseguenze nefaste che le scelte – o non scelte – hanno determinato. In precedenza il senso di avventura, l’ebrezza, l’adrenalina del gesto criminale lo hanno nutrito, tanto da fargli accumulare una lunga punitiva condanna, finché grazie al lavoro, l’amore, la solidarietà, così come proprio la fiducia nel racconto, tutto è cambiato. Ma questa non è una storia morale, nel definire gli eventi della vicenda l’intenzione di Pescio è ben lontana dal giudizio su uno stile di vita, quella del protagonista più che una redenzione è l’effetto di una crescita interiore che, nata dall’odio per sé stesso, per sé stesso ha scoperto l’amore.(Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di Mauro Pescio e Lorenzo S; con Mauro Pescio; grafiche di Lorenzo Terranera; produzione Raiplysound

LA MANO SINISTRA (di Industria Indipendente)

Secondo l’inveterata tradizione, canonizzata nel Vangelo di Marco (XXV, 32) il Figlio di Dio siede alla destra del Padre. Lì, pare, la realtà si offre particolarmente nitida allo sguardo, tanto da poter sentenziare “E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra” e ancora “[…] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. A sinistra, dunque, le fiamme della dannazione, fragore di corpi e anime liquefatte, lo scarto magmatico di una pulsione ordinatrice che, appunto, discrimina, segrega. Immaginiamo un paesaggio dove ogni cosa, liquefatta com’è, potrebbe sconfinare anche in altro. Industria Indipendente, aka Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, riparte dalla progettazione di un paesaggio eccentrico, disegnato con La mano sinistra, quella del demonio, così come lontano da ogni centro era quel locus remoto di Klub Taiga, un po’ club, un po’ distesa boreale. Ci troviamo in sala come a sbirciare nella penombra alla fine di una festa, quando alcun* si ostinano a bisbigliare e ondeggiare fuori orario, mentre i più hanno svuotato lo spazio. In quell’atmosfera da balera anni ’70, densamente kitsch e misteriosa, un impasto di luci e suoni domina il linguaggio, distorce la vocalità, ubriaca il movimento. Quella de La mano sinistra non è una scrittura sopra le righe, né tra le righe, piuttosto è una pagina squassata, un palinsesto murale underground dove ogni autorialità è complice nello squattare l’architettura scenica. Come epifanie intermittenti si stratificano la coreografia trasognata di Annamaria Ajmone, la scrittura ipnotica di Galli e Ruggeri, il sound immersivo e straniante di Ruggeri, Iva Stanisic e Steve Pepe, le architetture luminose sempre impeccabili di Luca Brinchi, la presenza magnetica di Silvia Calderoni, ringmistress immaginifica e suadente. Echeggiando parole e metodi di Klub Taiga, La mano sinistra non ne costituisce però un secondo capitolo, così come non si danno indice e sinossi nei sogni, piuttosto un B side, che ricopre la stessa superficie del lato A, è fatto della stessa materia, ma emana un suono diverso. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro India. Testi e regia Industria Indipendente (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri); arrangiamenti musicali Steve Pepe, Iva Stanisic, Martina Ruggeri; luci e video Luca Brinchi, Erika Z. Galli; con Annamaria Ajmone, Silvia Calderoni, Martina Ruggeri, Iva Stanisic

L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA (di Emanuele Aldrovandi)

In un tempo pressoché indefinito e dalle tonalità neutre, ma così simile al nostro, un’epidemia virale che trasforma gli esseri umani in tacchini costringe l’umanità all’isolamento domestico. Salvo emergenze eccezionali e mansioni quotidiane necessarie, a nessuno è consentito uscire dal proprio confine abitativo, nemmeno per un po’ di jogging. È questo l’ingranaggio che aziona la macchina scenica e drammaturgica del lavoro di Emanuele Aldovrandi: il cortile interno di un palazzo, rievocato negli ambienti metallici di Francesco Fassone al pari di una cella, è il luogo di scontro tra le posizioni morali di un colorito vicinato. L’opposizione tra coppie, Mario e Andrea, Giulia e Anna, è lo strumento di innesto tra i dialoghi, che pongono la questione sul rispetto delle norme, sul bene pubblico, sulla fine del mondo, sulla speranza nel futuro. Le conversazioni tra i condomini si sviluppano così attraverso una verbosità schietta e concitata, tramite incastri di domande-risposte e si susseguono nell’evocare riflessioni, immagini, parole di un lessico che rivela soprattutto il suo sostrato traumatico (contagio, positivi, restrizioni). La scrittura apparentemente semplice di Aldovrandi, ma in fondo di una complessità rara e precisamente calibrata, chiede però allo spettatore di prendere parte a questo dibattito, perché testimone “neutro” delle argomentazioni trattate. E lo spettatore - che siamo noi in sala, noi che quelle fratture di moralità e pensiero le conosciamo bene, noi che quel periodo di isolamento l’abbiamo vissuto sulla pelle - finisce per immedesimarsi, cambiare punto di vista, facendo vacillare la propria presa di posizione, comprendendo la problematicità delle riflessioni di ognuno. È chiara, qui, l’intenzione dell’autore e regista di raccogliere le diverse visioni e di «spingerle alle loro più estreme conseguenze, non de-costruendole col tipico approccio post-moderno, ma piuttosto iper-estendendole, fino al punto di rottura, o al paradosso». E nel paradosso, abitando nuovi confini, queste visioni respirano e sopravvivono, anche alla inevitabile trasformazione collettiva di uomini in tacchini. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: testo e regia Emanuele Aldrovandi, con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi, con la partecipazione vocale di Elio De Capitani

