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Short Theatre chiude bottega, ma qui apre la stagione del mestiere delle arti

Sacchi di Sabbia – Don Giovanni di W. A. Mozart,

Quando è il giorno di smontare il tendone c’è sempre un po’ di tristezza, il clown piange senza la forza di riderci insieme, la donna cannone si mette a dieta, il trapezista lo vedi camminare per terra perché non ci sarà più il filo, sospeso a mezz’aria, per sentieri della vertigine. Ma c’è un momento in cui tutti si guardano, si spiano l’emozione che non scompare, e uno sguardo solo basta a esplodere tutti per l’ultima sera del più grande spettacolo che si può. Con questo spirito l’ultima sera di Short Theatre aveva in programma una quantità esorbitante di spettacoli che, nel magico mondo del ritardo cronico, è diventata una maratona affannosa. Ma tanto basta a dare la misura di un festival che voleva mostrare tutto, mescolare i linguaggi fino a confonderli, ragionare sull’arte come coinvolgimento di ogni modalità espressiva alla vita comune.

Menoventi è un gruppo assai originale: Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele, al contrario della maggior parte delle compagnie, si sono uniti da varie parti d’Italia, forse per una necessità più forte, chissà. Qui portano il loro InvisibilMente, spettacolo vivace, un gioco metateatrale che non svelo altrimenti dico troppo, molto interessante sul piano percettivo: l’intervento è sulla figura dello spettatore, la sua compromissione a quel che succede sul palco, la sua partecipazione non solo emotiva ma fisica, perché se l’attore in scena è nudo lo spettatore ha spesso tutti i vestiti indosso. Ne nasce uno spettacolo di particolare stimolazione e intelligenza, un lavoro sottile sui nascondigli in cui corrono a infilarsi sia gli attori che il pubblico, perché a teatro c’è un codice ben definito: ma cosa succede quando questo codice viene messo in discussione? Ecco allora che le certezze scompaiono, la tranquilla fruizione traballa e tutto, nuovamente, è rimesso in gioco. Soltanto c’è da annotare un rischio: lo spettatore che si siede e viene coinvolto in un gioco, non so quanto a lungo sopporta l’idea che lo spettacolo promesso non ci sia. Questo da umori in sala, qui e altrove io l’abbia già visto.

Segue il Don Giovanni di W. A. Mozart, progetto de I Sacchi di Sabbia sull’opera del genio di Salisburgo, in scena per la malsana idea di Giovanni Guerrieri. Malsana perché io mi domando come abbia fatto a pensarci, quale percorso della mente conduce a ripensare una partitura di musica e libretto per un sestetto armonico che ne interpreta la storia e insieme lo spirito, con straordinaria aderenza alla lucentezza argentina della musica mozartiana. Ne nasce uno spettacolo divertente e dinamico, il cui corpo immaginifico passa attraverso la voce ed è festante, stimola le estremità del coinvolgimento, ma senza perdere nell’opportuna sobrietà espressiva. In tutta sincerità una riflessione: questo lavoro è frutto di una suggestione intellettuale, di sicuro, anche perché la sala che io vedo senza dubbio non straborda di melomani o esperti di librettisti di fine ‘700; la gestazione dell’opera è dunque di stimolo concettuale, ma la foce del fiume arriva al mare largo del teatro popolare, perché il pubblico apprezza e applaude allo sfinimento un coro vocale interprete di un’opera non certo destinata a quel che si pensa solitamente del pubblico moderno, che crediamo del tutto asservito ai canoni televisivi di ascolto e reazione, e lo fa per puro godimento intellettuale. Popolare – lo dico anche a me come a tanti che pontificano sul teatro contemporaneo – non vuol dire ignorante.

