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HomeArticoliTeatrosofia #53. Ridere dei vizi tra Teofrasto e Beckett

Teatrosofia #53. Ridere dei vizi tra Teofrasto e Beckett

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 53 scorriamo qualche brano dei Caratteri di Teofrasto, alla ricerca del suo celebre “riso” accanto alla “risata dianoetica” di Beckett.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – Collaboratore di ricerca post doc dell’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

But the mirthless laugh is the dianoetic laugh, down the snout – Haw! – so. It is (…)
in a word the laugh that laughs – silence please – at that which is unhappy.
(Samuel Beckett, Watt, 1953)

Samuel Beckett fotografato all'Hyde Park Hotel, 1980. Foto di John Minihan
Samuel Beckett fotografato all’Hyde Park Hotel, 1980. Foto di John Minihan

Secondo una notizia tramandata da Diogene Laerzio, il filosofo Teofrasto sarebbe stato il maestro del drammaturgo Menandro. Diversi studiosi hanno provato ad addurre a conferma di questa notizia alcuni paralleli tra il contenuto del breve trattato teofrasteo I caratteri, che intende definire i vizi morali più comuni, e il comportamento dei personaggi delle commedie menandree. Nonostante ciò, non avendo prove dirette da altre fonti che il drammaturgo conoscesse tale testo del filosofo, la dipendenza del primo dal secondo e le somiglianze tra i due restano puramente congetturali. Menandro poteva aver costruito i suoi personaggi indipendentemente da Teofrasto, o addirittura potrebbe essere stato egli stesso a influenzare con le proprie commedie la riflessione morale del filosofo.

A prescindere da questa questione, I caratteri teofrastei restano intrinsecamente interessanti, perché presentano al proprio interno qualche confronto eloquente con il teatro. Teofrasto osserva a volte, infatti, come certi individui si comportino di fronte a uno spettacolo o al lavoro degli artisti, per illustrare in maniera efficace i comportamenti viziosi degli esseri umani e la correttezza delle sue definizioni. Il valore del trattato teofrasteo non risiederebbe, in questo senso, nella sua presunta influenza sulla creatività di Menandro. Consisterebbe, piuttosto, nella sua capacità di cogliere e conoscere e sintetizzare le caratteristiche salienti di alcuni vizi, attingendo all’ambito vivo del teatro.
In questo campionario da “commedia delle vanità”, alcuni umani interrompono gli spettacoli col proprio comportamento molesto, altri si cimentano in esibizioni artistiche con cui si coprono di ridicolo, altri ancora non riescono a seguire le attività teatrali, perché il proprio vizio li induce ad addormentarsi anzitempo o a fuggire il palcoscenico, per risparmiare qualche spicciolo. I toni comici prevalgono nella scrittura di Teofrasto, tanto che in alcuni casi da filosofo rigoroso egli sembra trasformarsi in elegante umorista.
Si tratta nondimeno di un’impressione fugace. La comicità di Teofrasto rimane un’operazione “serissima”, poiché con l’aneddoto comico e grottesco va in cerca di un’essenza: l’essenza di un vizio che rende determinati tipi umani profondamente sregolati, intemperanti e/o malvagi, dunque infelici. Mantenendo la debita cautela, dato l’abisso che li separa, il riso teofrasteo potrebbe essere accostato alla risata dianoetica del romanzo Watt di Samuel Beckett, che ride dell’infelicità umana, ne coglie la natura e, in un qualche modo, la esorcizza.

———————–

Secondo la testimonianza di Panfila nel trentaduesimo libro delle sue Memorie, [Teofrasto] fu maestro del comico Menandro (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, § 36)

La pazzia morale è un abbassarsi ad atti e discorsi turpi, e il pazzo morale suppergiù un tale che giura leggermente, non si cura del cattivo nome, insulta i potenti, di contegno è piazzaiuolo e impudico e capace di ogni cosa. Evidentemente costui è capace di danzare il cordax senza aver bevuto e senza trovarsi in un coro comico con la maschera. E ai giochi di prestigio accosta a uno a uno gli spettatori per raccogliere i soldini, e si abbaruffa con quelli che non hanno il biglietto e vogliono vedere gratis (Teofrasto, Caratteri, cap. 6: La pazzia morale, §§ 1-4)

