L’ORIGINE DEL MONDO, RITRATTO DI UN INTERNO (di Lucia Calamaro)
La nostalgia di un pezzo di comunità teatrale per la Roma degli spazi indipendenti, per la versione originaria di questo spettacolo in cui erano straordinarie Daria Deflorian e Federica Santoro; la difficoltà di accesso per giovani e meno giovani alle occasioni importanti, la mancanza di porosità dei teatri pubblici verso attrici e attori fuori dal giro e poi il nome di Concita De Gregorio… Insomma tante le critiche piovute su questa operazione (soprattutto nelle bolle teatrali di Facebook) e tante le questioni che si sono annodate attorno allo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro su un testo che a una prima analisi potrebbe sembrare lontano: a chi importa di una borghese intellettuale che non riesce ad uscire di casa? E invece eccoci, noi durante la pandemia di un paio di anni fa, noi che ci facciamo forza contro le piccole e grandi depressioni, noi alle prese con il lavoro in smart e i progetti da chiudere. E la casa che rischia di diventare luogo di autoreclusione. Calamaro firma anche il disegno luci e lo spazio scenico: c’è un fondale che cambia colore a ogni atto, pochi oggetti e arredi di scena, piante che vengono portate in regalo e un frigorifero che è un altare domestico, luogo rituale in cui cercare sollievo dagli sprofondamenti esistenziali. Si ride molto grazie alla scrittura dell'autrice romana, qui asciugata in una versione più agile, della durata di un paio di ore (nel 2012 assistemmo a una maratona di più di quattro), con quell’ironia che fa pensare a Woody Allen e Nanni Moretti. L’opera, rispetto alla versione di 12 anni fa, ha un tratto borghese più evidente (allestirlo all’Argentina ha contribuito naturalmente), tutto è maggiormente pulito e per certi versi meno sorprendente, come nella recitazione di De Gregorio: precisa, con un tono intimo (ben sonorizzato nell’amplificazione) e un timbro pieno e chiaro, ma priva di picchi ironici, di sussulti. Redini e Mascino sono tecnica pura (ma non solo), la prima trasformista nei ruoli della figlia e della psicologia, la seconda dà una lezione di comicità, a lei gli applausi a scena aperta. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina scritto e diretto da Lucia Calamaro con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini, scene e costumi Lucia Calamaro assistente scene Laura Giannisi aiuto regia Jacopo Panizza, disegno luci Lucia Calamaro, costumi Sartoria Bàste srl, foto di Claudia Pajewski produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale
PAOLO SORRENTINO VIENI DEVO DIRTI UNA COSA (di Giuseppe Scoditti)
Chi non ha mai sognato di scambiare qualche parola con un grande personaggio del nostro tempo o, meglio, del passato? Cosa diremmo, una volta superata una certa emozione, a chi con la propria opera ha ispirato o ispira molte persone e senza dubbio noi? Deve aver fatto questo pensiero Giuseppe Scoditti, comico apparso anche in TV e al cinema nel recente Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, autore e unico interprete – la regia è di Gabriele Gerets Albanese – di Paolo Sorrentino vieni devo dirti una cosa, in scena al Teatro Basilica. Il Sorrentino del titolo, regista pluripremiato e ritenuto ormai un maestro del cinema italiano nel mondo, è un pretesto iniziale perché Scoditti possa rivolgere una domanda più ampia al nostro contemporaneo: cosa crea l’aura di grandezza? Chi e come entra nel pantheon dei grandi così da diventare esemplare? Il punto di partenza è un provino, sostenuto dall’attore per un personaggio minore di un film del regista, ma senza aver ottenuto poi il ruolo. Da quel momento l’esigenza si è via via espansa, permettendo a Scoditti così di riflettere sul senso dell’originalità, in un mondo che ha già inventato tutto e che spaccia per nuove idee trite soltanto ben rimescolate, omaggiando sì il regista ma ponendo attenzione su quanto l’arte diventi molto rapidamente una maniera, su quanto sia poi difficile dire davvero ciò che si pensa rispetto a modelli che il mercato e il consenso definiscono sempre più universali. Lo stile, oltre un iniziale approccio da stand up comedy, attraverso l’ironia tende a trasformarsi in una critica più profonda, riuscendo solo in parte ad affrancarsi da una relazione di superficie tra attore e spettatore, ricercata con smodata ricorrenza e dunque permettendo con più fatica al testo – eccessivo l’indugio sui vuoti e sulle stanchezze – di superare tale meccanismo. E tuttavia, pur se lo spettacolo riesce con difficoltà ad allontanarsi da quanto già il titolo esprime, Scoditti si segnala come un comico raffinato e pronto a creazioni capaci di aumentare il proprio spessore con intelligenza e acume. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica. Credits: uno spettacolo di e con Giuseppe Scoditti; scritto da Giuseppe Scoditti e Gabriele Gerets Albanese; regia di Gabriele Gerets Albanese; light designer Cristian Allegrini
