| Cordelia | maggio 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di maggio 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#MILANO
CON TANTO AMORE, MARIO (di Paola Tintinelli)
In principio c’è un armadietto da giardino e, chiuso al suo interno, il necessario per allestire l’idea di un’abitazione. Mario, l’omiciattolo muto con cui Paola Tintinelli incuriosisce il pubblico di Z.I.A. dall’inizio della serata, entra in scena con la sua andatura caracollante e ne tira fuori uno zerbino, una cassetta delle lettere, un nano da giardino, un tavolo, una sedia, un sacco porta lettere, il manubrio di una bicicletta… Mario, apparentemente ogni giorno, vidima e consegna a se stesso grandi quantità di lettere e cartoline che, il giorno dopo, almeno questo intendiamo, vidimerà e si consegnerà. Potrebbe essere un postino in pensione che non riesce ad abbandonare la vecchia occupazione o, al contrario, uno in prova, che cerca di imparare il mestiere con il sogno di essere un giorno assunto, oppure un matto travestito. L’azione si svolge quasi interamente nella sua casa, dove troneggia un altoparlante che comunica a intervalli regolari notizie riguardanti spaventose nubi tossiche e raccomandazioni restrittive: in questo clima pandemico e orwelliano, Mario compie semplici e disperanti azioni. Timbra forsennatamente le proprie lettere, sminuzza un panettone in miniatura, si nutre di pasti in monoporzioni microscopiche, si accoppia violentemente con una sottoveste femminile. Tutto sembra difficile. Per l’intero spettacolo, Tintinelli mescola la comica goffaggine dei suoi movimenti e degli ingarbugliati strumenti di cui fa uso con la depressiva cupezza dell’atmosfera. Il clownesco incontra lo spleen: alcuni pop-pop estratti da un’elegante giacca troppo larga e fatti esplodere per terra in una sconsolata alzata di spalle sintetizzano questo instancabile ossimoro. Debitrice, per certi versi, dello Charlot di Tempi moderni, per altri del Ragazzo di campagna di Edoardo Pozzetto, per altri ancora di Enzo Jannacci, la cui Mario risuona nel finale, in Con tanto amore, Mario Tintinelli celebra la mesta ed esilarante ineluttabilità del reale. (Matteo Valentini)
Visto alla Z.I.A. Zona Indipendente Artistica. Di e con Paola Tintinelli produzione AstorriTintinelli
#GENOVA
LA BANCA DEI SOGNI (di F. Merli, L. Serena)
Quanta verità c’è in quel che vediamo a teatro e che si presenta di fronte ai nostri occhi, se viene collocato al di sopra di un palcoscenico? È con il presente quesito che si apre lo spettacolo-indagine La banca de sogni, un progetto a cura del duo MERLI-SERENA. Il titolo vuole riprendere il libro dei sociologi J. e F. Duvignaud e J.P. Corbeau, che miravano a dare un quadro della società del loro tempo attraverso l’analisi dei sogni delle persone. Dall’infanzia alla vecchiaia, si susseguono una serie di racconti, messi in scena attraverso l’ausilio della recitazione di Laura Serena e Marco Trotta e di proiezioni su schermo, dove la dimensione del sogno inteso in senso canonico come ciò che visualizziamo nella fase più profonda del nostro riposo si mescola in maniera indefinita al sogno come aspirazione di vita e fantasma che si insinua nei momenti di veglia. E così, il ragazzino protagonista del sogno dell’oncologa che ne ha seguito l’evoluzione della malattia le confida che avrebbe sempre voluto fare l’allevatore di bovini, professione che è la stessa dottoressa a svolgere, stufa di dare brutte notizie ai suoi pazienti. Si può credere alla verosimiglianza di un sogno fino a quando non è l’inconscio a emergere dalle fessure, a macchiare con il suo tocco di inchiostro le pieghe della materia onirica. È quel che succede nella sezione dedicata alla giovane età adulta, dove il ritmo allucinato di un rave party ricorda al sognatore il terremoto che gli ha portato via la casa. Sognano le persone al sicuro nei loro letti, ma sognano anche i senzatetto che dormono su cartoni umidi nei pressi della stazione e che continuano a vedere le immense distese di sabbia che si sono lasciati alle spalle. Ma il confine tra sogno e realtà con l’avanzare dell’età si assottiglia, e le due dimensioni cominciano a collidere, facendo riemergere nella mente dell’anziano ricordi che vengono percepiti come accadimenti presenti e reali. Sogno o son desto? Si può credere a ciò che si sogna o si vede a teatro? Raramente ci si ricorda che basta accendere la luce. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse un progetto MERLI – SERENA ideazione Francesca Merli e Laura Serena drammaturgia Matteo Luoni regia Francesca Merli con Laura Serena, Marco Trotta in video Andrea Bortolami, Luisa Pasti, Enrico Balestra, Andrea Benetton, Guido Sciarroni, Khalil, Giusy Molena indagine a cura di Matteo Luoni, Francesca Merli, Laura Serena, Marco Trotta musiche Federica Furlani disegno luci Francesca Merli assistente alla regia e cura dei costumi Enrico Frisoni riprese video, montaggio Stefano Colonna foto di scena Serena Pea produzione TSV – Teatro Nazionale
DANCE N’ SPEAK EASY (Wanted Posse)
Con Dance N’ Speak Easy, i Wanted Posse, in prima nazionale a Genova, fanno viaggiare lo spettatore nel tempo e nello spazio, portandolo nell’America degli anni ’20, in pieno periodo proibizionista. Cinque tipi umani, quattro uomini e una donna, si incontrano in uno speakeasy, cioè un locale segreto dedicato al consumo clandestino di bevande alcoliche. Tra interventi solisti, duetti e balli di gruppo, si celebra la libertà d’espressione tramite una dimensione coreutica accattivante. Leggeri come foglie, ma resistenti come l’acciaio, si ha l’impressione che nel danzare non impieghino il minimo sforzo, per quanto il sudore che impregna le loro camicie e macchia il pavimento sia testimone del contrario. Eppure, è un’apparenza di spontaneità quella che emerge, come se non ci fosse davvero una coreografia ben oliata a dettare ogni minimo movimento e si siano ritrovati in un bar per scambiare mosse di Charleston e di breakdance in maniera puramente casuale. È il linguaggio del corpo a sopperire alla mancanza totale di parole e a far intuire cosa stia accadendo nelle scenette brillanti che si incastrano come maglie di una cotta tra le esibizioni di danza. E così, i protagonisti si trovano a litigare per attirare l’attenzione della donna seducente fasciata in un vestito dorato. Abito che viene abbandonato, così come i tacchi alti, mentre la donna, pian piano, viene integrata nel corpo dei danzatori, simile a loro anche nel vestiario, come se si fosse liberata da costrizioni relative al voler apparire in un determinato modo e sia riuscita finalmente ad esprimere la sua natura più autentica. Tra il rombo degli applausi che a intervalli regolari si scatena nel pubblico e il battito delle mani che va a tempo con la musica, gli spettatori non perdono occasione per dare un riscontro positivo di gradimento alla compagnia. Per 80 minuti ininterrotti, i Wanted Posse regalano una performance che mantiene invariato lo stesso livello di intensità e che culmina in un’ovazione generale, un brindisi alla libertà di essere sé stessi. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Coreografia: Njagui HAGBE Messa in scena: Philippe LAFEUILLE Luci: Dominique MABILEAU, assistita da Floriane MALINSKI Scenografia: Dominique MABILEAU, assistita da Eric PROUST Costumi: Noémie NAFTAWAY Ballerini / Artisti: Martin THAÏ, Marcel NDJENG, Mamé DIARRA, Arthur GRANDJEAN, Victor BALATIER, Lydia ELATTAR Produzione: Compagnie Wanted Posse Coproduzione Châteauvallon – Scène Nationale, Centre Chorégraphique National de La Rochelle, Cie Accrorap/ Kader Attou, La Place – Hip Hop Cultural Centre, Espace Michel Simon – Noisy Le Grand Partner Wanted posse è sostenuta dal Dipartimento di Seine-Saint-Denis, dalla Città di Parigi, dal Consiglio Regionale dell’Ile De France. Con l’aiuto di Spedidam
