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HEDDA (di e con Clio C. Buren)

Questa recensione fa parte di Cordelia di marzo 24

Più volte nel rileggere Hedda Gabler avremmo cercato di condensare in una modalità “spiegabile” le sue scelte, per poi ritrovarci ad analizzare una psicologia che in fin dei conti non vuole essere compresa e non cerca legittimazione. Ed è per questo potentissima e radicalmente rivoluzionaria. La sua colpa è proprio questa, essere così. Reato reso evidente nella riscrittura di Clio Cipolletta Buren, monologo di circa una cinquantina di minuti in cui Hedda si rappresenta in tutta la sua superba consapevolezza e più volte lo ricorda, semmai il pubblico non lo avesse chiaro: «Questi, noi siamo». Una sedia, un tavolo, una pistola e una pennetta usb sul palco di Fortezza Est, e poi lei, in abito lungo, giacca, décolleté a spillo, tutto di colore nero. C’è una dolce inflessione nella dizione che per le sfumature più rancorose si appoggia al vernacolo campano, familiare per l’attrice, in particolare quando l’emozione appesantisce il ragionamento e diventa ingestibile. Hedda pensa ad alta voce spiegando del suo amore fallito con Borg, quello di ripiego con Telmo, dei soldi che non ci sono, della zia che incalza, dell’occasione professionale che non può non essere colta. A tutti i costi. E quanto le è costato? Basta guardare la sua postura, esemplificativa: il mento alzato, la schiena inarcata, lo sguardo orizzontale, impietoso con se stessa, con chi ascolta, con la vita. L’adattamento si concentra sui vulnus del testo originale e li attualizza anche se collocati in una presente senza tempo perché potrebbero accadere in tutti i tempi; unica indicazione, contemporanea, è che il famigerato manoscritto di Borg – che gli varrebbe la cattedra universitaria al posto del marito di lei, Telmo, e che lei perciò farà sparire – è racchiuso in una pennetta usb. La dimensione compatta e tascabile dell’oggetto contiene in uno spazio ridotto la complessità di documenti sensibili che possono comprometterci, racchiusi in un parallelepipedo in apparenza insignificante. L’io monologante, in alcuni momenti, sembra avvolgersi in un soliloquio intimo, oscuro, che potrebbe, per coloro che non conoscono il dramma ibseniano, risultare criptico alla comprensione e perdere quell’incisività espressa invece nell’interpretazione attoriale magnetica, a disarmare qualsiasi pregiudizio e che si fa osservare e ammirare in tutta la sua perfida compromissione.

Visto a Fortezza Est: di e con Clio C. Buren, Suono Mauro Autore, TLTA produktion, con il sostegno di Tedecà Bellarte Torino – Fertili Terreni Torino, Scugnizzo Liberato Napoli, Ex Asilo Filangieri Napoli

Cordelia, marzo 2024

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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