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I bambini, a teatro, fanno paura

Una riflessione sul teatro ragazzi a partire dalle finali di In-Box Verde, la sezione del concorso dedicata alla scena emergente per le nuove generazioni. 

Cappuccetto Rosso – Zaches Teatro. Foto Luna La Chimia

Spesso si alzano in piedi, si muovono con trepidazione, a volte si agitano in improvvisi scatti, parlano tra di loro, indicano ciò che vedono, sospirano, camminano tra le poltrone solo perché devono commentare quel passaggio al loro amico del cuore, che per qualche motivo si è seduto lontano. Può accadere che urlino per lo spavento o che scoppino in fragorose risate. Ognuno di loro reagisce in modo unico per poi lasciarsi trascinare dal tumulto generale. Seduti in platea non subiscono vincoli sociali, non devono rapportarsi a schemi o tabù.
I bambini, a teatro, fanno paura.

Nel mondo del teatro ragazzi, scena e platea sono regolate da una tensione pulsante, che genera una continua instabilità; l’oggetto teatrale è continuamente messo in pericolo, deve a tutti i costi misurare il proprio equilibrio estetico con la possibilità di precipitare, a ogni occasione, nel fallimento. In-Box dal Vivo 2019, la finale dedicata al teatro per le nuove generazioni, ha visto centinaia di ragazzini attraversare i tre luoghi deputati all’arte teatrale nella città di Siena, il Teatro dei Rozzi, il piccolo Teatro del Costone e il magniloquente Teatro dei Rinnovati. Nonostante la fase finale del concorso ideato da Straligut Teatro non possa rappresentare una fotografia completa di tutto il panorama teatrale indipendente (accade anche alla sezione per adulti), i sei spettacoli in finale, più la replica fuori concorso dedicata al nuovo lavoro di Kuziba Teatro, hanno contribuito a ricordare quanto la creazione scenica per ragazzi possa essere vitale, varia e animata da punte di eccellenza davvero straordinarie.

La scommessa d’altronde è chiara: gli artisti che si dedicano all’immaginario dei più piccoli devono riuscire a stupire, a suggerire chiavi di lettura del mondo, a divertire trasformando ogni volta quella tensione pericolosissima, di cui la platea si alimenta, in un potere attrattivo per il palcoscenico. Se i bambini possono far paura, il teatro deve riuscire a nutrirsi di quella paura, addomesticandola.

Cappuccetto Rosso – Zaches Teatro. Foto Guido Mencari

Della necessità di strutturare gli spettacoli fuori dalla zona di comfort a cui i ragazzi sono abituati ne ha recentemente parlato anche il regista Jetse Batelaan, Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2019, affermando, rispetto alle proprie creazioni: «Lo spettatore entra e non ha idea di che cosa possa accadere, forse potrebbe trovarsi coinvolto in prima persona, quindi per qualcuno può risultare molto spaventoso. Per me l’atto più importante è quello di consegnare ai nostri bambini questo tipo di esperienza e dimostrare loro che possono sopravvivervi. Non dovremmo aver bisogno di proteggerli, non dovremmo far sì che temano ciò che non conoscono, perché insieme possiamo sopravvivere, scoprendo nuove regole e nuovi modi per avere a che fare uno con l’altro».

Compagnia sempre in grado di curare ad altissimi livelli il comparto visivo quanto quello gestuale (scene, luci e costume sono di Francesco Givone e l’interpretazione puntuale nella mimica di Amalia Ruocco, Gianluca Gabriele, Daria Menichetti), Zaches Teatro, per mezzo della drammaturgia e regia di Luana Gramegna, si muove tra le forme originarie della favola – senza temere la complessità data dalla relazione erotica e perturbante tra il lupo e la bambina, dal fazzoletto macchiato di rosso sangue che ricorda il rito di passaggio del corpo femminile verso l’età adulta – e la cornice spaventevole ma anche salvifica del sogno. Nel Cappuccetto Rosso di Zaches l’ombra del lupo si staglia sul fondale diventando sempre più grande, fino ad abbassarsi con i denti affilati sulla povera nonna: nel buio il ringhio spaventoso è orrore puro e viene seguito dalle urla dei bambini, all’unisono. Qualcuno, poi, dovrà asciugarsi le lacrime.

Nel Castello di Barbablù – Kuziba. Foto Tea Primiterra

Il viaggio di Cappuccetto è un viaggio di consapevolezza e maturazione, come d’altronde accade nel Castello di Barbablù dei pugliesi Kuziba, dove la relazione uomo-donna è attraversata dalla paura suprema, quella della morte. I simboli si affastellano sin dalle complesse e affascinanti proiezioni di Beatrice Mazzone: la porta che non deve essere aperta è anche la porta che dischiude un percorso di conoscenza; maturazione che avviene violando la regola imposta, a rischio della vita. Come per Zaches, la complessità drammaturgica va di pari passo con quella scenografica (a cura di Bruno Soriato): grandi strutture, piccoli letti a castello sui quali dormono corpi adulti rannicchiati; la relazione di ossessione e potere tra l’uomo e la donna è un filo sul quale scorrono le chiavi del destino. Crescere significa anche sopravvivere all’uomo nero.