L’UNIVERSO NELLA TESTA (di D.Ninarello, C.Donà, S.Lanza)

«Dentro a una vertigine che danza» vorticano nelle onde vocali le parole di Universo della cantautrice Cristina Donà nell’Arena del Teatro India. Sul palco bianco, vestita di nero con due punti di luce al lato degli occhi, è una visione che ci incanta e canta di altri spazi, di orbite planetarie, di protoni che si incontrano, amorevolmente. Tra il pubblico di Fuori Programma Festival, alcuni intonano sommessamente i testi delle sue poesie, dark metropolitano da sempre un po’ stellare, che ora dialoga con la danza del coreografo Daniele Ninarello e la ricerca sonora della voce, chitarra e live electronics di Saverio Lanza, già produttore e collaboratore di Donà. L’Universo nella testa è una galassia creativa inedita, una triade nata per caso nel progetto Perpendicolare, durante una residenza che gli artisti stavano svolgendo singolarmente a Fabbrica Europa. Ma torniamo all’inizio, quando i corpi dei tre performer “sono caduti” a terra o seduti, e di spalle alla platea, Ninarello ci invita a sentire proprio la nostra materia, la nostra fisicità. Con un verso di Siamo vivi, poco dopo Donà, capelli al vento e occhi socchiusi, chiederà «Da quanto non ascolti il tuo silenzio?». E anche se alcuni di noi vorrebbero alzare la voce sull’incedere affannato di Triathlon, quell’energia da concerto, dopo sollecitata dalla cantante, si traspone, mimeticamente, nell’osservazione della danza di Ninarello che, muovendosi intorno alle due figure musicali, delinea una coreografia di raccordo impostata sui moduli che contraddistinguono la sua cifra di geometrie flessuose: corse, salti, braccia agitate come fendenti, pugni, smorfie anche, rotazioni, le quali si intersecano ai glitch sonori e campionamenti. «È così chiaro se ci pensi, noi che siamo niente, divinamente nell’eterno» dice il brano L’infinito nella testa, e nell'elegante forma di questo ensemble, tutto viaggia nella connessione di infinitesimali frammenti di voce, suono, gesto condivisi, imitati, che si aprono alla vastità dell’emozione, del ricordo, e scende la luce sul solstizio d’estate. (Lucia Medri)

Visto a Fuori Programma Festival Crediti: Voce e chitarra: Cristina Donà; Coreografia e interpretazione: Daniele Ninarello; Piano, chitarra, elettronica: Saverio Lanza; Produzione: Fondazione Fabbrica Europa, Associazione CodedUomo, Foto di Giuseppe Follacchio

MOLTO DOLORE PER NULLA (di Luisa Borini)

