banner NidPlatform 2024
banner NidPlatform 2024
banner NidPlatform 2024
HomeArticoliTeatrosofia #22. Diogene corifeo, o l’Amleto cinico

Teatrosofia #22. Diogene corifeo, o l’Amleto cinico

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento esploriamo il punto di vista di Diogene, fondatore del Cinismo.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

The time is out of joint. O cursed spite,
That ever I was born to set it right.
(Shakespeare, Hamlet, I 5, vv. 188-189)

partenone
M. Korres, Athens, Parthenon

Il termine “Cinico” denota, nella lingua italiana corrente, l’atteggiamento sprezzante e indifferente di una persona nei confronti dei valori condivisi. Questo significato spregiativo si attaglia però solo parzialmente al Cinismo antico. Infatti, benché i cinici fossero effettivamente spregiatori dei valori e delle credenze dell’epoca (politiche, religiose, ecc.), il loro atteggiamento era considerato solo un mezzo per raggiungere un fine più alto: vivere conformemente ai dettami della natura. I Cinici antichi attaccavano insomma la morale e la società per demolire le istituzioni umane che precludono una vita naturale, ossia la ricerca di ciò che è davvero necessario a soddisfare i bisogni primari e della piena indipendenza da quanto è superfluo a tale scopo. Essi giravano così per le città sporchi, mendichi e ispidi come i cani randagi (“Cinico” è del resto un calco del greco kunikós, o «proprio del cane»), predicando l’abbandono del cattivo stile di vita della polis greca.
Il disprezzo dei Cinici antichi non si limitava, tuttavia, a distruggere solo i valori astratti. Ambiva anche a colpire tutte quelle concrete figure che di questi valori erano rappresentanti o semplici trasmettitori/ripetitori. Entro questa cornice, va probabilmente collocata anche la polemica con gli artisti, ben attestata soprattutto per i Cinici di IV-III secolo a.C.. A Diogene, fondatore del Cinismo, si attribuiscono molti aneddoti contro musicisti e citaristi, che vengono tacciati di essere scarsamente intelligenti e di non possedere le virtù indispensabili per seguire la natura / abbandonare la molle vita della città, nonché una critica contro l’educazione tradizionale, comprensiva dello studio dei poeti e della melodia, perché inutile alla condotta morale. Mentre per quel che riguarda Cratete, uno dei primi discepoli diretti di Diogene, l’epicureo Filodemo riferisce, nell’opera Sugli Stoici, che egli avrebbe disprezzato gli attori nelle sue Epistole, forse per gli stessi motivi professati dal maestro.

Eppure, la critica agli artisti non impedì ai cinici di elaborare una propria linea di condotta, ispirata all’arte teatrale e agli attori. Cratete espresse la sua concezione filosofica attraverso componimenti poetici e tragedie, e pare che Diogene fece lo stesso – alcune fonti attribuiscono però i suoi versi tragici al discepolo Filisco. Monimo dichiarò invece che le cose sono illusioni equiparabili alle pitture delle scenografie dei teatri e forse usò tale paragone per indurre gli uomini a distaccarsene. Menedemo avrebbe recitato la parte del messaggero venuto dall’Ade, probabilmente per schernire le vuote credenze sull’oltretomba che vigevano a quei tempi. E infine, stando alle testimonianze letterarie (pertanto, non necessariamente affidabili) de Il Cinico di Luciano e del discorso che Dione Crisostomo fa pronunciare a Diogene nella Quarta orazione sul regno, pare che i Cinici affermassero che ciascun uomo deve indossare i panni che gli si addicono, dando così prova di sincerità e franchezza. In particolare, il secondo testo riporta che lo stolto amante del piacere non dovrebbe assumere aspetto virile, cioè fare come l’attore che passa indifferente da un abito femminile a uno maschile, ma avere il coraggio di mostrarsi come lo spirito molle che è. Non si può escludere che una simile dottrina fosse realmente sposata dal Diogene storico, dato che pare che egli avesse intimato a un uomo che si atteggiava immeritatamente a Eracle coperto da una pelle di leone, altro simbolo della virtù cinica, di buttare a terra questa veste.