#BOLOGNA
LE NUVOLE DI AMLETO (di Eugenio Barba)
Quando entriamo la sala dell’Arena del Sole è stata smontata e il suo senso capovolto: una platea sgomberata dalle poltroncine ci accoglie, pubblico ristretto di ogni replica de Le nuvole di Amleto di Eugenio Barba che, dopo il debutto milanese, è passato da Bologna per andare poi alla Biennale di Venezia. La classica impostazione palcoscenico-platea non è fatta per accoglierlo quindi due gradinate mobili si fronteggiano in mezzo alla sala costituendo un corridoio che sarà lo spazio della scena, delimitata da due grandi display luminosi ai lati. Lo spettacolo mette al centro il topos dell’eredità dei padri: la colpa, come nell’antica tragedia greca, è un lascito che attraversa generazioni. Amleto impazzisce a causa della sua eredità e si perde nella selva delle sue passioni, tra il desidero di vendetta in nome del fantasma paterno, e l’amore per Ofelia, anche lei governata e poi sopraffatta dalle emozioni. Eugenio Barba torna sulla scena con la sua compagnia storica e due attori giovani nei panni della coppia shakespeariana in un clima quasi favolistico: Amleto sembra un fauno col manto di pelliccia, il violino e la gonna ricoperta di paillettes. I contrasti in quest’opera sono molti e dissonanti. Si va da lunghe scene di passione carnale - come quelle tra la regina e il nuovo re - ma quasi parodistiche, a monologhi altisonanti, in un’atmosfera da Terzo Teatro. Ma se di “eredità dei padri” vogliamo parlare, l’eredità dell’Odin Teatret che negli anni ‘60 ha contribuito ad aprire le porte del teatro contemporaneo come lo conosciamo, presentandosi così cristallizzata oggi ci serve ancora? Mostrandoci ancora una sperimentazione superata e, probabilmente, anacronistica, pur non tradendo se stessa, ha ancora senso per il pubblico contemporaneo? Tutto sembra assurdo, di difficile interpretazione, tutto è “altro” ma si fa fatica a raggiungerlo. Alla fine della performance la compagnia non rientra per gli applausi e questo ennesimo tradimento allarga il divario tra il mondo espressivo della scena e la realtà silenziosa. Le nuvole di Amleto si presenta come un’apparizione, diventa un incontro del terzo tipo e si conclude in un vuoto frastornato. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: testo, drammaturgia e regia Eugenio Barba montaggio testi di Shakespeare Eugenio Barba attori Antonia Cioaza, Else Marie Laukvik, Jakob Nielsen, Rina Skeel, Ulrik Skeel, Julia Varley disegno luci e video Stefano Di Buduoconsulente film Claudio Coloberti costumi Odin Teatre spazio scenico Odin Teatret direttore tecnico Knud Erik Knudsen assistenti alla regia Gregorio Amicuzi e Julia Varley produzione Odin Teatret, Tieffe Teatro Milano/Teatro Menotti, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale foto di Annalisa Gonnella
#Roma
ORSANTE (di Matteo Vignati)
Orsante è un piccolo romanzo teatrale: partendo dalle storie minime dentro la Storia, Matteo Vignati si scrive addosso una drammaturgia per attore solo, aiutato in scena soltanto da un disegno luci essenziale, gioco di tagli e temperature che chiariscono i ripetuti salti spaziali e temporali. Con gli occhi e i gesti di un bambino adulto ci accompagna nel viaggio di formazione di Ultimo: dalle montagne di un appennino imprecisato e impervio, dove la vita è lavoro e fatica e troppe sono le bocche da sfamare, fino ai sentieri infiniti di un’Europa che si affaccia sul Novecento, a bordo del carro feroce e magnifico di una carovana di circensi e domatori. Ultimo ha sei anni quando suo padre lo strappa per sempre da quella terra/madre amata. Il cerchio narrativo si apre e si chiude lì, dove Ultimo, incapace di mentire anche solo per salvarsi la vita, scopre di aver sempre mentito a se stesso per la stessa ragione: quell’amore che lo ha tenuto in vita in mezzo a incertezze e pericoli forse non è mai esistito. Nel mezzo l’avventura, la scoperta, la paura e lo stupore: un universo vorticante di uomini e bestie e come unica luce due Orse: una da cercare in cielo, l’altra, spaventosa e materna, da domare e farsi amica. Un esperanto di dialetti e idiomi europei è la lingua cesellata da Vignati, musicale e mai retorica: lo spettatore entra ed esce dal flusso di parole, sempre agganciato alla purezza di un gesto attoriale misurato, una partitura fisica e vocale essenziale, compenetrata alla narrazione, capace di evocare visioni fulgide, paesaggi, orsi, scimmie e cammelli ammiccanti. Rinunciando alla quarta parete, complice la prossimità della platea, sceglie gli occhi dello spettatore in cui piantare i propri per trascinarlo in mezzo alla folla delle piazze d’Europa, sulle rive di un piccolo lago disperso, fin nella gabbia dell’orsa. Cos’altro chiedere al teatro se non di metterci davanti al mistero della parola, nel suo fondersi con il corpo-voce che abita per restituire in purezza una storia, una vita? (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Trastevere nell’ambito di Inventaria 2025. Di e con Matteo Vignati
IL VALORE AFFETTIVO DEL PESCE (di K. Di Porto regia D. Aureli)
Troppo spesso, quando ci si occupa di disabilità psichica o anche solo di disturbi che rendono complicato il confronto con gli altri, si ricorre a opere un tantino lugubri, su cui l’ombra della malattia aleggia in modo pressoché totale. Mentre più raro è trovare opere che vogliano affrontare certi argomenti con la leggerezza di un racconto semplice, alimentato da bisogni quotidiani e confronti anche ironici sia con la disabilità che con le persone attorno. È questo il caso di uno spettacolo scritto da Ketty Di Porto (e interpretato insieme a Enzo Saponara) che con la regia di Daniele Aureli ha visto la scena del Teatro Basilica, con per titolo Il valore affettivo del pesce. C’è un palco quasi vuoto, fatta eccezione per due piccole seggiole scolastiche da scuola materna e due neri lumi da terra a media altezza, che creano uno spazio più circoscritto entro cui il racconto prende vita. I personaggi che si avvicendano – una donna, un amico, un padre, una psichiatra – cercano di far uscire dalla penombra il proprio bisogno che la società comprime, attraverso l’incontro con l’altro mille volte visto e mai davvero osservato. Pian piano che le storie avanzano l’una nell’altra aumentano le lampade, come steli di fiore che sbocciano luce, lasciando che le parole attraversando la leggerezza conservino anche il cuore piagato dei personaggi, il peso della loro anima ferita. È una regia delicata quella di Aureli, come spesso ha abituato il suo pubblico in opere precedenti, lavora in sottrazione, cercando una misura minuta sia attraverso la drammaturgia musicale che sospinge la storia lentamente, sia attraverso una cura della luce che si affida ai piccoli lumi stilizzati in scena, come fossero candele, che un’illuminazione più diffusa, perimetrale, non invade e non tradisce. Resta da sciogliere, in tale delicato meccanismo, il nodo interpretativo che rischia di restare sul palco e non raggiungere pienamente la platea, così da sviluppare una competenza attorale con maggiore consapevolezza espressiva. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: con Ketty Di Porto e Enzo Saponara; drammaturgia Ketty Di Porto; adattamento scenico Daniele Aureli, Ketty Di Porto, Enzo Saponara; regia Daniele Aureli; produzione Il Gigante.