Ha un abito rosso, semplice, che le cade giù sul corpo; sembra un abito per un appuntamento senza troppe aspettative, o per mille appuntamenti diversi e tutti uguali, in cui essere bella, avere l’ansia, portare pene e disordini e incontrarsi con qualcuno che possa, chi lo sa, fonderli insieme. L’attesa di un appuntamento, sembra questa l’immagine entro cui inizia il Molto dolore per nulla di Luisa Borini: lei sola in scena, circondata di led e di tutti quanti gli uomini che ha incontrato e che presenta in una lista, seguendo un ordine da stand up comedy, attraverso una recitazione frontale, divertita, che fa partecipare la platea al proprio disagio, corredando la propria narrazione sulla “lista di fidanzati” con estratti di canzoni celebri che ricalcano uno stereotipo amoroso. Eppure, tra le mani ha un microfono con il filo. Ed è allora che tutto cambia. Il racconto brillante pian piano le si stringe attorno con il filo del microfono, è ciò che le dà la parola ma allo stesso tempo è l’elemento che la incatena: l’incontro con il fratello del suo coinquilino di Bologna, un ragazzo incredibilmente bello, interessante, avventuroso, premuroso, ma che via via si trasforma in un mostro che le toglie dignità e libertà di essere sé stessa, che la convince di essere una nullità, annienta le sue necessità accecato da una gelosia soverchiante. La leggerezza della prima parte, dunque, non è che una deviazione illusoria rispetto all’obiettivo finale: l’amore può trasformarsi nel suo opposto e raramente ci si accorge mentre accade, o forse sì, ma per vergogna si nega. Borini, al primo testo e prima regia, interpreta una storia semplice, diretta, capace di una linearità strutturale, che di certo è alla ricerca di una approvazione e ciò mitiga un necessario conflitto scenico, ma pur timidamente appare una riflessione che sembra il punto nodale: tra essere e sentirsi sbagliata c’è anche la scoperta sorprendente del proprio ruolo in una storia in cui si è vittima ma in cui, allo stesso tempo, è tanto difficile accettare la propria responsabilità. (Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di e con Luisa Borini

Speciale Inteatro Festival 2023

Da decenni Villa Nappi è il cuore della ricerca performativa marchigiana: spazio residenziale e apertura internazionale con lo storico festival Inteatro. Alle spalle c’è il tric, Marche Teatro, diretto da Velia Papa che nella rassegna estiva vede la possibilità di sperimentare i nuovi linguaggi anche attraverso le visioni e le poetiche di giovani artisti. Quest’anno ad esempio Inteatro ha aperto un bando dedicato ad opere site specific che incontrassero il tema della salvaguardia ambientale. Lo spazio pubblico all'aperto si è così popolato di immagini, corpi, scritture coreografiche in cerca di una relazione con il parco che circonda la villa ottocentesca. E poi il Teatro della luna, spazio scenico atipico per nascita e conformazione: la struttura ricorda quella di un palazzetto dello sport (con l’ultima ristrutturazione hanno sistemato dei pannelli fonoassorbenti che scendono dal soffitto come una sorta di installazione permanente) e fu costruito nel 1982 con la collaborazione del Teatro Valdoca, all’epoca giovane compagnia.

ULTRA (di Nicola Galli)

Di Nicola Galli avevamo scritto parlando di quello spettacolo prezioso che era Il mondo altrove. Nel panorama della giovane danza contemporanea italiana (o del teatro fisico) Galli si contraddistingue per una ricerca improntata anche alla creazione artigianale (per il lavoro precedente si pensi alle maschere e agli oggetti, oltre che allo spazio scenico) che in questo nuovo Ultra si manifesta in un paesaggio total black. Una sorta di ghiaia nera ricopre il palcoscenico del Teatro della Luna, per lunghissimi minuti l’unica azione è rappresentata dall’accendersi e spegnersi di alcune luci emananti da alcuni parallelepipedi bianchi, piccoli totem lucidi. Poi lentamente quelli che sembravano due dossi di un paesaggio montuoso in miniatura cominciano a muoversi: sono umani? Lo sono ancora? Sentiamo respiri affannati, come se provenissero da uno scafandro sott'acqua. Sono i due abitanti di un mondo nuovo e senza speranza, strisciano, combinano le proprie figure diventando altro; prima di raggiungere una posizione eretta possono sembrare due vermi. In questo caso Galli (in scena insieme a Massimo Monticelli) non utilizza la maschera ma non rinuncia a negare l’esposizione dei volti al pubblico. I due si muovono, lentamente, ripetendo gesti e posizioni, dentro a dei costumi neri che sembrano spesse tute aliene, con un copricapo da cui discendono lunghe treccine nere. Nonostante una certa fatica nella parte centrale, il lavoro d’altronde non concede snodi narrativi e la coreografia non sempre sorprende o suggestiona, vi è una una forza visiva e installativa notevole. Ultra interroga lo spettatore proprio attraverso l’assenza di parole e segni con cui spiegare e fare chiarezza. La visione di Galli - al di là del pessimismo - è spietata e misteriosa. L’artista emiliano è il creatore di un teatro di enigmi e in questo caso non ci sentiamo spettatori di fronte a una distopia fantascientifica: quel magma nero è il nostro futuro, quegli esseri ultra-umani che si muovono come vermi sotto terra siamo noi, se continueremo a non prenderci cura di ciò che ci circonda. (Andrea Pocosgnich

Teatro della luna, Inteatro Festival 2023. Concept, regia e coreografia Nicola Galli danza e creazione Nicola Galli, Massimo Monticelli allestimento e luci Margherita Dotta, Nicola Galli dramaturg Giulia Melandri