DE GASPERI: L’EUROPA BRUCIA (di A. Dematté, regia C. Rifici)
Una tenda bianca, sistemata sull'angolo sinistro della scena, questa è un quadrato che restringe il largo spazio del palco del Vascello, come a chiudere i protagonisti della vicenda in una sorta di teca. Un luogo in cui far rivivere il passato, dove trovano posto un'asta sulla quale sventoleranno prima una bandiera nera, poi una rossa e infine una bianca, ovvero, ciò che rimaneva del fascismo, i temuti comunisti e la verginità ricostituita con l'avvento della Democrazia Cristiana. Con questa nuova produzione del Lac, l'istituzione teatrale ticinese, affonda la propria ricerca attorno al fare politica di De Gasperi dalle prime elezioni repubblicane ai grandi summit internazionali e gli inizi degli anni '50. Attorno a questo filo storico si stringono inevitabilmente una serie di nodi che ancora oggi rappresentano la posizione dell'Italia nel mondo. Al centro dello spettacolo c’è la prestazione superlativa di Paolo Pierobon: nel corpo proteso in avanti, nei movimenti delle braccia e delle mani, nella voce, con quell’accento trentino che contribuisce a costruire l’immagine di un politico d'altri tempi, venuto dalla provincia lontana, nonostante gli studi e l’esperienza austriaca. Accanto allo statista e fondatore della DC la figlia, interpretata da Livia Rossi; solo altri tre personaggi entreranno in questa camera della memoria, Palmiro Togliatti (Emiliano Masala, puntuale, deciso ed elegante), un ambasciatore americano (mellifluo e all’altezza Giovanni Crippa) e un giovane simbolo della riqualificazione di Matera (Francesco Maruccia già in scena seduto al piano). Con loro De Gasperi/Pierobon misura le relazioni del giovane partito democristiano e del Paese: la paura rossa (appassionante il dialogo in punta di retorica politica e filosofica con Togliatti) e il grande alleato atlantico che proprio vorrebbe l’estromissione dei comunisti. Questo lavoro brilla per attualità, per la regia raffinata e funzionale di Carmelo Rifici, per la recitazione ma anche per l’ordito drammaturgico di Angela Dematté (nonostante il rischio agiografico) in grado di manovrare una lingua sempre alta ma anche puramente teatrale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Vascello Crediti: di Angela Dematté regia Carmelo Rifici con Paolo Pierobon Giovanni Crippa Emiliano Masala Livia Rossi Francesco Maruccia scene Daniele Spanò costumi Margherita Baldoni luci Gianni Staropoli musiche Federica Furlani assistente alla drammaturgia Valentina Grignoli assistente alla regia Alice Sinigaglia
DECISIONE CONSAPEVOLE (coreografia di Roberto Tedesco)
È arrivato a compimento, col debutto a serata intera, il progetto coreografico Decisione consapevole di Roberto Tedesco. La crescita del percorso compositivo e la maturità delle scelte sono ora precisate ed evidenti. Un concorde quartetto di interpreti (Mattias Amadori, Eleonora Dominici, Laila Lovino e Francesco Misceo), sempre in scena, si moltiplica o si sottrae continuamente entro o sopra uno spazio ottimamente illuminato, segnato a terra da una larga cornice che accoglie e accompagna e distende le azioni. È un esterno, almeno in avvio, perché il sonoro vi allude nel vociare di bambini. Ma poi le sequenze si disseminano in quadri stanziali o in improvvise fughe, secondo mappe estemporanee ma non improvvisate, continuamente mediate dal processo decisionale di ognuno. Il corpo dei quattro (che spesso si estende in un effetto di moltiplicazione) non confonde infatti le singolarità, che restano distinte e attive nel gioco d’insieme. Un unico, lungo, buio introduce a una scena di transizione, che riparte dal nudo di una coppia. E che si ricongiunge secondo una idea di convivenza che non ammette fratture né esclusioni. Forse solo il piano musicale, ricchissimo di brani e di atmosfere in serie (le trappole di melopee collettizie), a volte risulta