E/U-topia (di ESENCO Dance Movement)
C'è un tendone in mezzo a un bosco, nel silenzio del giardino del Brancaccio ci sono due danzatrici al centro dello spazio: dialogheranno per quasi mezz'ora in un ipnotico susseguirsi di tensioni e liberazioni. Antonella Albanese e Cassandra Bianco vestite di nero, con le maniche gialle (i costumi sono di Maria Albanese) per E/U-topia, visto a Futuro Roma, sono partite da Pablo Neruda, dai versi della poesia Restare in silenzio «ponendo uno sguardo al silenzio, l’ascolto, la sensibilità come potente mezzo di trasformazione sociale». E forse è proprio l’ascolto ad essere la qualità maggiormente in evidenza, come quando i corpi si avvicinano e nel loro “stare” tentano un accordo visibile in un piccolo movimento sussultorio, uno sbilanciarsi leggerissimo in avanti e indietro, come due metronomi in cerca di un ritmo di convivenza. Rallentano, poi velocizzano, si avvicinano, come per scrutarsi, camminano in cerchio, per poi arrivare al floorwork, e poi i giri, gli sguardi nel vuoto: Albanese e Bianco incarnano una temperatura emotiva di cui si percepisce il calore, nella tensione dei volti, negli sguardi verso il vuoto, nelle braccia che vengono lanciate in avanti durante il movimento basculante. La drammaturgia di Francesco Tirelli, ben dosata nella relazione con il pubblico, tra attese, sorprese e stacchi di scena, è supportata dal disegno luci progettato delle stesse autrici: suggestivo il rosso in cui i due corpi si incontrano al centro dello spazio, oppure il finale nel quale tutto lentamente si spegne in un buio suggestivo nel quale, senza musica, i due corpi continuano a muoversi lentamente, come se quell’energia ritmica e sorprendente che ha elettrificato il dipanarsi coreografico ora cerchi riposo, e non c’è bisogno di resistere a questo spegnersi, vi è una naturale fatalismo della fine, quel silenzio di cui parlava Neruda: Ora conteremo fino a dodici e tutti resteremo fermi./ Una volta tanto sulla faccia della terra,/non parliamo in nessuna lingua;/ fermiamoci un istante,/ e non gesticoliamo tanto. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Open Air-Chapiteau Regia | Antonella Albanese, Cassandra Bianco Coreografia | Antonella Albanese, Cassandra Bianco Drammaturgia | Francesco Tirelli Musiche | Nicola Campanella Interpreti | Antonella Albanese, Cassandra Bianco Disegno luci | Antonella Albanese, Cassandra Bianco Costumi | Maria Albanese Una produzione | ResExtensa
#BERGAMO
NON HO CHIESTO (IO) DI VENIRE AL MONDO (di Alessandra e Roberta Indolfi)
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, e…? Sulla distesa di asfalto del cortile interno del Cineteatro di Colognola, in anteprima al festival Up To You quattro performer vestite da bambine di un tempo antico, parallelo al nostro, usano i propri corpi come righelli per disegnare a terra con dei gessetti colorati una decina di caselle rettangolari. Per chi ci ha giocato da bambina, è il gioco della campana, il gioco del mondo, hopscotch nei paesi anglofoni, rayuela in Spagna e America Latina, marelle in Francia. Lì, in quello spazio ludico, non si deve fare altro che giocare, in ogni modo. Non c’ e da produrre niente, c’è solo lo spazio del gioco, della ripetizione, della stereotipia che divora, del sudore sulla fronte, dell’ossessivo uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, e…? che porta il divertimento fino allo sfinimento delle interpreti e del pubblico. Alessandra e Roberta Indolfi contano il mondo saltando, fino a sfaldarne il senso. E quando sembra che tutto sia dispositivo, straniante e a tratti inaccessibile nel senso profondo come il passare un’ora a guardare il gioco di un gruppo di bambine, succede, come sempre nel gioco, l’inatteso. Un performer, scelto con il classico meccanismo della conta, viene mandato bendato a cercare una pignatta appesa in fondo al cortile, guidato solo dalle voci. Quando il performer si perde e sparisce dietro un tendone, qualcuno dal pubblico prova a gridare “sinistra!”, ma ormai è troppo tardi, nessuno sa più dove sia. Esercitate la volontà di sottrarvi, che non è abbandono ma è fare spazio. Sopprimete l’impulso di intervenire, lasciate emergere, lasciate giocare, lasciate lo spazio di desiderare, di capire, di immaginare. Non pensateci come prodotto. Forse questo invoca la lucida e promettente contestazione di Non ho chiesto (io) di venire al mondo, progetto vincitore del Premio Cantiere Risonanze 2024, premio nazionale con la vocazione al ricambio generazionale e alla sperimentazione. Perché ogni generazione a venire possa decidere la propria strada per (ri)apparire in scena con il proprio corpo e, finalmente, colpire.