La ripresa più interessante di un motivo tratto dal teatro è tuttavia la seguente. Diogene diceva di pensare alla sua attività morale come quella dell’istruttore dei cori, che insegna ai coristi come cantare bene, intonando la voce in modo più alto del normale. Si tratta di un paragone misterioso e aperto a disparate interpretazioni. La mia ipotesi è che Diogene affermasse che, come l’istruttore dei cori spesso canta uno o più versi con un volume eccessivamente alto, per far sentire ai coristi che stanno recitando quei versi fuori tono / fuori ritmo e indurli a correggersi, così il Cinico insegna agli uomini a seguire la natura, a coltivare le virtù, a rinunciare ai falsi valori pronunciando discorsi che sono sì più aggressivi e aspri del normale, ma che rivelano pure in che stato di prostrazione morale e mentale è arrivata l’umanità, vivendo in una civiltà molle e malata. Ci troveremmo insomma di fronte a un trattamento di shock, a una terapia d’urto necessaria per dare una direzione più sana all’esistenza umana. Il Cinico intona un canto, intenzionalmente sgraziato e irriverente, per tentare di raddrizzare le anime stonate e che non seguono più il ritmo naturale della vita.

Se l’ipotesi è corretta, si potrebbe paragonare Diogene, con tutte le differenze e le dovute cautele del caso, all’Amleto di Shakespeare. The time is out of joint, diceva quest’ultimo, e pur controvoglia si trovava costretto ad assolvere il compito di raddrizzarne il corso. Diogene avrebbe invece detto The time is out of tone e che ci vuole una bella abbaiata, per far fuggire gli uomini, dal marchingegno perverso della società progressista, all’armonia viva della natura benigna.

————————————-

[Diogene] si stupiva dei critici che andavano alla ricerca dei mali di Odisseo e ignoravano i propri, nonché dei musici, perché armonizzavano le corde della lira senza curarsi di ottenere l’armonia della loro anima. (…) Secondo Diogene, erano da trascurare la musica, la geometria, l’astrologia e simili, perché inutili e non necessarie. (…) [I Cinici] bandirono la logica e la fisica e si dedicarono solo all’etica. Diocle attribuisce a Diogene ciò che altri attribuisce a Socrate, lasciandolo dire che bisogna indagare «ciò che di male e di bene avviene nelle nostre case» [cit. da Omero, Odissea, libro IV, v. 492]. (…) E, ad un altro che si esibiva in uno spettacolo musicale [Diogene rivolse questi versi dall’Antiope di Euripide]: «L’intelligenza dell’uomo governa bene le città e le case, / non lo strepito della lira o del flauto» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VI, §§ 27-28, 73 e 103-104 = frr. 368-370 e 497)

Diogene diceva che è terribile osservare che, benché gli atleti e i citaredi si contengono nel ventre e nel piacere, gli uni in vista del corpo e gli altri della voce, tuttavia nessuno di loro sopporti qualcosa in vista della temperanza (Stobeo, Florilegio, libro III, § 5.39 = Diogene cinico, fr. 451)

Come Cratete nelle Epistole disprezza gli attori… (Filodemo, Sugli Stoici, fr. 17)

Menedemo fu alunno di Colote di Lampsaco. Secondo Ippoboto, fu un visionario così pieno di fede miracolistica che andava in giro vestito come un’Erinni e diceva di essere venuto dall’Ade a prendere conoscenza delle colpe che si commettevano, per poterle riferire, una volta tornato, agli dèi di laggiù. Andava vestito nel seguente modo: una tunica di colore lugubre, lunga fino ai piedi, stretta da una cintura di color rosso porpora, un cappello arcadico sulla testa, in cui erano intessuti i dodici segni dello zodiaco, coturni tragici, una barba lunghissima, una verga di frassino nella mano (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VI, § 102 = Menedemo cinico, fr. 1)

Non sono pochi… quelli che hanno affermato che Metrodoro, Anassarco e anche Monimo hanno soppresso il «criterio»; (…) Anassarco e Monimo perché hanno paragonato le cose esistenti ad una pittura scenografica ed hanno pensato che esse somiglino alle impressioni che si provano in sogno o nello stato di follia (Sesto Empirico, Contro i dogmatici, libro VIII, §§ 87-88 = Monimo cinico, fr. 2)

Ma mi meraviglio di te, come credi che il citarista debba avere una certa veste ed ornamento, una veste il flautista, una veste, per Giove, anche l’istrione; e non credi che l’uomo dabbene debba avere veste ed ornamento suo particolare, ma comune agli altri, quando gli altri sono cattivi. Se bisognasse una veste particolare agli uomini dabbene, quale altra converrebbe loro meglio di quella che gli uomini tristi hanno più vergogna a portare e più detestano? Perciò il vestimento mio è questo, essere squallido, essere peloso, avere un mantellaccio vecchio, farmi crescere i capelli, andare scalzo: il vostro è simile a quello dei cinedi, e nessuno potrebbe distinguervi da loro pel colore dei mantelli, per la morbidezza di tante tuniche e tunichette, per le fogge onde le portate, per le scarpette, per l’acconciatura dei capelli, per gli odori che spandete (Luciano, Il Cinico, §§ 16-17; traduzione leggermente modificata)

Dall’altra parte lo spirito ardito ed impavido [dell’uomo intemperante e amante dei piaceri], dopo aver subito molti oltraggi e umiliazioni, rovesciatasi la ruota della fortuna, come dicono, si presenta quale generale o demagogo che grida in maniera acuta e penetrante, come gli attori drammatici e gettando via nel frattempo la veste femminile, e poi, afferrata quella di un soldato oppure di un oratore, va in giro simile ad un sicofante e ad un essere terribile, guardando in faccia a tutti. Or dunque, a uno spirito simile si addice un aspetto virile e grave o piuttosto tenero e molle? Certo gli assegneremo l’abbigliamento adatto a lui, non quello virile e temibile che egli spesso indossa per finzione (Dione Crisostomo, Quarto discorso sul regno, §§ 108-109; traduzione leggermente modificata)

Ad uno che si pavoneggiava in una pelle di leone, [Diogene] disse: «Smetti di disonorare la veste della virtù» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VI, § 45 = Diogene cinico, fr. 465)

[Diogene] diceva d’imitare gli istruttori dei cori: questi infatti danno il tono più alto, perché tutti gli altri diano il tono giusto (Diogene Laerzio, Vita dei filosofi, libro VI, § 35 = Diogene cinico, fr. 266)

[I frammenti dei principali Cinici antichi di IV-III secolo a.C. – da Diogene a Menedemo – sono raccolti nel secondo volume di Gabriele Giannantoni (a cura di), Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli, Bibliopolis, 1990, pp. 227-590. Queste invece le traduzioni dei passi dei testimoni:
1) per Diogene Laerzio, cfr. Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi, Roma-Bari, Laterza, 2002;
2) per Filodemo, cfr. Tiziano Dorandi (a cura di), Filodemo. Gli stoici (PHerc. 155 e 339), in «Cronache Ercolanesi», 12 (1982), pp. 91-133. Il fr. 17 di quest’opera manca dalla suddetta raccolta di Giannantoni.
3) per Sesto Empirico, cfr. Antonio Russo (a cura di), Sesto Empirico. Contro i logici, Roma-Bari, Laterza, 1975;
4) per Luciano, cfr. Luigi Settembrini (a cura di), Luciano di Samosata. Tutti gli scritti, Milano, Bompiani, 2007;
5) per Dione Crisostomo, cfr. Domenico Ferrante (a cura di), Dione Crisostomo. Peri basileias (Or. IV), Napoli, Federico & Ardia, 1975
Si noti infine che le aggiunte ai testi tra parentesi quadre sono mie e hanno funzione esplicativa]

Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

2 COMMENTS

  1. (Se la traduzione è corretta) si parla di tono e non di volume.
    Uno dei “vizi” più ricorrenti nei cantanti che non possiedono una tecnica eccellente (soprattutto uso consapevole del diaframma) è quello di “calare”. Si tende cioè ad abbassare leggermente il tono (e dunque stonare) senza rendersene conto. Uno dei sistemi possibili è “pensare” la nota un po’ più alta di tono mentre la si canta.
    Ma vale la stessa cosa per il ritmo. I batteristi principianti tendono a “rallentare” senza rendersene conto, dunque l’esercizio è provare a “pensare” di accelerare (“rubare” nel linguaggio musicale). Io non so se gli istruttori tendono a “crescere” leggermente di tono per far si che il coro si intoni in maniera giusta, ma potrebbe anche essere.
    Un caro saluto
    Claudio

  2. Caro Claudio,

    ti assicuro che il greco riporta proprio “tono”. Stavolta non ho commenti da fare, ma solo ringraziamenti da porgerti. Le indicazioni che offri sono molto interessanti e mi saranno d’aiuto per approfondire l’argomento, in futuro. A presto,

    Enrico.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Medea’s Children di Milo Rau. Il sesto atto della tragedia

Recensione. Milo Rau alla Biennale Teatro 2024 ha portato in prima nazionale l'ultimo capitolo di un ciclo in cui i fatti di cronaca dialogano...