solo finalizzato a segnare il movimento; una più indipendente ricerca di relazione, tutta d’un getto, tra forme del movimento e musicali, avrebbe forse ridotto l’effetto funzionale, rischiarando una più consapevole unità. Ma vi è però una coerente dimensione intuitiva delle presenze che salda insieme le parti del lavoro: gli elementi messi in gioco da ognuno dei corpi sono già azione, non solo reazione. Così una intensa e nervosa segmentazione del movimento, fatta di ripartenze o di rallentamenti (anche tra coppie in simultanea), scompone e ricompone la mappa del mondo che qui si sta disegnando. È il risultato di una decisione di natura percettiva: Tedesco sembra allora aver voluto coreografare proprio ciò che voleva riuscire a introdurre nel proprio mondo interno. (Stefano Tomassini)
Visto alla Fonderia di Reggio Emilia, Coreografia: Roberto Tedesco, Interpreti: Mattias Amadori, Eleonora Dominici, Laila Luchetta Lovino, Francesco Misceo, Musiche: Eskmo, Brendan Angelides / Rival Consoles / The Gentleman Losers / Pan-American / J. S. Bach / Raime / Senking, Sound designer: Giuseppe Villarosa, Disegno luci: Giacomo Ungari, Costumi: Francesca Messori. [Crediti completi]
PROMETHEUS PROJECT, SECOND MOVEMENT: ἸΏ (di Raffaele Di Florio)
A immaginare il Prometeo incatenato di Eschilo, l’aspettativa era quella di trovarsi davanti l’idea di una landa desolata, tagliata da rocce crudeli, sommersi da gemiti e strilli; l’aspettativa era quella di trovarsi davanti uno spazio umano. Ai piedi del Titano incatenato, la grossa giumenta Io urla il proprio dolore. La stanchezza l’ha resa ottusa, corre fino alla follia, aspetta un figlio; vittima dei capricci di Zeus e delle gelosie di Era, è destinata a non trovare pace. Invece, nella messa in scena di Raffaele Di Florio, della tragedia manca del tutto la cieca disperazione, il tormento ossessivo: manca, insomma, l’animale. Il regista salernitano opta per una ricerca estetica strabordante ma estenuata, poco carnale, e fredda. Non esiste tempo o spazio, ma solo un informe flusso emotivo dove la presenza del mondo reale si riconosce in un letto su cui si sono riversati solitudine, desiderio e paura. L’eccedenza di elementi, tra quelli musicali curati dal compositore Salvio Vassallo, e quelli visivi ideati dal visual designer Alessandro Papa, sovraccarica l’aria di stimoli senza arricchirla di sensazioni, poiché mal comunicano tra loro: non è sufficiente ad accompagnare l’impeccabile esibizione di Luna Cenere e avvolgere il suo corpo, e anzi ne limitano il potenziale. La danzatrice e coreografa inscena la storia della sacerdotessa di Zeus prima che questo la seducesse e la costringesse al patimento, fino alla terribile metamorfosi. Comunica con l’inquietante figura di Prometheus, la cantante Valentina Gaudini, ricordando ciò che è stato e domandando responsi sul proprio destino. Cenere è capace di rendersi iconica, classica e astratta; il suo corpo esprime il pensiero e lo significa nei minimi movimenti tellurici dalla schiena fin nelle dita dei piedi. Ogni gesto è una mutazione in costante avvenire, non esiste la quiete ma un instancabile vivere, le mani toccano il corpo e lo modellano lì dove le emozioni si impongono. Ma non strazia, talmente lontana dall’impeto che dovrebbe esprimere (Valentina V. Mancini)
Visto a Ridotto del Mercadante, Napoli; Crediti: Ideazione, spazio scenico e regia Raffaele Di Florio; Con Luna Cenere e Valentina Gaudini; Musiche originali e disegno del suono Salvio Vassallo; Video Alessandro Papa; Coreografia e danza Luna Cenere; Canto e performing art Valentina Gaudini; Voce registrata Cristiana Dell’Anna; Foto di scena Ivan Nocera; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
HEDDA (di e con Clio C. Buren)
Più volte nel rileggere Hedda Gabler avremmo cercato di condensare in una modalità “spiegabile” le sue scelte, per poi ritrovarci ad analizzare una psicologia che in fin dei conti non vuole essere compresa e non cerca legittimazione. Ed è per questo potentissima e radicalmente rivoluzionaria. La sua colpa è proprio questa, essere così. Reato reso evidente nella riscrittura di Clio Cipolletta Buren, monologo di circa una cinquantina di minuti in cui Hedda si rappresenta in tutta la sua superba consapevolezza e più volte lo ricorda, semmai il pubblico non lo avesse chiaro: «Questi, noi siamo». Una sedia, un tavolo, una pistola e una pennetta usb sul palco di Fortezza Est, e