Visto in anteprima a UP TO YOU Festival Crediti: un progetto di Alessandra e Roberta Indolfi con Eleonora Gambini, Alessandra Indolfi, Roberta Indolfi e Giuseppe Zagaria produzione esecutiva Zerogrammi Vincitore Premio Cantiere Risonanze Network 2024, Vincitore Bando Nuovo Grand Tour 2024
PORNOGRAFICO VAUDEVILLE (di Stefano Poeta)
Sei performer, una bambola gonfiabile e un pupazzo per un ventriloquo. I personaggi esasperati di un vaudeville, a tratti deformi e caricaturali, a tratti realistici, danno vita nell’Auditorium di Piazza della Libertà di Bergamo, per il festival Up To You, a tre quadri che con linguaggi diversi naufragano nelle derive contemporanee dell’essere maschio. Il corpo — di carne e plastica — è protagonista e campo di battaglia: desiderante e oggetto del desiderio, strumento di dominio, ma anche vittima in un lavoro che interroga il maschile nella sua declinazione più tossica e inconsapevole. L’uomo incel, vittima autoproclamata del rifiuto, è figura tragicomica che dietro la fragilità coltiva odio, frustrazione e violenza. Tra un pupazzo al suo primo atroce appuntamento, il divano nel quale sprofondano tre amici in raptus di fast food e violenza e il quadro finale che ne restituisce il senso, i sei interpreti incarnano personaggi schifosi e al tempo stesso vittime incapaci di occuparsi della propria intimità finendo per deformare la realtà che li circonda. Poetica la scena finale, quando il respiro umano e la bambola gonfiabile sembrano aspirare a una visione comune: il desiderio (e il terrore?) di essere aria, reclamando il diritto anche a essere nulla. Quando lo spettacolo smette di essere gioco? Cosa è davvero pornografico? Come si passa dal grottesco alla vertigine? In un impianto scenico ancora in fase di ricerca, con il quadro del ventriloquo che non trova a pieno il suo fuoco, Stefano Poeta costruisce una struttura drammaturgica che si prende la responsabilità di aprire questioni e interrogare se stesso e il pubblico. Poeta dirige i compagni di accademia gettando insieme a loro una propria bussola poetica ed estetica; sotto la superficie ridicola e dissacrante si muove qualcosa di profondo, di intimo e umano che svela il bisogno di creare un sistema teatrale nel quale mettere in scena le nostre inquietudini, per vederle uscire da sé e consumare assieme il bisogno di parlarne.
Visto in anteprima a UP TO YOU festival drammaturgia e regia di Stefano Poeta con Giovanni Conti, Andrea De Luca, Gabriele Enrico, Michele Montironi, Gianluca Scaccia, Luca Zaffanella Primo Premio European Young Theatre Group Competition al Festival dei Due Mondi di Spoleto
GHOST TRACK (di Daniele Turconi e Gianluca Agostini)
«Bergamo ci sei o no?» Il vocalist, i bicchieri in mano, le borse sulle panche, le mani in alto, il fatevi un applauso, la consolle, le luci led, i drink, le gambe che si muovono, le proiezioni video, i corpi che seguono. In scena all’Ink Club, in programmazione tra concerti live e dj set, tra musica emergente e scena underground, per Up To You festival Daniele Turconi presenta in anteprima Ghost Track. Una performance ibrida tra il reading e il rave, tra la confessione esistenziale e il racconto trash-pop di provincia sulle sonorità live tra techno, noise ed electro di Gianluca Agostini che trasforma il racconto in un beat narrativo. Le storie di Turconi – cinque, come tracce nascoste di un album che nessuno ha mai pubblicato – sono confessioni live di fantasmi che vivono ai margini: Tommaso che si masturba con la mortadella sugli occhi, Mauro e i suoi 457,55 euro in dentifrici, Nando che seppellisce gatti nella provincia dove tutto è possibile, Elisa che vuole fuggire con un succo all’albicocca. È l’Italia che non finisce nei festival teatrali, ma che vaga nella nebbia di Via Magenta, dove Loris sgasa in moto tra cocaina e marmitte. Sul palco/pista il flow di Daniele Turconi è un booster che affonda nella piscina comunale, eco di tutti i derelitti che prima o poi toccano il fondo. Turconi non cerca di spiegare la provincia ma la evoca come un’allucinazione lucida da sotto il led rosso della sua visiera; i personaggi si alternano sulle tracce tra ironia e dolore, risate e abisso esistenziale. E in questa frattura, tra l'intimità e la follia, si apre una nuova ritualità: Ghost Track è teatro-culto sotto le luci della club-culture per chi per questa sera non è andato a teatro. Tra i drink e le mani alzate si balla un lutto collettivo, un'identità smarrita, un amore affogato nel cloro. Nella frizione tra beat e biografie, tra citazione post punk e racconto breve, Ghost Track è un rito conosciuto per un pubblico nuovo e un rito nuovo per il solito pubblico. E mentre ci si mette in bocca il testo per gridarlo insieme si sente nel centro del petto una domanda feroce: siamo pronti per vederci godere insieme? La risposta è nell’ultima traccia, più sborra e meno sbirri allora, perché All Cops Are Beautiful
https://open.spotify.com/intl-it/artist/0K4r43g3BYDz3wEt112mPs?si=7q6_LXIgQKaKFrT1dJ6h0A
Visto in anteprima a UP TO YOU Festival regia e testi Daniele Turconi con Daniele Turconi e Gianluca Agostini musiche e sound design Gianluca Agostini consulenza illuminotecnica di Costanza Monti costumi Lucia Menegazzo collaborazione ai testi Alice Provenghi coprodotto da Qui e Ora Residenza Teatrale, Tib Teatro Belluno e Pallaksch con il sostegno di Zona K
#MILANO
PENTOTHAL. PROVE DI TRASMISSIONE (regia di Ruggero Franceschini)
Se ci si immagina una radio libera degli anni Settanta a Bologna, convenzionalmente vengono in mente più o meno le stesse cose: fumo di sigarette, un complicato strumento di trasmissione, una band surreale-rumorista, cartoni delle uova alle pareti, jeans avvitati su scarponcini alti e sgomberi della polizia. Tolte le sigarette, tutto il resto fa parte della scenografia di Pentothal. Prove di trasmissione, nuovo lavoro di Ruggero Franceschini, visto al Life Festival di Zona K. Inimmaginabile in via preventiva è, invece, lo schermo illuminato che domina lo sfondo su cui è proiettato un interfaccia molto simile a quello di Chat GPT. Franceschini, infatti, supportato da Residenze Digitali, nel 2024 ha generato un chatbot caricandovi sopra diversi testi e interventi appartenenti alla controcultura degli anni Settanta, tra cui le registrazioni di Radio Alice, storica radio libera a cui il drammaturgo e regista si ispira: durante lo spettacolo, come se fosse un ospite, il chatbot impersonifica autori e autrici esistenti, come Bifo e Shoshanna Zuboff, o personaggi fittizi, come Ugo Bastianini, protagonista di una canzone demenziale trasmessa proprio da Radio Alice. Con lui, attraverso domande dal pubblico o, più spesso, dai conduttori, si ragiona attorno al capitalismo della sorveglianza, sistema che si appropria dell'esperienza umana per trasformarla in dati, prevederla, influenzarla e sfruttarla per fini economici o politici. Occuparsi di un tema del genere proprio attraverso uno degli strumenti più utilizzati dal capitalismo della sorveglianza dà vita a una contraddizione inevitabile, che si inserisce in modo divertito all'interno di una struttura fluida, aperta e, proprio per questo, insensibile alle fratture. Poiché ogni incongruenza viene giustificata dall'atmosfera scalcinata e parodistica che avvolge la sala, questo paradosso non entra mai in crisi: emerge, allora, l'impressione che nel percorrere un'idea sperimentale arguta e complessa, si sia preferito, per prudenza, rifugiarsi in una baraonda. (Matteo Valentini)