La garrulità, chi la volesse definire, sembrerebbe essere un’incontinenza di parola, e il garrulo suppergiù essere un tale che, se s’incontra con uno, appena questo apre la bocca a discorrere con lui, gli dice che codeste sono sciocchezze e che lui invece sa ogni cosa e che, se gli darà orecchio, potrà imparar molto. (…) E se fa parte della giuria, impedisce di giudicare; se assiste a uno spettacolo, di vedere (Teofrasto, Caratteri, cap. 7: La garrulità, §§ 1-2 e 9)

La sguaiataggine non è difficile a definirsi: è un modo scoperto e indecente di scherzare, e lo sguaiato un tale che, incontrandosi con donne libere, si tira su il vestito e scopre le vergogne. E a teatro batte le mani proprio quando gli altri principiano a smettere, e fischia agli attori che gli altri vedono con piacere; e quando l’uditorio ha fatto silenzio, levatosi in piedi, rutta forte per fare voltare indietro il pubblico (Teofrasto, Caratteri, cap. 11: La sguaiataggine, §§ 1-3)

E, assistendo a un’audizione di flauto, [lo sguaiato] solo fra tutti batte il tempo con le mani e accompagna l’istrumento a voce spiegata, e chiede con aria di rimprovero alla flautista, perché abbia smesso così presto (Teofrasto, Caratteri, cap. 19: La sudiceria, § 10; il passo è sicuramente fuori posto e si trova impropriamente in un capitolo che descrive il vizio del “sudicio”, pertanto si tratta di certo dell’interpolazione testuale di un paragrafo che originariamente accompagnava la descrizione della sguaiataggine [n.d.a.])

La sbadataggine, a ben definirla, è lentezza di spirito in parole e opere, e lo sbadato suppergiù un tale che, dopo aver fatto il conto con i sassolini e tirato già le somme, chiede a chi gli è seduto accanto: «Quanto fa?». (…) E si addormenta in teatro e rimane lì solo (Teofrasto, Caratteri, cap. 14: La sbadataggine, §§ 1-2 e 4)

La scortesia è asprezza di modi nel discorrere, e lo scortese suppergiù uno che, a chi gli domanda: «Dov’è il tale?», risponde: «Non mi seccare». (…) E non consentirebbe mai né a cantare né a ballare (Teofrasto, Caratteri, cap. 15: La scortesia, §§ 1-2 e 10)

La studiosità senile è zelo nell’apprendere oltre l’età; e lo studioso anziano suppergiù un tale che a sessant’anni sonati impara a mente tirate di tragedia, e, mentre le recita tra il bere, rimane a mezzo. (…) E ai giuochi di prestigio rimane per tre o quattro turni di pubblico, sforzandosi d’imparare le canzonette. (…) E quando sono in vista donne, si esercita a danzare, accompagnandosi da sé con la bocca a voce spiegata (Teofrasto, Caratteri, cap. 27: La studiosità senile, §§ 1-2, 7 e 15)

L’avarizia è cupidigia di turpe guadagno, e tale è l’avaro che, quando ha invitati, non mette sulla mensa abbastanza pane. (…) E si avvia con i figlioli allo spettacolo, soltanto quando gli impresari comincino a lasciar entrare gratis. (…) E, quando i figlioli sono andati a scuola non per l’intero mese a causa di una malattia, defalca dall’onorario in proporzione; e nel mese Anthesterione non ce li manda, perché ci sono molti spettacoli, per non avere così a pagare la mesata (Teofrasto, Caratteri, cap. 30: L’avarizia, §§ 1-2, 6 e 14)

[La traduzione dell’estratto da Diogene Laerzio è di Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi. Volume 1: libri 1-7, Roma-Bari, Laterza, 1998. Cito invece il trattato teofrasteo da Giorgio Pasquali (a cura di), Teofrasto: I caratteri, Milano, Rizzoli, 1979]

Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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