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Re Lear adrenalinico con Mauri-Sturno diretti da Baracco

Recensione di Re Lear con Glauco Mauri e Roberto Sturno, regia di Andrea Baracco. Visto al Teatro Eliseo di Roma dopo il debutto alla Pergola di Firenze.

Glauco Mauri in re Lear, Foto di Filippo Manzini

Una grande scritta, a caratteri cubitali, con un font monumentale, l’interno delle lettere è bianco e un contorno nero le fa svettare all’ultimo piano di una costruzione scenografica che occupa l’intera larghezza del palcoscenico del Teatro Eliseo; l’architettura in legno e metallo, che al piano terra ha una sorta di inner stage con tanto di pannelli semitrasparenti per aprire e chiudere lo spazio, è in un certo senso l’emblema del Re Lear diretto da Andrea Baracco per la compagnia Mauri-Sturno: solido, avvincente, spettacolare, una macchina teatrale affascinante.

Enzo Curcurù. Foto Filippo Manzini

La spazialità verticale, determinata da strutture a più piani sui quali progettare camminamenti e ballatoi è segno distintivo del teatro di Andrea Baracco (lo ricordiamo anche in una messinscena di Madame Bovary di qualche anno fa) e in questo caso ben si accorda al cuore della spazialità shakespeariana. Questo allestimento di Re Lear non è un teatro di pose, di innovative elucubrazioni intellettuali o di rampanti riscritture d’avanguardia; azione, parola, emozioni schizzano sul palco per due ore e mezza di spettacolo senza mollare per un attimo l’attenzione dello spettatore. Eppure parliamo di una delle tragedie più difficili, tra quelle di Shakespeare, da dirigere per un regista della nostra epoca: è un dramma che sfiora momenti di assurdo novecentesco (il finto suicidio di Gloucester su tutti gli esempi) e ha un andamento al quanto singolare per quello che riguarda l’intreccio degli eventi, diluiti per gran parte della pièce e poi improvvisamente affastellati nelle scene finali quando – come spesso accade nelle scritture del Bardo – una guerra bussa con insistenza alle porte dei palazzi reali.

Roberto Sturno e Glauco Mauri. Foto Filippo Manzini

Naturalmente è anche uno tra i drammi più filosofici di Shakespeare e percorso da simboliche antinomie: l’ottusità del vecchio Re gli impedisce di guardare oltre il superficiale velo delle eloquenti lusinghe amorose e di riconoscere quale delle tre figlie abbia sentimenti sinceri, così, per opposizione, Gloucester comincerà a capire solo quando perderà la vista. Nessuno dei due padri può appellarsi a una madre-compagna, come afferma Baracco, le madri sono «assenti, estromesse dal dramma». Poi ci sono le sotto trame legate al potere ambito da Edmund, la fuga di Edgar che deve fingersi matto e l’incontro con Lear che intanto si è piegato alla follia; e il fool che dovrebbe dire cose senza senso invece è il più affilato osservatore della realtà interiore ed esteriore del Re detronizzato. Come se non bastasse, nella seconda parte Shakespeare fa volare lettere vergate da complotti fulminei e imbastisce un triangolo amoroso tra le due figlie di Lear e il doppiogiochista Edmund, come se il male debba distruggersi con qualcuno o qualcosa che sia un proprio simile, in un’orgia di eros e veleno.

Foto Filippo Manzini

Baracco può usufruire di una traduzione, quella di Letizia Russo, che vive di una straordinaria immediatezza e veste il dramma con parole di oggi. Inoltre può affidarsi, per i due ruoli maschili centrali, Lear e Gloucester, all’esperienza e all’estro di Glauco Mauri (impegnato per la terza volta nel ruolo di Lear) e Roberto Sturno: il primo fa follie sul filo della follia e il secondo stupisce per la misura e le più piccole sfumature;  va detto, sugli attori giovani e meno giovani con cui si relazionano i due protagonisti, alla prima, alcuni peccano di overacting rischiando spesso di urlare, ma è pur vero che devono rincorrere proprio quell’atmosfera concitata e adrenalinica in cui si agitano fumose nebbie e ritmi sonori a bassa frequenza che con grandi tonfi sottolineano l’azione. Le tre sorelle di Linda Gennari, Aurora Peres ed Emilia Scarpati Fanetti non spiccano per ricchezza di sfumature o interpretazioni sorprendenti: più maturo e solido l’approccio di Gennari, in grado di rappresentare una Goneril cinica e altera; interessante, ma probabilmente ancora da rodare, quello ironico di Peres e troppo rigido e schematico il modello di Scarpati Fanetti per la giovane Cordelia. Emergono però i lavori di Enzo Curcurù per il personaggio di Kent e il suo alter-ego servile in maschera, il Tom/Edgar di Francesco Sferrazza Papa, inoltre, affascina il pubblico e strappa applausi Dario Cantarelli con il suo matto di corte; Baracco lo fa aggirare in scena o per la platea in nero con un alto cilindro rosso sulla testa, una sorta di cappellaio matto lugubre e con scarpe in tinta col cappello, lingua affilatissima e quel colore tipico nella voce che la renderebbe riconoscibile tra mille.

Roberto Sturno e Francesco Sferrazza Papa. Foto Filippo Manzini

Nella complessità il cast ben si accorda alla macchina teatrale e all’impianto generale che sembra puntare sul dinamismo spaziale attraverso l’utilizzo dei piani alti, le entrate dalla platea, l’ascensore con cui sale e scende il trono di Lear, le scale, l’uso di carrelli praticabili con cui spostare personaggi, le proiezioni infuocate di Luca Brinchi e Daniele Spanò sulla struttura portante. Sembra essere sensata dunque anche la scelta di costumi contemporanei (ad opera di Marta Crisolini Malatesta, creatrice anche delle scene), lunghe giacche scure, vestiti da sera per le donne, fasce per evidenziare i ruoli apicali di comando, la corona di Lear è di un metallo geometrico, razionale dal profilo duro, versione in miniatura di quella gigantesca che pende dal soffitto come un ammonimento pronto a cadere sull’inettitudine degli uomini; siamo insomma in una sorta di presente parallelo, in cui l’Inghilterra medievale ha lasciato il proprio segno di sangue e oscurità.

L’adattamento, curato da Andrea Baracco insieme a Glauco Mauri, si impreziosisce anche di una interpolazione tanto semplice quanto funzionale e di effetto: poco prima di tuffarsi dall’inesistente scogliera Gloucester/Sturno sublima l’assurdità di quel salto pronunciando il celebre monologo di Amleto. “Essere o non essere” fiorisce sulle labbra di un vecchio dagli occhi insanguinati ed è come se, per un attimo, una linea invisibile collegasse Edipo, Amleto e Lear, tutti e tre precipitati nell’irrazionalità della vita umana.

Andrea Pocosgnich

Roma, Teatro Eliseo, fino al 2 febbraio 2020

Re Lear

Glauco Mauri
Roberto Sturno
di William Shakespeare
traduzione Letizia Russo
riduzione e adattamento Andrea Baracco e Glauco Mauri
e con (in ordine alfabetico) Dario Cantarelli, Enzo Curcurù, Linda Gennari, Paolo Lorimer, Francesco Martucci, Laurence Mazzoni, Francesco Sferrazza Papa, Aurora Peres, Emilia Scarpati Fanetti, Aleph Viola
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
musiche Giacomo Vezzani, Riccardo Vanja
luci Umile Vainieri
video Luca Brinchi, Daniele Spanò
regia Andrea Baracco
produzione Compagnia Mauri Sturno, Fondazione Teatro della Toscana
è parte del progetto Il Teatro? #BellaStoria! – Stagione 4
foto di scena Filippo Manzini
durata 2 ore e 50 minuti, intervallo compreso

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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