Per Filippo Ughi uno degli obiettivi del lavoro della compagnia Piccoli Idilli, che con Kanu ha vinto questa edizione di In-Box Verde, è quello di far incontrare i ragazzi con altre culture: «La maggior parte di loro non ha mai visto un attore di colore sul palco», mi spiega. Allora, nel momento in cui l’uomo nero fa paura come mai era accaduto nel nostro paese negli ultimi decenni, Ughi trasforma il teatro in una grande festa. Kanu è un rito allargato in cui non c’è nessun dispositivo teatrale da smontare, proprio perché i codici con cui piccoli e grandi spettatori hanno a che fare sono altri rispetto a quelli della pratica occidentale. In questa grande festa di cori e musiche la parola si lega all’azione, l’attore è «corpo sociale», spiega ancora il regista.

Kanu – Piccoli Idilli. Foto www.piccoliidilli.it

Bintou Ouattara è portatrice di una grammatica del racconto fatta di un rigore leggero e sconosciuto. Il suo corpo si muove con precisione accogliendo la parola e la ritmica con cui questa viene scandita. Attraverso un pulizia del gesto sempre evocativa restituisce una parabola lontana nel tempo e nello spazio che è anch’essa viaggio nell’amore e nel dolore, senza sconti.

Un’altra delle questioni più complicate e dibattute relativamente al teatro per le nuove generazioni è quella riguardante le fasce di età: chi da un certo punto in poi le abolirebbe – perché l’eccellenza del teatro ragazzi dovrebbe poter parlare a tutti –, chi la trova invece un strumento informativo importante per genitori e programmatori. Di sicuro la fascia di età più problematica è quella che raccoglie i ragazzi delle scuole medie e superiori. Se vanno a teatro ci vanno con gli insegnanti, attraverso delle modalità di “deportazione” che spesso risultano essere più nocive che attrattive, seguono i programmi scolastici e troppe volte proprio i teatri finiscono per essere il luogo in cui i ragazzi confermano a sé stessi quanto il Pirandello o il Goldoni di turno sia noioso nella messinscena impolverata del regista con poche idee.

InQuanto teatro, con il suo Storto (vincitore dell’ultimo Premio Scenario Infanzia), ha invece tentato di parlare proprio a quella fascia di età con un prodotto ad hoc. Un teatro per teenager, insomma. Nel lavoro diretto da Giacomo Bogani c’è una storia, scritta da Andrea Falcone e Matilde Piran, che per certi versi ricorda The End of the F***ing World (il teen drama che lo scorso anno aveva ha fatto furore su Netflix): due ragazzi non omologati scappano di casa sognando la libertà, anche in questo caso le proiezioni determinano l’appeal visivo dell’opera e si strutturano nel segno acido e colorato del fumetto. Se il lavoro degli interpreti (Elisa Vitiello e Davide Arena) rischia di poggiarsi più sull’imitazione dei tratti adolescenziali che su un piano di sincerità, è interessante la scansione drammaturgica da road-movie e le possibilità che questo progetto potrebbe aprire; in cantiere c’è anche un graphic novel da abbinare allo spettacolo.

Nonostante la varietà linguistica dei lavori visti a Siena, è impossibile non soffermarsi su un dato comune: per gli artisti selezionati il piano visivo è un mezzo di attrazione evidente, tutti – tranne lo spettacolo che ha collezionato più repliche nel concorso-vetrina, Kanu – hanno organizzato lo spazio scenico attorno a schermi o velatini su cui proiettare. Dalle immagini astratte e oniriche di Kuziba, alle minacciose silhouettes di Zaches Teatro, fino alle parole con cui A naso in aria di Schedìa Teatro ha tentato di dare concretezza alla prosa di Calvino; dalle piccole ombre artigianali de Il Mulo (Associazione 4gatti) con cui veniva accompagnata una storia di amicizia e guerra, ai disegni con cui si muoveva la narrazione di Storia di uno Schiaccianoci del Teatro nel baule, fino, appunto, allo stile fumettistico di Storto.

Tanto nello stupore barocco quanto di fronte alla semplicità di una donna che si fa carico di una tradizione orale antica, i giovani spettatori hanno dimostrato di non temere la complessità e varietà con cui il teatro può farsi specchio deformato di timori, avventure e sentimenti. Sedersi in platea è un viaggio misterioso, tra stupore e conoscenza, chissà che non aiuti anche ad avere meno paura, nel presente e nel futuro.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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