Visto alla Fabbrica del Vapore, Life 2025: concept, regia e drammaturgia Ruggero Franceschini, con Angelo Callegarin, Paula Carrara, Ruggero Franceschini, live music I Fidanzati della Morte (Giacomo Benvenuto e Marco Papparotto), set design Kinga Kolaczko, visuals Tommaso Girardi, creative developer Michele Cremaschi, tutor Marcello Cualbu e Anna Maria Monteverdi, produzione SlowMachine, M.A.L.T.E.,
FIGHT NIGHT (regia di Alexander Devriendt)
In un momento di chiamate alle urne per il referendum del 7 e 8 giugno, e di contemporanei suggerimenti vacanzieri, è suggestivo assistere a uno spettacolo come Fight Night, che la compagnia belga Ontroerend Goed mette in scena dal 2013. Munito di un telecomando a cinque canali, ogni spettatore è invitato da una moderatrice a esprimere le proprie preferenze rispetto, innanzitutto, a cinque candidati di diversa età, genere ed etnia, e poi a diverse altre caratteristiche, volte a individuare, tra quei cinque, il candidato più rappresentativo della maggioranza. In quale fascia di reddito ci si inserisca; se si sia pagato o meno il biglietto; se da un leader si desideri essere rispettati, ispirati, guidati o protetti; se il sistema sia da considerare equo, abbastanza equo, neutro, abbastanza iniquo o iniquo: ogni scelta corrisponde a un arretramento di un candidato o a un suo avanzamento, fino all’eliminazione o al trionfo, tra proclami elettorali e dibattiti all’americana che avvengono su un minimale palchetto rialzato. Non sono in gioco particolari questioni etiche, la drammaturgia non intende concentrarsi sui grandi temi del nostro tempo. All’interno di un meccanismo elettorale di cui sia il fine, sia i meccanismi di raccolta e conteggio dei voti sono imperscrutabili, la riflessione si appunta piuttosto sull’atto stesso del voto, che si riduce al pigiare un pulsante in un brevissimo arco temporale, saltando quei passaggi che dovrebbero idealmente sostanziare una democrazia, come l’informazione, il ragionamento, la discussione. Una sintesi, questa, forse un poco brutale, ma capace di restituire la condizione dell’elettore nelle democrazie contemporanee, alienato rispetto al proprio diritto di voto e pervaso dalla costante sensazione che quel segno tracciato sulla scheda comporti, al meglio, una pura formalità, al peggio, l’elezione di un soggetto sì rappresentativo, ma pericoloso. (Matteo Valentini)
Visto alla Fabbrica del Vapore, Life 2025: diretto da Alexander Devriendt, scritto da Alexander Devriendt, Angelo Tijssens, interpretato da Aurélie Lannoy, Eva Rys, Jonas Vermeulen, Michaël Pas, Prince K. Appiah, Eliza Stuyck, Bastiaan Vandendriessche, Charlotte De Bruyne, Nathan Christiaensen, Aaron J. Gordon, in scena a Milano Aurélie Lannoy, Eliza Stuyck, Bastiaan Vandendriessche, Prince K. Appiah, Eva Rys, Aaron J. Gordon, sistema di votazione Samir Veen, Nick Mattan, design Nick Mattan, costumi Valerie Le Roy, direttore di produzione Lynn Van den Bergh, tecnici Tuur Decoene, Bent Dujardin, Diederik De Cock, Ine Van Bortel, Nick De Keyser, Jakke Theyssens, software Florian Van Belleghem, Mixx, produzione Ontroerend Goed, coproduzione Perpodium, in collaborazione con NTGent
IO SONO IL VENTO (di Jon Fosse, regia Marco Bonadei)
Due uomini sono su una barca. O forse no. Una barca non c’è, come non c’è un viaggio lineare, un inizio e una fine. C’è invece una vasca – d’acqua biancastra – e due corpi che emergono e si inabissano. C’è qualcosa di già accaduto. “Io non volevo…Accade così per caso” ma che cosa è successo per davvero lo capiamo solo dal botta e risposta tra i due, perché Uno comincia a chiedere con insistenza, rivolgendo al compagno di viaggio quelle domande candide che solo i bimbi sanno fare, e l’Altro prova così a rispondere, con quello che riesce, come sa, con le parole che ha: “Io sono via, sono andato con il vento. E non ci sono più”. Cosa lo spinge però a decidere di non essere più? E come si prepara invece ad abbandonare la vita? Dal testo di Jon Fosse, drammaturgo e scrittore norvegese Nobel per la Letteratura, Marco Bonadei – regista curioso e validissimo attore assieme al genuino Angelo Di Genio – estrae queste domande esistenziali e le immerge nell’acqua da dove tutti proveniamo. Ma è un’acqua torbida che supera di poco le caviglie, altezza metà tibia, non ci si può annegare, forse solo scivolare o cadere, immergersi di un poco, sbrodolarsi o fare ciaf ciaf coi piedini oppure prenderla a schiaffi quando ti fa incazzare. È un’acqua su cui poter navigare? Uno chiede, l’Altro risponde. Secco, svogliato, o forse solo indifferente, dice che si sente una pietra che sprofonda, un muro di cemento, fermo e immobile, che non sopporta il rumore di ciò che lo circonda, il rumore dentro. Una pioggia di microfoni scandisce dall’alto la scena per amplificare i movimenti dell’acqua, i brusii nella testa, le domande continue, i silenzi che ir-rompono nella struttura narrativa e la spezzano. “Dimmi, perché l'hai fatto?” domanda Uno. “Avevo paura, sapevo che sarebbe successo, ed è successo. Io non volevo, l'ho fatto così, per caso”. Risponde l’Altro, ma ora solo a se stesso. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Jon Fosse, regia Marco Bonadei, con Angelo Di Genio e Marco Bonadei, traduzione Vanda Monaco Westerståhl, collaborazione alla regia Alessandro Frigerio, drammaturgia del corpo Chiara Ameglio, luci Michele Ceglia, dispositivo sonoro Gianfranco Turco e Leonardo Bonetti, ideazione scene Marco Bonadei ed Elena Rossi, costumi Elena Rossi, realizzazione costumi Elena Rossi e Andrea Merisio (tirocinante), costruzione scene Tommaso Serra e Tommaso Frigerio, foto e video di Marcella Foccardi, produzione Teatro dell’Elfo
#VICENZA
MADE IN AMERICA (Tulsa Ballet)