poi lei, in abito lungo, giacca, décolleté a spillo, tutto di colore nero. C’è una dolce inflessione nella dizione che per le sfumature più rancorose si appoggia al vernacolo campano, familiare per l’attrice, in particolare quando l’emozione appesantisce il ragionamento e diventa ingestibile. Hedda pensa ad alta voce spiegando del suo amore fallito con Borg, quello di ripiego con Telmo, dei soldi che non ci sono, della zia che incalza, dell’occasione professionale che non può non essere colta. A tutti i costi. E quanto le è costato? Basta guardare la sua postura, esemplificativa: il mento alzato, la schiena inarcata, lo sguardo orizzontale, impietoso con se stessa, con chi ascolta, con la vita. L’adattamento si concentra sui vulnus del testo originale e li attualizza anche se collocati in una presente senza tempo perché potrebbero accadere in tutti i tempi; unica indicazione, contemporanea, è che il famigerato manoscritto di Borg - che gli varrebbe la cattedra universitaria al posto del marito di lei, Telmo, e che lei perciò farà sparire - è racchiuso in una pennetta usb. La dimensione compatta e tascabile dell’oggetto contiene in uno spazio ridotto la complessità di documenti sensibili che possono comprometterci, racchiusi in un parallelepipedo in apparenza insignificante. L’io monologante, in alcuni momenti, sembra avvolgersi in un soliloquio intimo, oscuro, che potrebbe, per coloro che non conoscono il dramma ibseniano, risultare criptico alla comprensione e perdere quell’incisività espressa invece nell’interpretazione attoriale magnetica, a disarmare qualsiasi pregiudizio e che si fa osservare e ammirare in tutta la sua perfida compromissione.
Visto a Fortezza Est: di e con Clio C. Buren, Suono Mauro Autore, TLTA produktion, con il sostegno di Tedecà Bellarte Torino – Fertili Terreni Torino, Scugnizzo Liberato Napoli, Ex Asilo Filangieri Napoli
INDOVINA VENTURA (di Ortolani, Provinzano, Massa)
«Scriverai anche di questo?», chiede Provinzano. E perché no. Da poco si è tenuto allo Spazio Franco Indovina Ventura, esito di un laboratorio da Scaldati. Oltre una ventina di performer per una triplice regia (Margherita Ortolani, Giuseppe Provinzano, Giuseppe Massa) in collaborazione con tre musicisti (Angelo Sicurella, Serena Ganci, Dario Mangiaracina) in un collage di tre episodi. Del testo originale viene accolta la forma frammentaria, qui cucita in una rapsodia già tenuta a dicembre, nell'ambito dei progetti legati ai dieci anni dalla morte dell'autore. Il primo atto è di Ortolani e Sicurella, entrambi presenti sul palco. Nel complesso, la disperazione troppo urlata dei protagonisti si disintegra in un lavoro più disorganico che eterogeneo; a questo stadio, si avverte la mancanza di una misura più ponderata a regolare l'esplosione dei singoli momenti parossistici. Bel quadro è quello in cui Ortolani recita, seduta, in duetto con Sicurella. Il secondo atto, di Provinzano e di Ganci, si presenta in una forma che già adesso ci pare compiuta: la comitiva di vavaluci (lumache) avanza in schiera orizzontale verso il pubblico, e davvero lo fa divertire nella riuscita fusione armonica con il cantato. Interessante l'ultimo atto, di Massa-Mangiaracina: un aperitivo sui toni del rosa sul quale sembra incombere la fine del mondo. Massa si trova a suo agio nel buio, dove gioca confondendo codici e linguaggi: nell'oscurità imposta dall'Enel le interpreti e le interpreti si abbandonano a un ultimo slancio erotico, mentre nudi si abbracciano al suolo. Ricorda un po' quella scena di Zabriskie Point, ma non è nel deserto che i protagonisti si trascinano; piuttosto è in un'atmosfera lunare che si incontrano e che incontrano il pubblico con la loro presenza opprimente. Al povero Totò (Giuseppe La Licata), non resta che urlare, vilipeso e inascoltato. Bene il coinvolgimento di così tante valide professionalità, secondo una linea tesa a delineare «nuove direzioni del futuro, non soltanto dal punto di vista strettamente culturale ma anche come centro di processi creativi virtuosi».
Visto allo Spazio Franco. Crediti: ... Passat'a porta Siemo un Filu i Fumu Regia di Margherita Ortolani Musiche di Angelo Sicurella con Tea Bruno, Angelica Di Pace, Alessandra Falanga Chiara Gambino, Daria Karpova, Dario Muratore, Chiara Muscato. Va' Va' luci regia di Giuseppe Provinzano, musiche di Serena Ganci, con Julia Jedlikowska, Giancarlo Latìna Daniela Macaluso, Oriana Martucci, