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HomeArticoliAlan Bennett e la condanna dell'arte

Alan Bennett e la condanna dell’arte

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Al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 2 giugno 2023 continuano le repliche per Il vizio dell’arte, testo di Alan Bennett sul poeta Auden e il compositore Britten, messo in scena da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Recensione

E se l’arte fosse un vizio? Siamo abituati a considerare il termine dallo sviluppo del proprio significato e, dunque, dalle conseguenze della sua apparizione nel linguaggio. Eppure, se si osserva meglio, l’indagine conoscitiva rivela una spaccatura di contrasto tra due sfumature antitetiche: vizio è ciò che consideriamo una disfunzione rispetto alla prassi, quindi qualcosa che altera la normalità e la stravolge, ma allo stesso tempo identifichiamo il vizio – come il fumo, l’alcool – come qualcosa che non sappiamo abbandonare, una cristallizzazione della disfunzione tale da diventare, all’opposto, inscalfibile. In questa spaccatura si situa l’indagine che il Teatro dell’Elfo compie nel testo di Alan Bennett, scritto nel 2009 e già rappresentato dalla compagnia nel 2014, con la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia e un cast di forte qualità e coesione. Il vizio dell’arte, questo il titolo, ci chiede dunque di scavare ancora a fondo, traendone una riflessione ulteriore dal titolo originale: The habit of art. Il termine scelto dal drammaturgo nativo di Leeds, habit, esplicita delle sfumature che sembrano offrirne una conferma: habit è abitudine, usanza, costume, quindi qualcosa che ci connota per una coazione a ripetere, come l’abito indossato, appunto. Il ricorso al vizio, in traduzione, sembra perciò avallare l’idea che l’arte sia una sorta di disfunzione immutabile, qualcosa che per l’artista è impossibile smettere o rinnegare. Se dunque non è l’abito a fare il monaco, estendendo il senso del termine, può capitare che sia l’abitudine.

Foto Laila Pozzo

Siamo in un edificio in cui è ricavata una sala prove, gli attori si sono dati appuntamento per una filata dello spettacolo su cui stanno lavorando; la scenografia alle spalle è quella dello spettacolo da farsi, ma allo stesso tempo dello spettacolo ulteriore che noi vedremo attorno. C’è dunque una specie di matrioska teatrale, una scena nella scena, un abito nell’abito: due grandi attori, attorniati da vari comprimari, si beccano prima di diventare uno l’osannato poeta Wystan Hugh Auden (lo stesso Bruni), l’altro l’immenso compositore Benjamin Britten (Elio De Capitani). Sullo sfondo di una Oxford del 1972, là dove Auden si era appena trasferito e dove Britten stava lavorando alla sua Morte a Venezia, si ravviva il ricordo del loro ultimo incontro, a suggello di un’amicizia risalente a 30 anni prima e che trovava, verso la fine della vita di entrambi, un ultimo capitolo da ricordare. E lo farà Humphrey Carpenter, giornalista e scrittore, autore qualche anno dopo delle biografie di entrambi che appare, come personaggio e narratore interno (Umberto Petranca), dentro l’opera di Bennett.

Il cuore della scena, in cui si svolgerà l’intero spettacolo, è la casa del poeta immersa in un disordine estremo (Auden morirà, solo, appena l’anno successivo): stoviglie accatastate in una cucina angolare, tavolo e sedie, due poltrone polverose, vestiti macchiati e puzzolenti, libri e fogli sparsi ovunque, aperti o chiusi che siano. Oltre allo scrittore, giunto per raccogliere informazioni sul proprio intento biografico, vi giungeranno un ragazzo della strada, una “marchetta” (Edoardo Barbone) e infine l’amico di un tempo Britten, in preda alla caduta delle certezze, bisognoso di ritrovare fiducia, da un sostegno antico, per la propria arte. A corrispondenza di un vizio in cui lo stesso Bennett dovette riconoscersi, fuori dal palco giunge anche l’autore (Michele Radice), indiavolato per i tagli e deciso a controllare ogni passaggio; il regista è però assente, tocca all’assistente May (Ida Marinelli) farne le veci, assieme all’attrezzista (Vincenzo Zampa) che ne fornisce gli strumenti, il collante, raccogliendo su di sé fino alla fine la responsabilità della messa in scena, della definizione senza cui l’arte sarebbe un residuo fluttuante privo di concretezza. E quale sia il motore di questa compiutezza lo dice, alla fine di tutto e mentre la luce si spegne su di lei come in un quadro di Hopper, proprio all’autore: “Recitare è avere paura”, dell’arte medesima, di non farcela, di non saper rappresentare altro che sé stessi. E non è un caso dunque che ritorni, nelle regie dell’Elfo, questa ricorrenza di un teatro in prova, come nel recente Moby Dick alla prova di Orson Welles o come Nel guscio di Ian McEwan, come se si sentisse la necessità di mettere a fuoco il momento della trasformazione, il terrore della potenza prima di diventare atto.

Foto Laila Pozzo

Il legame tra i due grandi artisti è, inevitabilmente, proprio il vizio. E non a caso Britten cerca, come ragione ultima della propria travagliata composizione dedicata al personaggio moralmente scandaloso di Thomas Mann, la vicinanza con il maggiore tra i viziati, l’unico che può comprendere come sia impossibile rinunciare a sé, distaccarsi da uno stile – nonostante nel dialogo con Carpenter, personaggio decisivo dentro e fuori l’opera, si batta fortemente sul contrario – che non può essere distinto dall’umanità dell’autore. Tutti gli altri, dirà il ragazzo giunto per prostituirsi animato dalle parole che Calibano rivolge a Prospero nella Tempesta shakespeariana, vorranno far parte di quella grandezza, del sublime, ma non saranno altro che comprimari senza didascalia, comparse prive, al contempo, del talento e di quel vizio che ne è condanna. Chi sarebbe disposto a non avere pace da sé stesso? Chi accetterà di dichiarare la vita e non la morte solo in un frammento, pochi versi o qualche nota? “La morte / si sconta / vivendo”, scrisse Ungaretti del proprio pianto invisibile, di una solitudine abissale, culla di un peccato, l’arte, senza redenzione.

Simone Nebbia

Teatro Elfo Puccini, Milano, Maggio 2023

IL VIZIO DELL’ARTE
di Alan Bennett
traduzione di Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Edoardo Barbone, Roberto Antonio Dibitonto, Umberto Petranca, Michele Radice, Vincenzo Zampa
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
arrangiamenti musicali Matteo de Mojana
eseguiti dal vivo da Roberto Antonio Dibitonto
costumi di Saverio Assumma
assistente alla regia Alessandro Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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