Portage – Tribute to Anfione with echo in architecture d’interieurs

Portage è un progetto a firma Enrico Gaido e Alessandra Lappano, il loro Tribute to Anfione with echo in architecture d’interieurs è una performance che però ha in seno di bucare i limiti di questa definizione. Nella loro installazione mobile su tre postazioni c’è un intento drammaturgico in qualche modo, però ancora troppo oscuro. La mia vena di cronista dovrebbe raccontare un po’ cosa succede, spero di farlo senza anticipare il clamore di certe apparizioni. L’architettura, il suo statuto di arte sociale è il cardine del lavoro. Attraverso di essa costituire uno specchio di umanità, come sempre l’architettura che m’è sembrata sempre espressione diretta di un organismo in divenire, nonostante la sua apparente staticità. Nel loro percorso dunque importanza netta hanno i materiali, tutti dichiarati nella scheda; con essi però sanno fare qualcosa, sanno dichiarare una evoluzione artistica della materia a fini culturali. Tuttavia non sempre questo è così netto, e se posso imputare a Portage qualcosa è un difetto di chiarezza, che regalano a una complessità troppo densa per sciogliersi in piena comprensione. Tuttavia quel che conta è la dichiarazione d’intenti rispettata: l’architettura è specchio dell’evoluzione umana, paradosso svolto al meglio dal trapano nella carne congelata: l’organico che diventa materia inanimata, solidificata dal ghiaccio. Elemento di sicuro che salta agli occhi è il bisogno dell’esplosione: “buoni edifici, meravigliose rovine”, diceva Louis Kahn, che dell’architettura davvero fece un veicolo culturale e non amava i restauri, ma aveva presente che dove c’è maceria c’è da costruire, che gli edifici sono “creature spirituali”; quel che coglie i due artisti è dunque questo simile obiettivo di stampo rivoluzionario.

Degli ultimi tre progetti dirò brevemente perché mi sembrano o di minore entità o a uno stadio del lavoro non ancora abitabile da riflessioni compiute. Cristina Rizzo, danzatrice di MK e nell’ultimo lavoro dei Santasangre che vedremo in debutto a Romaeuropa Festival, ci accoglie nel suo studio de La morte del cigno, dal titolo Invisible piece. Di spalle, ha un obiettivo che mi sembra fondante, ossia mettere in stretta relazione di confronto classico e contemporaneo, infatti lei danza con in primo piano lo schermo in cui è proiettata la più celebre versione dell’opera, quella del 1924 di Anna Pavlova. C’è una atmosfera di degrado, di periferia tossica piuttosto coinvolgente, come quando si ascolta la voce registrata di qualcuno che non c’è più. C’è un ottima danza, tecnicamente molto attenta e quindi un uso intelligente del fisico. C’è però ancora freddezza nel nucleo complessivo, cui spero soluzione.

Tatiana Saphir – Breve storia del punk argentino

Tatiana Saphir racconta invece la Breve storia del punk argentino. Enorme è la sua energia ad accoglierci in sala, la Saphir che buca un sipario di giornali balla con intenti distruttivi, si denuda completamente e gira coperta di una sola bandiera biancoceleste, al mio fianco Cinzia che è attrice e drammaturga attenta mi dice: “non ho mai visto distruggere qualcosa con un materasso”, tanto per dare l’idea. Tuttavia presto lo spettacolo prende la via della narrazione, troppo documentaria per essere interessante. Inoltre c’è totale assenza di regia, di un minimo rigore che avrebbe giovato a non disperderne il segno. Ma d’altronde lei e sua sorella Tamara sono punk, come pensare che abbiano idea e voglia di una regia? Sarebbe incoerente. Quindi si lasciano andare a tutto quel che passa, con lo spirito dell’integralismo forte e decisivo. Michele Rizzo invece viene da Lecce, e porta qui il suo 7th Solo. Il suo è un gioco, anche qui: una coreografia in divenire che non diverrà mai, un gioco legato al contenitore che, nella nostra povera percezione, dà forma al contenuto. Esempio è la canzone cantata con l’asta ma senza microfono. Tuttavia lo spettacolo si ferma per ora lì, il resto è sconclusionato e ancora da definire. Ma la fiducia non manca.

La fiducia, appunto e alla fine. Mi preme dire questa parola come ultima di un percorso durato alcuni giorni. Potrei chiudere sulle gioie e i dolori di questo festival, come tanti. Ma mi preme una parola più in alto. La fiducia nei mezzi che abbiamo, quelli del teatro, quelli sociali dell’arte, perché tornino ad essere influenza di una civiltà alla deriva, ma c’è bisogno di un grande sforzo di autocritica, bisogna credere in chi ci guarda, non soltanto nel nostro acume e nella nostra sensibilità, perché l’arte è sempre popolare altrimenti manca del senso necessario e costitutivo, bisogna tornare indietro dall’aver creduto di essere tutti quanti geni indiscussi del solipsismo: il mestiere delle arti passa attraverso l’umiltà di rintracciare nel nostro lavoro il seme del lavoro degli altri, altrimenti né queste cronache, né questi spettacoli, o tutto quel che di enorme vi passa attraverso, ha motivo di esistenza alcuna.

Simone Nebbia

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