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Verticale come la parola. Coltelli nelle galline di Andrée Ruth Shammah

Al Teatro Franco Parenti di Milano è in scena Coltelli nelle galline diretto da Andrée Ruth Shammah, a partire da un testo di David Harrower. Lo avevamo visto al Festival di Spoleto nel luglio scorso. Recensione

Foto di Maria Laura Antonelli /AGF

Il titolo evoca la brutalità di un’azione ordinaria nel mondo rurale, e al contempo la ritrae a posteriori, nell’attimo dell’esito, lasciando intravedere (con singolare straniamento) il movimento rapido e verticale che la ha guidata. 
Coltelli nelle galline, diretto da Andrée Ruth Shammah   a partire dal testo firmato, nel 1995, dal drammaturgo scozzese David Harrower – è andato in scena a Spoleto, durante la scorsa edizione del Festival dei 2Mondi. Shammah ha sempre dimostrato, nelle sue regie, un’attenzione speciale alla significazione degli ambienti e, a Spoleto, lo spazio prescelto è quello dell’Auditorium della Stella, dove il biancore materico degli stucchi e dei marmi, assieme alla verticalità dell’abside neoclassica, ospita lo sguardo come una scenografia raccolta, smagliante, attraversata dalle strutture lineari nere (una pedana di legno e un’impalcatura di ferro a sostenere le luci) che costituiscono il palco, attorno al quale sono deposte tante sedute, panche e cuscini. 

La pièce presenta degli avvicendamenti semplici – al centro è posto il rapporto di progressiva vicinanza tra la Giovane Donna (Eva Riccobono), moglie del fattore Pony William (Alberto Astorri), e il mugnaio-pensatore Gilbert Horn (Pietro Micci), emarginato dal tessuto sociale del villaggio –  ma il suo fondamento risiede in un tema misterioso e di difficile trasposizione scenica: la conquista del linguaggio. La Giovane Donna assume consapevolezza della propria condizione e della propria identità attraverso la relazione con il mugnaio: questo processo si sviluppa in parallelo alla di lei acquisizione linguistica e scrittoria, segnando l’evoluzione da uno stato sospeso – di creatura senza nome, dalla dizione dissonante e arretrata, imprigionata nella circolarità e nella fatica della vita domestica – a una nuova condizione, più dolorosa e più astratta, ma consapevole e agita.
Già in Boccaccio le protagoniste del Decameron caratterizzate da un tratto di marcata passività erano identificate dall’assenza di nome proprio: questo stilema antico, nella sua semplicità, si confà alla qualità sfingea della messa in scena e alla linearità della trasformazione raccontata, dove la fatica nell’articolazione della parola è immagine chiara della fatica nell’articolazione del processo di crescita della protagonista.

Foto di Salvatore Pastore

L’impianto scenotecnico è estremamente composito: lo spazio (curato da Margherita Palli) e le luci (di Camilla Piccioni) dialogano con un apparato video (di Luca Scarzella), che organizza la scansione in ventiquattro quadri, e con la manipolazione a vista di alcuni modellini che riproducono i luoghi e i personaggi dell’azione scenica, suggerendo una duplicità plastica e dominabile dei fenomeni e, allo stesso tempo, la loro natura simbolica. L’effetto finale richiama le atmosfere del regionalismo delle opere a olio di Grant Wood, un timbro rurale e post-impressionistico, addolcito però dalla combinazione con i costumi, tenui nei colori e debolmente connotati, che suggeriscono invece l’evanescenza dell’orizzonte temporale.
Le interpretazioni di Astorri e Micci appaiono solide, precise nel bilanciamento dei toni medi e negli innalzamenti di intensità: pur nella declinazione di due tipi umani divergenti («l’uomo dell’aratro» e il «filosofo») e nella diversa tonalità interpretativa (stentorea quella di Astorri, vibrante quella di Micci), creano le coordinate di un contesto umano e sociale coerente e suggestivo. La presenza di Eva Riccobono è persuasiva nell’emanazione di un’energia fragile e aliena e la sua precisione esecutiva, alla quale l’inesperienza di scena aggiunge una nota di spaesamento, si vota con devozione alla resa del personaggio e del suo linguaggio.

Foto Maria Laura Antonelli /AGF

Lo studio della tensione trasformativa della parola sembra dunque essere il centro concettuale del lavoro: a esso si allinea l’operazione interessante di una nuova traduzione a quattro mani del testo di Harrower, condotta dalla regista insieme a Monica Capuani (che già in Ci vediamo all’alba di Zinnie Harries si era misurata con le insidie di una scrittura che custodisce i disallineamenti del pensiero, facendosene specchio).
Si tratta di un procedimento “biunivoco”, in quanto la genesi del pensiero e quella del linguaggio non sono, a livello neuroscientifico, isolabili. Risulta quindi efficace che un testo che se ne occupa si diriga (verticalmente, come le lame evocate nel titolo) al cuore di un immaginario impronunciabile che affiora per strappi, quasi in agonismo allo stesso sforzo di significazione verbale che attiva. Il parlato della Giovane Donna, costruito su una sintassi scarnificata ma densa, ha dunque la virtù di far emergere l’incedere progressivo della conquista e la forza vitale che la guida, anche se talvolta sconta (in termini linguistici e di restituzione attoriale) qualche ripetitività.

Nel complesso, lo spettacolo, aggraziato a livello visivo e protetto da una regia ben organizzata, custodisce un’ambizione molto alta – che a volte sembra sopravanzare, in profondità, il pensiero creativo che la elabora – e rivela alcune intuizioni e alcune oscurità che, seppure non del tutto a fuoco, ne impreziosiscono l’ordito, congedando lo spettatore in un’aura di incomprensibile sortilegio.

Ilaria Rossini

Auditorium della Stella –  Festival di Spoleto, luglio 2019

 

COLTELLI NELLE GALLINE
di David Harrower
traduzione Monica Capuani e Andrée Ruth Shammah
regia Andrée Ruth Shammah
con Alberto Astorri, Pietro Micci, Eva Riccobono
scene Margherita Palli con la collaborazione di Marco Cristini
luci Camilla Piccioni
costumi Sasha Nikolaeva
musiche Michele Tadini
video Luca Scarzella
collaborazione artistica Isa Traversi
assistenti alla regia Beatrice Cazzaro, Lorenzo Ponte
assistente scenografo Katarina Stancic
assistente video Anna Frigo
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
in collaborazione con gli studenti del Triennio in Scenografia di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti Chiara Carrettoni, Chiara Sgrignuoli, Martino Grande, Francesca Pesce e Kelly Linciano
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
in collaborazione con Spoleto 62 Festival dei 2Mondi

 

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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