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Deflorian/Tagliarini. Gli altri siamo noi, e siamo Quasi niente

In prima nazionale al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival 2018 Quasi niente, il nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni. 

ph Claudia Pajewski

In Quasi niente prevale una qualità celeste. Il pubblico in sala viene accolto dal motivo leggero de Il surf della luna di Giovanni Fusco, autore della colonna sonora del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, al quale lo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è liberamente ispirato. Il teatro è immerso in un’atmosfera jazzy, un po’ ipnotica, circolare. La scena è aperta, divisa a metà da un telo velato verde-azzurro polvere dietro al quale un faro da set cinematografico punta una luce spietata contro il fondale di cemento del Teatro Argentina di Roma e una porta di servizio che dà accesso al palcoscenico a tutti gli attori.

Due uomini – Benno Steinegger e Antonio Tagliarini – sono già in scena, in piedi, sagomati dietro il telo leggero. Colori tenui e polverosi, una scena ampia, senza quinte, vuota: qui sembra esserci spazio per il pensiero. Le luci e lo spazio curato da Gianni Staropoli hanno sia qualità materiale sia la consistenza di veli luminosi che accompagnano lo sguardo in questo ambiente ampio. Due pezzi d’arredamento di legno – un armadio senza ante e una cassettiera – qualche sedia, una poltrona rossa (e rotta), una piccola cassa audio poggiata a terra, in proscenio: ecco tutto.
L’ingresso in scena delle donne – Daria Deflorian, Francesca Cuttica e Monica Piseddu – porta una qualità più calda, un femminile pragmatico e temperato, ma la presenza carnale dei corpi si conclama veramente con l’emergere incantevole della presenza e della voce di Monica Piseddu che cammina fino al proscenio e, lì, come un fiore improvvisamente si dischiude, impartendo un vero inizio al tempo dello spettacolo.

ph Claudia Pajewski

Quasi niente è un’opera teatrale che punta alla profondità di un agire immateriale ma non incorporeo, è uno spettacolo sul pensiero, sul mentale, ma non sulla mente in quanto tale. La sua apparente essenzialità visiva dialoga con un testo dai toni quotidiani, nello stile già sperimentato da Deflorian/Tagliarini, che estroflette quasi interamente le intimità di chi abita la scena. Qui la confessione è l’anima della creazione di tempo, spazio e memoria. Nei discorsi portati dagli attori in scena sono diluiti e incastonati riferimenti altissimi – provenienti da scritti di Byung-Chul Han, Alice Munro, J.M. Coetzee e altri – che in maniera sotterranea e mai ostentata portano dinamica e vitalità a una tensione interiore al discorso animato dal testo che, in loro assenza, probabilmente si risolverebbe in circuiti chiusi di freddo ragionamento. In questo modo, la mente razionale resta sempre un passo indietro rispetto al pensiero, e a questo lascia spazio aprendo un margine attivo e disponibile che rilancia le scene, rigenerando il racconto, stimolando senza forzature le alternanze tra le diverse voci, facendo ogni volta un passo in più verso le profondità di ciascuno.

Come numi tutelari, allora, tutti i rimandi esterni interagiscono con un piano elevatissimo della narrazione facendo emergere come critica non tanto l’inquietudine che i protagonisti sopportano nelle proprie vite, ma la profonda benevolenza che generano, tra loro e verso chi guarda; è nel piano interamente individuale del dramma di ciascuno che si svela il senso dell’Altro, quel “tu” senza il quale la caduta si trasformerebbe in precipizio.
In scena si affonda ognuno nel proprio misterioso dramma, e l’aria intorno si fa via via più leggera e rarefatta, finché addirittura i piedi di tutti gli attori sono richiamati al cielo, non più schiavi della gravità. I corpi si invertono, si ribaltano – letteralmente – in verticale sopra la testa o in candela; spariscono dalla prospettiva di visione del pubblico i volti, con i propri sguardi, le proprie parole. Non solo la mente, ma anche il pensiero, si fanno da parte per lasciare posto al corpo. Forse è uno svuotamento, che lascia dietro di sé delle sculture.

ph Claudia Pajewski

Quasi niente è uno spettacolo che, senza dubbio, mette le mani nel dolore, in molte sue forme, singolari e plurali, ma non si occupa del male, non scava in quella direzione. Cinque esseri umani – uomini e donne senza un nome proprio – si aprono davanti ai nostri occhi, prendono la parola gli uni davanti agli altri: la trentenne, la quarantenne, la quasi sessantenne, il quarantenne… La trentenne (Francesca Cuttica) porta la canzone come tratto distintivo e, forse, come segno di giovinezza. La sua bella voce articola canti che accordano la scena, che dilatano leggermente il tempo. Le sue canzoni, così come i suoni, sono firmate dagli Wow, mentre il primo brano è del cantautore Franco Fanigliulo.

La confessione di queste donne e di questi uomini sembra voler verificare o testimoniare il fatto di essere ancora vivi, dopotutto. Giuliana, il personaggio di Monica Vitti ne Il deserto rosso, è una qualità propria a ciascuno di loro, una vernice malinconica che la dimensione teatrale fa brillare, sia nel senso di “luccicare” sia nel senso di “esplodere”. In Quasi niente c’è la caduta, la chimera inafferrabile del silenzio dei pensieri («Mi depenso», dice Daria Deflorian), la depressione («Non è che bisogna sempre vivere»), l’ostinazione del sé che osserva e tenta di combattere le proprie tendenze ossessive («Comunque non sto male»), irridendosi un po’ («Quanto sarebbe più facile se questo fosse il teatro con una trama?»); ma soprattutto in questo spettacolo si allude alla necessità inesauribile dello sguardo dell’altro.
Il pubblico è chiamato a stare. La particolarità di questa mutua osservazione, e la ragione del turbamento che può perdurare nei postumi dello spettacolo è che questo sguardo non è sufficiente per riconoscere un noi in cui salvarsi, anzi. Viene in mente Susan Sontag che in Davanti al dolore degli altri illustra come stare dentro o fuori da un’immagine, così come dai confini della propria pelle, non sarà mai la stessa cosa. Quasi niente sembra confrontarsi con questa impossibilità, tentando di attraversarla avendo come arma quell’idea dolce per cui le nostre vite, per quanto sdrucite o dolenti, sono avvolte dentro involucri trasparenti, crisalidi magari un po’ logore, ma presenti. E attraverso queste noi tutti ci osserviamo, ci sfioriamo, ci abbracciamo, ci assistiamo gli uni con gli altri, anche inconsapevolmente, esistiamo.

ph Claudia Pajewski

Se le tre donne e i due uomini dello spettacolo, cristallini ognuno nella propria storia e nella propria postura, sono in grado di farci sorridere e piangere contemporaneamente, è perché il loro racconto si infrange dentro l’impossibilità di un vero e proprio culto del dolore. Allora l’altro è condizione costante del nostro esserci, anche quando la solitudine sembra erodere le profondità più interne, anche quando sembra che non resti che farsi specchio di qualcosa, pur di tentare di essere, di stare meglio. La linea di demarcazione tra vita e teatro è un tratteggio sottile e spesso decorato di punti interrogativi che minano la possibilità di un chiaro distinguo: in platea siamo completamente avvolti dal teatro, dalla vita.

I protagonisti del film di Antonioni – Giuliana, Corrado e Ugo – li vediamo in trasparenza, dietro e davanti a quel “velatino” azzurro che divide la scena con delicatezza fino al cambio luci finale in cui, solidificandosi in un muro azzurro polvere, diventa un diaframma che chiude tutto il resto del mondo fuori dalla porta. Ritorna alla mente, allora, un caldo pomeriggio della scorsa estate, a Santarcangelo, e il finale di Scavi, con Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Francesco Alberici (in Quasi niente impegnato come aiuto regia e collaboratore alla drammaturgia) affacciati a guardare fuori dalla finestra. Dentro, lo spazio disabitato della scuola elementare. Noi spettatori eravamo seduti alla rinfusa, su sedie piccole la cui disposizione permetteva un continuo incrocio di sguardi, un annotare involontario e continuo di particolari: l’occhio velato da una lacrima, la mano che si contrae, la gamba che non trova pace. Quella circolarità di sguardi aveva un ruolo e una sua forza ben chiara, allacciando gli spettatori a un assistere comune facilitato dall’assenza dei mezzi tecnici del teatro, in un mutuo soccorso fatto di semplice presenza: eravamo insieme e quell’affondare non ci riguardava veramente perché il racconto, ricevuto così da vicino, imponeva paradossalmente una distanza nell’ascolto, un esercizio di pudore.

ph Claudia Pajewski

E mentre ci chiedevamo chissà dove stesse andando ad appoggiarsi lo sguardo oltre la finestra, in quel momento, un momento prima di sciogliere l’applauso ci siamo sentiti ossigenati dal quel loro guardare lontano. Il fatto antecedente a questo sporgersi oltre era stata la consegna di un pensiero denso di una nostalgica malinconia interrogativa, declinato al singolare in ognuno degli artisti coinvolti. Tre storie attraversate dall’universo di Michelangelo Antonioni. Al Teatro Argentina quello sguardo oltre la finestra lo ritroviamo, nuovamente, dentro il teatro, dentro le parole, dentro i corpi di questi splendidi attori in scena: ha il senso del coraggio e della forza di chi si confessa, ma non ci offre nessun appiglio e ci invita a consegnarci a noi stessi.

Il mondo di Michelangelo Antonioni, che in Scavi ricadeva nella dimensione collettiva della condivisione a luce naturale di tre racconti intrecciati, qui si apre su un universo individuale e canonicamente teatrale, dove l’altro nella sua presenza non è un altrove, infernale o salvifico che sia, ma un testimone accogliente attraverso cui, in scena, è possibile concedersi ognuno al proprio abisso. L’altro contempla, in scena, e gli altri siamo noi, che assistiamo. Lo scudo del pudore cede, siamo attraversati quasi da un po’ di paura. Siamo dentro oppure siamo fuori? Nulla si sa più eppure ogni cosa è presente. Ecco, Quasi niente.

Gaia Clotilde Chernetich

 Teatro Argentina, Roma, 9-14 ottobre 2018

QUASI NIENTE
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente inspirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
collaborazione alla drammaturgia e aiuto regia Francesco Alberici
con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu
Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
consulenza artistica Attilio Scarpellini
luce e spazio Gianni Staropoli
suono Leonardo Cabiddu e Francesca Cuttica (Wow)
costumi Metella Raboni
orari spettacolo
ore 21.00
mercoledì ore 19.00
domenica ore 17.00
durata 90′
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Metastasio di Prato
Emilia Romagna Teatro Fondazione, A.D.
in coproduzione con Théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival
Festival d’Automne à Paris, Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC
Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale – Mulhouse
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
FIT Festival – Lugano

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Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich ha ottenuto un dottorato di ricerca europeo presso l’Università di Parma e presso l’Université Côte d’Azur con una tesi sul funzionamento della memoria nella danza contemporanea realizzata grazie alla collaborazione con la Pina Bausch Foundation. Si è laureata in Semiotica delle Arti al corso di laurea in Comunicazione Interculturale e Multimediale dell'Università degli Studi di Pavia prima di proseguire gli studi in Francia. A Parigi ha studiato Teorie e Pratiche del Linguaggio e delle Arti presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e Studi Teatrali presso l'Université Paris3 - La Sorbonne Nouvelle e l'Ecole Normale Supérieure. I suoi studi vertono sulle metodologie della ricerca storica nelle arti, sull’epistemologia e sull'estetica della danza e sulla trasmissione e sul funzionamento della memoria. Oltre a dedicarsi allo studio, lavora come dramaturg di danza e collabora a progetti di formazione e divulgazione delle arti sceniche e della performance con fondazioni, teatri e festival nazionali e internazionali. Dal 2015 fa parte della Springback Academy del network europeo Aerowaves Europe, mentre ha iniziato a collaborare con Teatro e Critica nel 2013.

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