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Tre lavori, un’unica voce. “Per riconoscerci nel buio”

In un momento in cui si impongono fermi, pause e chiusure, l’Associazione Ariadne – Compagnia Teatro A, ci parla dei tre spettacoli pronti a incontrare il pubblico quando sarà concesso ai teatri di riaprire nuovamente. Intervista in media partnership alla regista Valeria Freiberg

Tre nuove produzioni, tre creazioni nate in un momento difficile e di isolamento che avrebbero dovuto debuttare a novembre ma che per il momento sono impossibilitate, visto le ultime direttive governative. Come è stato il lavoro di questi mesi e come state reagendo a questo ulteriore fermo?

È una domanda complessa. Senza drammatizzare eccessivamente, ammetto che Teatro A come compagnia indipendente è già abituata a vivere di stenti e a superare le difficoltà. Considerato quindi un contesto lavorativo in cui siamo costretti da sempre a non dare nulla per scontato e a combattere per ottenerlo, ciò che abbiamo ritenuto indispensabile fare in questi mesi è stato senza dubbio comprendere come reinventarci. Per me il teatro non è un edificio chiuso dove mettere il lucchetto nell’eventualità di una chiusura imposta, per me il teatro vive nel lavoro di una compagnia che quotidianamente progetta insieme. Tuttavia la situazione economica non è semplice in quanto noi, come altri artisti, campiamo della vendita dei nostri lavori che se non vanno in scena ci impediscono di guadagnare: Teatro A è attiva dal ‘69 e non può permettersi uno stallo, deve mantenere il proprio ritmo produttivo e di sicuro non ha intenzione di fermarsi. Durante i mesi precedenti di isolamento ci siamo concessi un momento di residenza creativa per riflettere su cosa rappresentasse per noi questo periodo, comprendere insieme cosa ci stesse succedendo e come sopravvivere con il teatro, le modalità attraverso le quali dobbiamo restare utili…perché di fatto è inutile aggrapparci e rimpiangere situazioni che non torneranno. Dovevamo debuttare a novembre e non è andata come pensavamo, allora ci dedicheremo ai progetti paralleli e quando incontreremo il pubblico, avremo sicuramente molto da dire.

Ne L’Uragano. Riflessione, rielaborazione del testo russo di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij, l’azione metaforica dell’uragano – tanto come fenomeno atmosferico che come conseguenza dell’avvenire della famiglia Kabànova – determina le azioni dei personaggi, i loro pensieri ed emozioni. Il testo, nel suo riferirsi all’adattamento strehleriano, in che modo dunque si inserisce nel contesto attuale?

Durante il primo lockdown ci siamo dedicati alla riflessione, alla lettura e anche all’aggiornamento; ho dunque approfondito la stagione teatrale del ‘47 e mi sono chiesta perché Strehler avesse scelto questo testo che possiede una finalità molto didattica. Ho cercato di capire la sua urgenza e la sua attualità rispetto ad oggi, e ho capito che ciò di cui parla è uno scontro tra ciò che se ne va per sempre e ciò che ha paura di nascere. Il XXI secolo sta nascendo adesso, con la pandemia, il nuovo sta arrivando ma noi siamo ancora aggrappati al passato, e questo genera incertezza diffusa perché credo che il primo passo tra ciò che nasce e ciò che siamo noi sia sempre distruttivo. Io lavoro con i ragazzi giovani e quindi per me è un fattore di ulteriore possibilità, di confronto continuo tra ciò che c’era prima e verrà dopo. Anche Strehler insegnava al suo gruppo una progettualità a lungo termine e credo sia molto attuale il metodo lungimirante che contraddistingueva il suo lavoro di compagnia.

Alice nel paese delle meraviglie è un’opera la cui costruzione narrativa ricorda quella di un ipertesto: un’opera aperta che ben si presta dunque a essere resa gioco interattivo. Nella vostra trasposizione, ALICE. Inizio. Digital, mi colpisce quell'”Inizio”, che si potrebbe intendere come atto fondativo e rifondativo di un teatro che deve ora innovare le sue modalità di comunicazione e fruizione con gli spettatori. Se così fosse, i ragazzi ai quali è destinato, saranno i primi spettatori di un nuovo teatro?

Credo che il teatro stia entrando, o debba entrare, in un’altra dimensione dell’esperienza, usufruendo di altri mezzi e supporti, sicuramente i ragazzi sia come collaboratori che spettatori sono i più pronti ad accogliere questo cambiamento. Nei mesi scorsi abbiamo deciso di non cedere alla follia collettiva dello streaming e abbiamo invece scelto di osservare e riflettere sul mezzo imparando quanto il digitale possa permettere di creare una visione e spazio altro. Il teatro ragazzi, come viene categorizzato, mi annoia profondamente e anche se lavoro coi ragazzi credo che i progetti da noi realizzati non debbano essere solo ludici ma provvisti di una propria maturità. I giovani sono tutt’altro che ingenui, sono diversi da come eravamo noi e meritano di non essere trattati da piccoli. Per questo il digitale deve permettere loro di fare uno sforzo ulteriore di fruizione e apprendimento per entrare in una diversa dimensione culturale. È un percorso che il teatro deve iniziare a studiare, per avvicinare il pubblico a due dimensioni differenti e autonome dello spettacolo dal vivo.

Un karaoke per il teatro, sembra essere invece L’Inizio tratto dal testo di Lifschitz, a riscoprire il calore della prossimità, dello stare insieme in un tempo che ci vuole divisi. Quasi un anacronismo rispetto ai giorni attuali, se non fosse che dobbiamo sempre ricordarci di quanto il teatro sia azione condivisa…

Adesso, in questo periodo terrificante, abbiamo ancora di più capito il significato della comunità, del nostro bisogno di condividere esperienze: una necessità molto umana e per questo molto teatrale. Amo gli anni Trenta e Sessanta del teatro perché ritengo siano stati due momenti storici dai quali siamo partiti e la cui eredità ci ha formato. Ho scelto un testo, il cui titolo originale è Mia sorella maggiore, che omaggia tutto quello che il secolo ci ha consegnato, come siamo arrivati fin qui e di cosa abbiamo bisogno. Artisti e attori devono rendersi utili, proprio in virtù degli insegnamenti strehleriani citati precedentemente: siamo qua insieme e solo insieme possiamo andare avanti, per trovare una voce condivisa che ci permetta di riconoscerci nel buio.

Ognuno dei tre spettacoli dialoga con un tempo passato e sceglie una precisa forma di adattamento che determina, ripensandolo, anche il contenuto. Puoi parlarci più approfonditamente di come è stato impostato il lavoro drammaturgico in relazione ai testi originali?

Normalmente quando lavoro con un testo e penso a come questo debba essere inserito all’interno di un percorso di repertorio per la stagione, mi concentro sull’idea di un filo unico. Alla base vi è il mio linguaggio teatrale che trova la sua diversificazione in forme autonome, ogni spettacolo poi possiede i suoi distinti livelli comunicativi per il pubblico e questi ultimi ai quali ho lavorato sono completamente diversi gli uni dagli altri. Far incontrare forma e contenuto è l’equilibrio che ogni regista sogna, in questi tre, a maggior ragione, vorrei che la loro distanza narrativa possa farli però incontrare sul piano della riflessione attuale, della loro contemporaneità, su come sono stati pensati e perché.

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