Recensione. Michele Sinisi dirige Tartufo di Molière con un allestimento contemporaneo e un colpo di regia nel finale. Visto al Teatro Fontana di Milano.

«Ognuno ha i suoi classici. O, forse, ciascuno ha un «suo» classico: un compagno di veglia, un segreto e inseparabile interlocutore. Non un maestro, ma un alleato. Sulle sue immagini, e magari sulle sue deformità, misuriamo quasi senza saperlo, quasi senza volerlo, la nostra personale lettura del mondo. Un classico al quale dedichiamo, frequentandolo, forse minore cura, minore studio che ad altri, tanto sono solidali e fraterni i rapporti che abbiamo stabilito con lui. Ebbene, questo classico personale, privato, famigliare, simile alla vecchia e affumicata specchiera dell’ingresso di casa che ci restituisce ingranditi i nostri piccoli pensieri, più vaste le nostre modeste emozioni, è nel mio caso Molière. E sono così abituato ad amare Molière, che, se ci penso, ho perfino cessato di meravigliarmi del suo talento».

Comincia così, con una dichiarazione d’amore, quello studio di Cesare Garboli che fu in grado di illuminare il Tartufo di Molière di una luce nuova, con un pensiero modernissimo e fecondo: era il 1973 e Garboli riconosceva nel Tartufo una precisa peculiarità all’interno del corpus delle commedie molieriane. Non solo Tartufo non è propriamente una commedia (lo è in apparenza, sottolinea lo studioso e traduttore), Garboli ci invita a domandarci chi sia veramente questo personaggio «senza ruolo e col deserto alle spalle» che si intrufola in una famiglia benestante per condizionarne la morale, «Tartufo è un personaggio servile. In tutta la commedia, egli non smentisce mai questo tratto essenziale della sua fisionomia. Tartufo è di estrazione contadina. Viene da campagne miserabili, dal fango e dalle strade dei mendicanti. Possiede il privilegio di ispirare pietà […]». Secondo Garboli Tartufo ha un obiettivo, quello di ribaltare lo storico assunto della commedia, spezzare la dicotomia «servo-padrone» e diventare egli stesso un padrone.
Non si può prescindere da questa lettura per approcciarsi al capolavoro di Molière, come non si può prescindere da quell’ultima scena del quinto atto, che si risolve grazie alla tirata posticcia dell’Ufficiale, il quale lodando le doti da “detective” del Re Sole arresta nella sorpresa di tutti proprio Tartufo. E a mettere in scena così la pièce si metterebbe in scena un finale poco coerente dal punto di vista drammaturgico e tutto genuflesso nei confronti di quel Luigi XIV al quale proprio Jean-Baptiste Poquelin era legato da una relazione di devozione coatta. D’altronde quel finale era l’ultimo tentativo dell’autore per convincere il Re e la Chiesa che il testo non era né un pamphlet contro la corte né contro la religione, ma un attacco, questo sì, ai finti devoti.

Che il finale di questo capolavoro vada letteralmente inventato è consapevolezza anche di Michele Sinisi. L’attore e regista lo ha allestito al Teatro Fontana, con la solita produzione di Elsinor, in una scena, del sodale Federico Biancalani, tutta contemporanea meno che per l’invenzione finale e un cast di livello composto da Stefano Braschi, Gianni D’Addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Donato Paternoster, Bianca Ponzio, Marco Ripoldi, lo stesso Sinisi, Adele Tirante. I personaggi sono abbigliati in modo semplice, gonne jeans, smanicati, vestiti carta da zucchero per Elmira, giacca e cravatta per Orgone (come un manager dei nostri tempi), camicie a fantasia; la scena è grigiastra e minimale, poche suppellettili, tutto è nelle schermaglie tra gli attori.

Va detto, lo spettacolo al di là di certe aggiunte riprese dal linguaggio di oggi è fedele al testo: tartufo entra solo al terzo atto, per quasi metà dello spettacolo tutti gli altri parlano di lui e la famiglia è spaccata in due, c’è chi lo adora e ne rispetta i precetti e chi lo vorrebbe fuori casa (i giovani naturalmente). Perché è la moralità l’arma del grigio personaggio interpretato in modo mirabile da Sinisi – che si scurisce i capelli e baffi convocando così una presenza viscida e sinistra -, essendo un emissario del Cielo tiene in pugno coloro che nel cielo ripongono tutte le loro speranze, soprattutto Orgone e la madre Pernella. Su questa spaccatura lo spettacolo calca la mano, la prima scena infatti vede i ragazzi che si sono lasciati un po’ andare: luci basse, bottiglie, sigarette accese, musica a palla e resti di una festa. Gli anziani della famiglia forse non hanno tutti i torti a invocare la rettitudine voluta da Tartufo, sembra voler sottolineare il regista. Se nella prima parte lo spettacolo probabilmente necessita ancora di un rodaggio dal punto di vista della recitazione e dei ritmi, con l’entrata di Tartufo la progressione è notevole: polo nera su pantaloni grigio scuro e un paio di sandali portati con i calzini, l’immagine è quella di una specie di prete di provincia senza i voti, versione contemporanea di quell’estrazione contadina di cui parla Garboli; movimenti piccoli e spalle indietro, è un apparente remissivo, ma noi sappiamo che non ha bisogno di architettare strategie, di inventare mondi che non esistono (come farebbe Jago). Orgone è suo discepolo, tanto da non credere al racconto del primo corteggiamento alla moglie Elmira. In questo caso Tartufo gioca la carta della confessione, ammette tutto, Sinisi si accende, diventa rosso come un flagellante e poi riappare nella scena successiva, come se non fosse accaduto nulla di importante, con una birra e un panino.

Nella celebre scena dello svelamento, con Orgone costretto ad assistere da sotto al tavolo a un altro tentativo di corteggiamento di Tartufo verso Elmira, finché non si sarà convinto delle vere intenzioni dell’amico, il fondale avanza, stringe i protagonisti, Tartufo si cala i pantaloni, è incontenibile, sarebbe capace di una violenza sessuale se Orgone non intervenisse. C’è ancora il tempo per la bellissima scena dell’ufficiale giudiziario, il signor Leale, in cui la fisicità di D’Addario cita la Commedia dell’Arte e la visione sprofonda nel grottesco.

E poi quel finale, che vale tutto il biglietto dal punto di vista dello stupore scenico: Sinisi lo rende ancora più extradiegetico, il posticcio del testo diventa un salto temporale all’indietro, di quattrocento anni.
Quando la scena si riapre c’è una figura avvolta in un vestito dorato (rappresentazione proprio del Re Sole), anche il viso è dipinto d’oro; il monologo dell’Ufficiale in cui è racchiusa tutta la melensa devozione per Luigi XIV diventa un canto barocco e mentre questa apparizione sovrumana avanza – con il viso e la voce splendida di Adele Tirante – la veste (disegnata da Daniela De Blasio) e il suo oro coprono tutto lo spazio, con un effetto che riempie gli occhi e la memoria. Buio.
Andrea Pocosgnich
Gennaio 2025, Teatro Fontana, Milano
TARTUFO
dall’omonima commedia di Molière
rielaborazione drammaturgica Michele Sinisi
regia Michele Sinisi
scenografia Federico Biancalani
disegno luci Michele Sinisi, Federico Biancalani
costumi Cloe Tommasin
costume del Re Sole Daniela De Blasio
con Stefano Braschi, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Donato Paternoster, Bianca Ponzio, Marco Ripoldi, Michele Sinisi, Adele Tirante
aiuto regia Nicolò Valandro
assistente alle scene Cecilia Chiapetto
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale