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Punta Corsara e la ragione in una stanza

Al Napoli Teatro Festival Italia, Punta Corsara presenta il debutto del suo ultimo spettacolo, Il cielo in una stanza. Recensione e intervista a Emanuele Valenti, direttore artistico della compagnia.

 

Foto di Giusva Cennamo - Agenzia Cubo
Foto di Giusva Cennamo – Agenzia Cubo

C’è una voce, una forza che si muove in una direzione razionale; ha degli affetti cui tiene, compie azioni concrete, è condivisa. Poi c’è la sua controparte, solitaria, irrazionale eppure trascinante, cita Marx ma lo pastrocchia con la filosofia New Age. Uguali e opposte, il risultato dello scontro tra queste due forze è nullo, vince la stasi, sospesa, immobile, incapace ciascuno di agire per il benessere della propria collettività, di fatto continuando ad alimentarne il disfacimento, allargando il buco, ‘o Tafagno, tanto da assumere un’entità paradossale e infinita quasi fosse una composizione à la Escher. È attorno a questo vuoto concreto ed esistenziale che Punta Corsara concentra la sua ultima opera, presentata all’interno del Napoli Teatro Festival Italia e sul palco del Teatro Bellini che, in sinergia con la compagnia, il festival e la società di produzione romana 369 gradi, lo ha coprodotto, a testimonianza del rinnovamento dell’edificio liberty che da cinque anni rappresenta uno dei luoghi napoletani teatralmente più vivi. Il testo, scritto da Emanuele Valenti e Armando Pirozzi (drammaturgo esterno a Punta Corsara), segna un rinnovamento nel percorso della compagnia di Scampia, che quasi dieci anni fa trovava la sua compiuta vocazione teatrale prima all’interno di Arrevuoto e nel progetto Punta Corsara – fortemente voluto da Marco Martinelli che insieme a Debora Pietrobono coordinò i tre anni di formazione – e poi nella costituzione della compagnia diretta dal 2011 dallo stesso Valenti e Marina Dammacco.

Foto di Giusva Cennamo - Agenzia Cubo
Foto di Giusva Cennamo – Agenzia Cubo

Al tavolo di un bar incontriamo Valenti, regista e anche interprete assieme a Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Gianni Vastarella; subito mette in luce quanto Il cielo in una stanza possa essere considerato un ulteriore momento di trasformazione del gruppo, tanto drammaturgico quanto scenico. «Dopo Amleto, il successivo spettacolo che abbiamo creato è stato Io mia moglie e il miracolo, scritto da uno dei nostri attori, Gianni (Vastarella ndr); non si trattava di una farsa, già in quel caso andavamo in una direzione diversa. Volevo chiudere il ciclo prettamente farsesco (avviato con Il signore di Pourceaugnac e poi ancora con Petito Blok  e il già citato Hamlet Travestie) che ha una comicità più sguaiata, più estrema, più diretta e semplice. Per quest’ultima produzione il riferimento alla tradizione (come sempre mai mera citazione) pesca da Moscato, e da Eduardo, tanto nella struttura del testo quanto nell’umanità dei personaggi: «non sono maschere ma personaggi da commedia, eduardiana appunto, suddivisa in tre atti all’interno dei quali abbiamo innestato vari flashback che smontano in qualche modo quella classicità».  Del gioco scenico a cui ci hanno abituato negli anni rimangono tracce di indubbia efficacia, in cui l’azione – come la scena – ruota su se stessa, ma così facendo si amplifica e equilibra il respiro di serietà acquisita. Ma si ravvisa anche più di un rimando alla tragedia greca nella quale i personaggi diventano coralità del sentire collettivo che per questo agiscono come unica (o al più come doppia) voce. Ambientato negli anni Novanta, il testo affonda le radici nei Cinquanta e nell’ombra di una figura – emblematica per tutta l’Italia e non solo per Napoli – come quella di Achille Lauro, «il primo grande imprenditore italiano, armatore, sindaco nel ‘52, punto di unione con la destra, il primo ad avere una televisione privata. Chiaramente, legata ad Achille Lauro c’è tutta la questione della speculazione edilizia, ché a differenza della Sicilia (dove la mafia aveva i capitali), la trasformazione urbanistica napoletana non è dovuta alla camorra ma all’imprenditoria collusa con la politica, slegata dalla partecipazione della popolazione».