Possiamo meglio accogliere il titolo dell’intenso e vario programma Made in America del Tulsa Ballet presentato al Teatro Comunale di Vicenza, ascoltando direttamente le parole del direttore artistico della compagnia fin dal 1995. Marcello Angelini, in un bell’incontro pubblico, confessa che al titolo lui stesso vi aggiunge, perentorio, «By Foreigners». Lo chiama un internal jocke, condiviso dai membri della compagnia: «fatto in America ma da stranieri». Ed è un bel mònito contro le superstiziose politiche anti-stranieri, che un po’ ovunque nel mondo sovranista si stanno affacciando. La storia del balletto americano è infatti tutta diasporica, un coacervo di identità meticcie inestricabile, spesso diviso tra ospitalità e assimilazione in un paese di migranti. Tale varietà di identità è senz’altro la più importante cifra stilistica del Tulsa Ballet che del suo vasto repertorio ha mostrato qui tre differenti lavori. In tutti e tre si percepisce ineccepibile una tecnica di movimento, a base classica, che lascia trasparire cura e allenamento (della scuola, della compagnia giovane e della compagnia principale) sorvegliatissimi. Il primo, Classical Symphony (2016), è una bellissima coreografia di Yuri Possokhov, su musiche di Sergei Prokofiev (Symphony No. 1 in D major, Opus 25 “Classical”): un virtuosismo anche spesso giocato su difficili equilibri e torsioni del busto (con piroette eseguite in ginocchio!) sviluppano una fluidità del movimento continua e orizzontale, perfettamente organica. In Divenire (2022), il coreografo Nicolò Fonte elabora sulle musiche di Ludovico Einaudi (Divenire, Origine nascosta, Corale, Experience) e di Matteo Saggese e Anna Phoebe (Dancing leaves), un progetto più cotemporaneo, in perfetta consonanza con una musica ciclica e ipnotica: colpisce la figura in chiusura di una interprete sollevata ma inclinata come una revoca di ogni imposta o forzata verticalità. Mentre in Remember our song (2022), Andy Blankenbuheler, “The King of Boroadway”, realizza qui il suo primo (riuscito) lavoro per una compagnia di balletto: l’equipaggio di un sottomarino, di fronte alla morte, evoca le presenze dei propri affetti, sulle note pop di Regina Spektor. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Comunale di Vicenza Vai ai crediti completi
#Roma
COME NEI GIORNI MIGLIORI (di D. Pleuteri, regia L. Lidi)
Qualunque pagina dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes si ritrova squadernata, illuminata, agita sulla scena de Come nei giorni migliori. E non è per un approccio citazionistico o per vezzi enciclopedici nella nitida regia di Leonardo Lidi, o nel meraviglioso testo del 2023 di Diego Pleuteri. Si tratta forse piuttosto di un montaggio dal sapore filmico, rapido e preciso, che incolla tutti i topoi della relazione amorosa come in un lentissimo avanti veloce – come nel capitale testo barthesiano. Si tratta anche, senz'altro, della palpitante libertà interpretativa che comunicano Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese. Due vestali di un fuoco sacro che rende atroce tenersi per mano, ma che al contempo fonde le soggettività in un tentativo inesauribile di provare-a-essere-coppia. Due eroi e sullo sfondo una città, Milano, appena sfrangiata nei toponimi della vicina provincia, come ad abbozzare uno sprawl esistenziale – un fondale invisibile ma palpabile, che diventa istantanea metafora generazionale del disagio amoroso nostro. Eppure questa danza a due, tra lo studio di uno psicanalista e un museo, tra un parco di notte e una casa di studenti, tra una madre perduta e una partita a paddle, è come un geroglifico: universale nella sua immanente riconoscibilità, indecifrabile perché la chiave è perduta – forse da sempre. Lidi, Pleuteri, Bandini, De Vreese ma anche Nicolas Bovey per la scena e le luci, compongono un album in cui ogni scelta è il contrario di un'antologia, ma proprio per questo il risultato è reale e pungente. Una spettatrice, seduta in sala vicino a chi scrive, muove lo sguardo incessante tra Billy (Bandini) e Jessica (De Vreese), proprio come in una partita di paddle, si profonde in cenni di assenso alternando empatia per l'uno e l'altro, segue le corse a perdifiato dei due che sudano, urlano, piangono e si baciano con tutta la sapienza dei loro corpi – attivando una partecipazione altrettanto corporea in chi guarda. Come nei giorni migliori, quando l'amore è un fatto vissuto, necessario e incessante. (Andrea Zangari)
Visto a Teatro India. Crediti: di Diego Pleuteri; regia Leonardo Lidi; con Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese; scene e luci Nicolas Bovey; costumi Aurora Damanti; foto Luigi De Palma produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
PARLA CLITEMNESTRA (di Barletti/Waas)
Nell’incertezza etimologica per l’antica origine della parola “amore”, la sola certezza è dovuta alla carica di passione viscerale che sembra coesistere in ogni radice, in contrasto con l’idea della morte come da un lato conclusione e dall’altro appagamento di quella certa pena. In questo Parla, Clitemnestra!, portato da Barletti/Waas sul palco di Spin Time, questa tensione amorosa che si perde nella consuetudine della schermaglia e nell’eternità della tragedia sembra far ricorrere simile peculiarità. Come statue classiche, cosparsi di gesso Agamennone (Gabriele Benedetti) e Clitemnestra (Lea Barletti) si fronteggiano a centro scena, nel buio solo contrastato da poche piccole torce azionate dal pubblico a proprio piacimento; raramente si guardano in volto, come se recitassero l’eternità di quelle parole che si intrufolano nel silenzio da sempre e per sempre, penetrando con la loro storia un tempo che preesiste a chi vi assiste e anche alla loro stessa lite. Il testo di Barletti, che la regia di Werner Waas accomoda sui corpi scolpiti in una scolpita oscurità, ha una simile intensità del suono, concedendosi mai banali strappi di rime che scivolano nella poesia. A muovere verso questo personaggio molto più che collaterale della tragedia greca è proprio l’inadeguatezza tra la sua consistenza effettiva e l’attenzione che oggi si direbbe “mediatica” data nel tempo, così importante e così poco raccontata, così determinante e ridotta ad appendice di tragedie ben più presenti. E allora? A chi parla questa Cltemnestra? Chi le ordina di parlare? Forse Agamennone vigliacco e un po’ pentito, forse il coro che ascolta e medita una giustizia più saggia, forse, chissà, lei stessa richiama attenzione a sé, si induce a parlare perché troppo è il tempo passato a tacere. Una donna, Clitemnestra, per tutte le donne che credono, si deludono, credono ancora, lasciano fare al tempo inaudito ciò che agli uomini è concesso, finché una donna tra le donne dice no e la tragedia, eterna, scopre in teatro la propria finitezza. (Simone Nebbia)
Visto a Spin Time. Crediti: di Lea Barletti; con Lea Barletti e Gabriele Benedetti; regia di Werner Waas; produzione Barletti/Waas GbR con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti
TRASH TEST (di Andrea Cosentino)
C’è un artista nel panorama italiano che da anni porta avanti una ricerca radicale sulla comicità teatrale intesa come rapporto senza rete di protezione con gli spettatori: parliamo di Andrea Cosentino, un comico che gioca senza quarta parete ma non fa stand up comedy e la sua metateatralità non è di maniera. Quello che è stato presentato in anteprima a Carozzerie Not è frutto di una ricerca ossessiva sulle capacità di chat gpt, e proprio per le fluttuazioni date dal tema del lavoro - ovvero il rapporto artistico con l’intelligenza artificiale - anche ogni replica ha il valore di un pezzo della ricerca stessa. Cosentino abita una scena vuota con un computer e un fondale per le proiezioni (dove appariranno le creazioni “letterarie” firmate dal software), l’idea è quella di spingere al massimo delle potenzialità teatrali dell'I.A.. Cosentino ne racconta il funzionamento, ci dialoga tentando imbarazzanti duetti comici in cui le chiede di rispondere a tono a freddure e gag con un’improbabile intonazione abbruzzese. Il risultato è esilarante perché gioca proprio sull’effetto comico disatteso e sulla risposta mimica dell’attore, inoltre questa spalla comica digitale non può uscire dai confini di una ironia di plastica, inclusiva a tutti i costi, e si prende troppo sul serio, ci crede senza avere talento e addirittura si autocelebra spiegando l’efficacia della propria battuta. A ragione dunque l’artista a un certo punto annuncia la “bullizzazione diadattica” dell’attore virtuale, ma questo non si scompone rimanendo tristemente calmo. Il meccanismo è simile anche nella seconda parte dello spettacolo quando viene alzata l’asticella con l’obiettivo di far scrivere a chat gpt le scene di uno strampalato spettacolo distopico con tanto di emergenza climatica e proprio un’intelligenza artificiale da combattere. È incredibile la mediocrità con cui vengono inventate le trame e i toni della scrittura, ma sono incredibili anche la velocità di risposta e le possibilità future di apprendimento. Sarà interessante tornare a vedere questo spettacolo (proprio per l’interrogazione dal vivo dello strumento) tra qualche mese o anno, il futuro è domani. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Carrozzie Not Di e con Andrea Cosentino assistente alla regia e collaborazione alla drammaturgia Andrea Milano consulenza artistica Margherita Masè light designer Massimo Galardini coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi assistente all’allestimento Giulia Giardi cura della produzione Camilla Borraccino e Francesca Bettalli ufficio stampa Cristina Roncucci comunicazione Francesco Marini produzione Teatro Metastasio di Prato
COSTELLAZIONE VICINELLI (di Gruppo RMN)
La ricerca teatrale è fatica, abnegazione, ossessione, lampi di genio, pazienza, anche noia, quella di dover tornare su alcuni concetti, quella di dover ripetere la stessa scena fino a quando “gira” come dovrebbe. Tutto per un risultato effimero ma unico. Il collettivo Gruppo RMN lavora da due anni a un oggetto misterioso: uno spettacolo che possa gettare una luce su una poeta troppo poco conosciuta, Patrizia Vicinelli, ponendosi anche un interrogativo che fa tremare i polsi: cos’è un* artista oggi, chi decide cosa sia un* artista? Il lavoro, vincitore del festival inDivenire 2024 e presentato proprio al debutto allo Spazio Diamante (e poi all’Angelo Mai), comincia da quella commissione fatta da burocrati e consulenti che nel 1990, a seguito di un appello di intellettuali sostenitori, doveva analizzare la domanda che avrebbe portato l’artista bolognese a usufruire o meno del vitalizio. Nella scena vuota ciò che è più visibile è la postazione per la musica live di Leo Merati che accompagnerà lo spettacolo determinandone le atmosfere sonore. Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Giulia Quadrelli, Francesco Tozzi raccontano il dispiegarsi stesso della ricerca dando voce alle persone intervistate, quasi facendoci visualizzare il lavoro negli archivi, le discussioni con i professori che a Vicinelli sono stati vicini. E se la teatralizzazione del processo creativo e delle sue difficoltà è ancora da mettere a punto o da ripensare (affinché non risulti una scelta di maniera) è per il tentativo riuscito - civile e culturale - di fermare per qualche minuto la figura sfuggente di Vicinelli che questo spettacolo merita di essere visto: in questa urgenza di trasmettere la febbrile passione per un’artista che incarnava la poesia nelle sue performance vocali, nella capacità e urgenza di dare al verso una potenza visiva, nella sperimentazione incessante che la portava ad attraversare altre forme di arte e rappresentazione, si veda la partecipazione al cast di Amore tossico di Caligari, proprio lei che all’eroina aveva intrecciato la propria vita, fino alla morte per aids nel 1991. (Andrea Pocosgnich)
Visto allo Spazio Spazio Diamante con Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Francesco Tozzi | consulenza letteraria di Allison Grimaldi-Donahue produzione esecutiva Atto Due. Spettacolo vincitore del Festival inDivenire 2024
#CATANIA
FIN CHE CI TREMA IL CUORE (di Michael Incarbone)
Come danzatore Michael Incarbone è una meraviglia: fluidissimo, preciso, con un incedere quasi senza dispendio, laconico. Al FIC di Catania, festival diretto da Roberto Zappalà giunto alla sua 6a edizione, ha invece consegnato a due straordinarie danzatrici, Erica Bravini e Marina Bertoni, una sua composizione coreografica estremamente suggestiva e piena di destrezza, e di suono, e di buio. In un campo visivo allargato, illuminato da una partitura di luci dinamica e pensata con cura (da Danila Blasi), le due danzatrici (di blu ipnotico rivestite, nei costumi di Giulia Cauti) si alternano in scena o si tengono in gioco secondo una frequenza progressiva e variabile, per vorticose ripartenze e morbide decelerazioni. Le complici (e giustissime) musiche originali (di Filippo Lilli) liberano forze sonore e paesaggi ambientali che riscattano ogni trasparenza, ogni estorsione della visibilità. Bravini è allucinata da un ritmo crescente che continuamente viene messo alla prova come per stanare nello spazio ciò che resta nascosto nella percezione del tempo. Bertoni invece sembra incalzare gli stati del tempo come per far collassare ogni esperienza di abbandono. L’ipnotica costruzione del quadro è inferiore alla meraviglia per tanto virtuosismo di presenza, accentuata dall’uso di aste di metallo come linee che fendono l’aria e poi in bilico sulle teste, nel finale. La danza qui sembra spazzare via, mentre li evoca, tutti i fantasmi e le paure dell’inautentico. Nulla qui è regressivo, nessun voluto ricatto, la danza è tutta nuova. Fanno bene al cuore i versi di Zambrano in esergo al programma. In tanto intelligente virtuosismo, però, non si percepisce alcuna incrinatura, nessuna piega rivela l’incerto, un problematico capace di promessa. Né di caduta. Il settenario del titolo tradisce la pulsione poetica di questo comporre per atmosfere: acustiche, visive e dinamiche, ma sono certo che questa affezione per le suggestioni sarà capace, magari sempre con Zambrano, di accogliere in futuro anche le ombre e le crepe, gli inciampi e le storture, «lo spazio di una notte seguita dall’alba». (Stefano Tomassini)
Visto a Scenario Pubblico, Fic Festival idea e coreografia Michael Incarbone performer Erica Bravini e Marina Bertoni musiche originali Filippo Lilli disegno luci Danila Blasi dramaturg Valeria Vannucci costumi Giulia Cauti produzione PinDoc con il sostegno del MiC e di SIAE nell’ambito del programma “Per Chi Crea” e della Regione Siciliana con il supporto di ALDES, Anghiari Dance Hub, ATCL – Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, ORBITA | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, Teatri di Vetro / Triangolo Scaleno, HangartFest – festival di danza contemporanea in collaborazione con il Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza Scenario Pubblico/CZD
NON DOMANDARMI DI ME. MARTA MIA (di K. Ippaso, regia A. A. Caruso)