WORK.TXT (di Nathan Ellis)

Era da un po’ che non si vedevano spettacoli di teatro partecipativo, vera e propria moda per qualche stagione fino a 4,5 anni fa. Allestita nella versione italiana per la prima volta da Marche Teatro, l’idea del regista britannico Nathan Ellis parte da un presupposto simile a quello visto nella Conferenza degli assenti di Rimini Protokoll, non ci sono attori, gli spettatori devono dare voce alla drammaturgia. Le istruzioni, come fossero delle didascalie, appaiono sul fondale: i livelli di interazione sono due, uno più semplice e immediato, il pubblico dai propri posti deve leggere le battute che appaiono, oppure uno più rischioso nel quale viene chiesto a dei volontari di salire sul palco e leggere al microfono o ripetere quello che ascoltano grazie a delle cuffie. Ora, è chiaro che la croce e delizia del teatro partecipativo, lo abbiamo scritto altre volte, è in quella variabile umanissima rappresentata da chi vi partecipa. Uno degli spettatori darà il nome al protagonista, nella nostra serata si chiamava Filippo, la vicenda prende le mosse da un gesto di opposizione passiva di Filippo, il quale durante una giornata lavorativa, nel proprio ufficio, a un certo punto si sdraia in terra rimanendo in quella posizione per sempre. C’è qualcosa di Calvino e del suo Barone, ma soprattutto nel gesto c’è un rimando alla questione lavorativa che è tornata al centro del dibattito internazionale con la pandemia. Il testo è infatti la qualità migliore di uno spettacolo che risulta però teatralmente troppo esposto alla capacità del pubblico di organizzarsi. Al debutto ad esempio la voglia di partecipare era tale da risultare scomposta, con sovrapposizioni e rallentamenti; in questi casi il rischio “Corrida” è dietro l’angolo. Peccato, perché la drammaturgia nel finale ha mostrato ancora una volta qualità poetiche e ironiche, con il racconto di un tempo infinito trascorso dopo l’azione di Filippo, un tempo in cui viene scandito - sempre con la tecnica della didascalia proiettata sullo schermo - il passaggio di migliaia e milioni di anni; Filippo non si sarà mai rialzato e intanto l’universo avrà fatto a meno degli esseri umani.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. Scritto e diretto da Nathan Ellis prodotto da Eve Allin produttore originale Emily DavisPer la versione italiana produzione Marche Teatro Crediti e cast completi

Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro (Alessandra e Roberta Indolfi)

Dopo aver visto la breve performance ripensata per uno spazio all’aperto di Villa Nappi si rimane abbastanza sbalorditi nel sapere che Alessandra e Roberta Indolfi hanno non più di 22 anni. Sono gemelle, vengono da Monopoli e ogni tanto rischiano di rispondere insieme, hanno le idee chiare e probabilmente andranno all’estero per approfondire la loro formazione cominciata, per la danza, con il triennio della Paolo Grassi. Avevano già presentato questa performance a Dominio Pubblico, il festival romano dedicato agli under 25; a Polverigi hanno potuto condividere il programma con artisti più esperti, confrontandosi con visioni, attitudini e poetiche differenti. Di fronte a “Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro. il pubblico è attento e suggestionato, da un’atmosfera tesa e inquietante nella quale i due corpi identici si incontrano entrando e uscendo dalle aperture laterali per creare il più classico degli effetti illusionistici, poi il gioco sul doppio rimane, ma si affina. Lo spazio attorno diventa scenico nel momento in cui le due performer cominciano a utilizzarlo: una in bilico supina su una ringhiera, l’altra a corpo morto su un cancello. In shorts e top monospalla bianchi, un viso che non tradisce emozione se non quel filo di perturbante inquietudine negli occhi. Si alza un  po’ di polvere, si sente il rumore della ghiaia che scricchiola sotto ai piccoli e veloci piedi delle gemelle, si scambiano di posizione, una delle due fa una smorfia, mostra i denti prima di dare il là a una veloce partitura coreografica.Nel finale la relazione tra i corpi, a tratti simbiotica, a tratti complementare, esploderà in una tensione quasi violenta e le due stringendo con forza l’una i pantaloncini dell’altra, cominceranno a spostarsi verso l’uscita della villa. Noi in lontananza vedremo una danza che diventerà una lotta inquadrata in un campo lungo cinematografico; verrebbe voglia di seguirle, ma l’immagine si staglia, grazie alla lontananza, con efficace pervasività su un paio quasi surreale.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. coreografe ed interpreti Alessandra e Roberta Indolfi musica Undular – Caterina Barbieri drammaturgo Diego Pleuteri

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