Foto di Giusva Cennamo - Agenzia Cubo
Foto di Giusva Cennamo – Agenzia Cubo

E poi c’era il titolo, Il cielo in una stanza. È parlando con Armando Pirozzi, che Valenti comprende quanto tutti questi spunti si potessero riunire sotto il nome della canzone di Gino Paoli, sotto il segno di un palazzo da cui si vede uno scorcio di cielo, ma, a guardare l’altro piatto della bilancia, il cui soffitto è crollato. L’amore cantato da Mina è soltanto un’eco del passato, in cui una giovane coppia riusciva nel dopoguerra a comprare un appartamento grazie alla pensione di invalidità ottenuta in Svizzera, forse in odor di truffa; nulla se ne ravvisava nell’atmosfera noir dell’albergo di lusso nel quale un sedicente conte progettava propri interessi (eccolo Lauro in contatto con Dracula), poche tracce infine nel presente di questo palazzo in semi sfacelo, nelle vite arroccate e sotterrate di rimpianti o, concretamente, di macerie. Tra abusivismo e speculazione edilizia, come la canzone “non ha più pareti”, ma anziché alberi, il condominio sito in via Miracolo a Milano 43 ha scale infinite, rese scenicamente da un accatastamento di mobili e praticabili, continuamente attraversati dagli attori. Altra novità rispetto la consueta direzione: i Corsari, forgiati da una sapiente pratica attoriale per la quale le scene sono strumento funzionale e, soprattutto, essenziale, in questo caso e per la prima volta, appoggiano la propria abile maestranza all’ideazione di Tiziano Fario, scenografo tra gli altri di Davide Jodice e di Carmelo Bene. «Dal testo, scritto questa volta prima dell’inizio del lavoro sul palco, non si evince il nostro modo di lavorare con gli elementi scenici, anche durante la scrittura non ci siamo posti il problema delle scene; avevo visto al Bellini uno spettacolo di Jodice e mi aveva colpito molto il suo lavoro, decidiamo di contattarlo e appena ricevuto il testo, Tiziano Fario si è messo completamente a disposizione del progetto, ideando questo palazzo diroccato come un insieme di mobili che contengono e sono contenuti, che aprono a dimensioni temporali e spaziali differenti». Sulla scena, questa scatola cinese si astrae e rispecchia la complessità dei personaggi, del loro essere nuclei attigui ma mai perfettamente coincidenti, c’è chi vive in alto e aspira alla libertà, chi si rinchiude nell’armadio fuggendo la realtà vestito da indiano, chi la rifiuta rimanendo costantemente fuori e la cui voce arriva dal gabinetto in scena, chi ancora rimpiange il passato e dalle spalle del palazzo è sempre pronto a far guerra ai condomini indesiderati, i piccioni. Così, si guida il nostro sguardo su questa costruzione che è insieme metafora e realtà possibile, e che muove gli attori verso l’infinito gioco di scale, di piani e contro piani, che rendono questo palazzo «peggio di un girone dantesco».

Foto di Giusva Cennamo - Agenzia Cubo
Foto di Giusva Cennamo – Agenzia Cubo

La risoluzione dello stato di emergenza muove gli abitanti a contattare un avvocato che sia in grado di garantire loro certezze e sicurezze. Ma da questi assunti generici come agisce la collettività? Punta Corsara mette in scena «una contraddizione che viene sviscerata» e lascia emergere quest’incapacità di agire. Un’azione davvero trasformativa non è identificabile, preferibile compiere un’azione che vada a minare (si spera?) l’origine del disagio, sia pure in un disegno assolutamente irrazionale, piuttosto che rimanere con le mani in mano o dare il via a una burocrazia che sembra non avere fine, e che soprattutto, nell’animo degli abitanti, non potrebbe essere risolutiva. Ma se sul piano letterale sembra prevalere il soprannaturale (il sacrificio, il morto che parla attraverso la reliquia della sua mano o tramite i corpi degli abitanti), la società che guarda a monte non può risolvere più in questo modo il conflitto. Così, il conflitto tra il raisonneur eduardiano Alfredo (Cafiero, come il Pasquale di De André o come la madre di Lauro?) e l’istintivo Alce Nero, rimane necessariamente aperto, ché se anche tutto dovesse cambiare, il timore è che non muterà nulla.

Viviana Raciti

Teatro Bellini, Napoli Teatro Festival Italia – luglio 2016

IL CIELO IN UNA STANZA
drammaturgia di Emanuele Valenti e Armando Pirozzi
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
voce registrata Peppe Papa
regia Emanuele Valenti
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
disegno luci Giuseppe Di Lorenzo
collaborazione artistica Marina Dammacco
assistente costumista Nunzia Russo
direttore di scena Walter Frediani
realizzazione scene Alovisi Attrezzeria,
realizzazione costumi Ro.Ca.Gi,
service audio e luci Megaride Sas
uno spettacolo di Punta Corsara
produzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro festival \ Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con 369gradi

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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