New York, 10 dicembre 1936: Marta Abba annuncia al pubblico del Plymouth Theatre la morte imprevista di Luigi Pirandello. Ciò avviene anche in Non domandarmi di me, Marta mia, dramma di Katia Ippaso, la quale recupera, vivificandolo, il carteggio tra drammaturgo e attrice, per la regia di Arturo Armone Caruso. Elena Arvigo, come Abba, informa all'inizio dello spettacolo il pubblico del medesimo decesso, e davvero agli spettatori della Sala Futura dello Stabile di Catania sembra che questo si sia appena consumato. Ma il dramma è soprattutto dentro, nel raccoglimento in cui la Abba di Arvigo si rifugia, tra le numerose lettere che invadono lo spazio del suo appartamento a Manhattan. La scena (di Francesco Ghisu) è una macchina di rumori e suoni (di Maria Fausta) posta al servizio della rievocazione. Cigolii, attriti, melodie e canzonette anni '30 danno avvio al dramma; una valigia, alcuni mobili di gusto déco sono l'essenziale caratterizzazione dello spazio. Tra questi oggetti, in un flebile chiaroscuro, la Abba di Arvigo affronta la sua profonda elaborazione del lutto, ma anche una profonda meditazione sul senso della scrittura e dell'interpretazione. Lo fa attraverso le parole del carteggio, salvate dalla delicata ri-scrittura di Katia Ippaso, il cui testo è opera di recupero poetico, non solo filologico; dalla magistrale interpretazione di Elena Arvigo la quale, nei panni di Abba, ha donato al pubblico non solo la protagonista, ma pure la sua intensa esperienza umana; dalla regia di Arturo Armone Caruso, che ha saputo concedere adeguati tempo e spazio alla presenza dell'interprete. È un bilancio sentimentale, nel senso più puro del termine. Arvigo si addentra in una vulnerabilità delicata e cangiante, sempre lontana da eccessi patetici. Non è soltanto Marta Abba, ma anche le donne che questa ha incarnato: da Nina, che per prima le ha guadagnato la positiva recensione di Praga sull'Illustrazione Italiana, alle numerose pirandelliane (tra le altre: la Madre, Donata Genzi, Ilse) Tutte prendono parte a questo finale colloquio col personaggio, in una rapsodia di lettere, parole, corpo ed esistenze. «La vita la si vive o la si scrive», scriveva il drammaturgo: qui, la si interpreta anche . (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Stabile di Catania, Sala Futura. Crediti: di Katia Ippaso, intorno al carteggio Luigi Pirandello – Marta Abba, regia di Arturo Armone Caruso con Elena Arvigo assistente alla regia Giulia Dietrich musiche originali MariaFausta scene Francesco Ghisu disegno luci Giuseppe Filipponio image designer Elio Castellana produzione Nidodiragno/CMC Foto di Manuela Giusto
#NAPOLI
SEROTONINA (regia Patrick Guinand)
L’uomo di Houellebecq zuppo di misoginia, virilità fallica, fastidio per la puzza degli “altri” (gay, ciechi, poveri, stranieri, senzatetto) e disprezzo per i rattoppi di sinistra messi al reale. Vino e antidepressivi, tra ricordi di scopate e un sentimento di debacle. In Serotonina è sul ciglio d’una fossa che ha la forma d’una stanza asettica, scelta per non lasciare impronte, eredità. Sta dunque a un istante dalla morte, a un passo dal suicidio. Due conseguenze: può dire solo il passato, nell’attimo estremo e dilatato del presente; parla troppo – non per rinviare la fine, come in Beckett, ma per andare vuoto d’ogni peso e sfogo all’aldilà, come in Bernhard. Abita una stanza bianca, poltrona, divano, finestre con tapparelle chiuse su un fondo che a un punto s’apre sul buio (è la notte scelta per non farsi vedere sfracellato), a destra lo scarico dell’immondizia in cui versare vetro, lattine e uova (sabota così la differenziata cara ai borghesi eco-responsabili), a sinistra la custodia che allude a una tastiera e serba un fucile, con cui fa coincidere memoria dell’ascolto di un disco e decisione di farla finita. Ha la chiarezza d’occhi (sotto cui però sta l’abisso), il volto glabro e i gesti di rancore (mai privi d’eleganza) di Andrea Renzi, attorno a cui gira Rebecca Furfaro, che fa da serva di scena, spettro, restanza e controcanto: porta oggetti, partecipa al racconto, commenta certe frasi scuotendo la testa, annuncia il lutto cambiando la sottoveste bianca dell’inizio con una identica, di colore nero. D’accordo, sapere d’un uomo è scoprire un mondo: vale sempre la pena. E Andrea Renzi se ne fa carico testimoniandolo per incarnazione. Ma la letteratura resta (troppo) letteratura. Due ore di parole frontali, corpo pressato in proscenio, disequilibrio tra verbo e azioni, nessuna emersione di un immaginario dalle parole. Che sono portate ma non trasformate sul palco in qualcos’altro. Ciò che vediamo insomma è quel che è, punto. Verrebbe da chiedere al regista Patrick Guinand: qui il teatro in che consiste? E al Nazionale che l’ha prodotto: sicuri di aver fatto la scelta giusta? (Alessandro Toppi)
Visto al Mercadante di Napoli. Crediti: adattato da Serotonina di Michel Houellebecq, adattamento e regia Patrick Guinand con Andrea Renzi e Rachele Furfaro, scene Claude Santerre, costumi Giuseppe Avallone, disegno luci Hervé Gary; aiuto regia Manuel Di Martino, produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale.
#MILANO
LADY MACBETH. GOD SAVE THE QUEEN (di Debora Benincasa)
Nello spazio di Z.I.A (Zona Indipendente Artistica), Debora Benincasa si mostra con parsimonia. Inizia il suo monologo, intitolato Lady Macbeth. God save the Queen, dentro una struttura lignea – che diventerà leggio, secretaire, letto, trono – da cui fa emergere ora una mano, ora un tacco, ora il volto, piagato da un’insopprimibile noia, e infine il corpo, modellato in un abito anni ’20, con paillettes da flapper e diadema Art Déco. Ci inchioda con lo sguardo, mentre oppone a tutto ciò che le si posa davanti un sarcasmo zoologico: chiama le serve «piccole ermelline scaltre»; vede negli occhi del marito «padelle da opossum bastonato»; sogna, per il proprio martirio, l’accoppiamento con una mantide religiosa. La scrittura di Benincasa declina variamente il disgusto di Lady Macbeth di fronte all’inerzia del mondo e ne arricchisce la foga e la scaltrezza, desunte da Shakespeare, con una brama da esteta dannunziana, in corsa verso il raggiungimento orgastico del potere. «Non amo che le rose che non colsi», scriveva Guido Gozzano, e così anche lei, una volta raggiunto l’apice del prestigio, prova insoddisfazione contemplando il suo reame: «La vista – ammette – è uguale a tutte le altre». Nel finale, se, da una parte, il racconto dei traumi infantili di Lady Macbeth sembra rispondere frettolosamente alla tendenza contemporanea di rileggere le grandi cattive come ex-buone tradite nell’amore e nell’innocenza (si veda alla voce Maleficent), dall’altra è molto affascinante, coerente e ben preparato il passaggio della regina dal bovarismo estenuato delle prime battute, che vorrebbe cogliere in fallo i propri servitori per provare il brivido di punirli, al suo desiderio di essere sfidata, combattuta e consumata da sudditi – e, in un sottile ribaltamento metateatrale, da spettatori – troppo compiacenti perfino per scongiurarne il suicidio. (Matteo Valentini)
Visto allo Z.I.A. di e con Debora Benincasa co- regia e ricerca movimenti Simone Ceccobelli scengorafia Adele Gamba costumi Simone Randazzo Suono e voci Martino Scaglia e Flavia ChiacchellaLighting designer Andrea Gagliotta produzione Anomalia Teatro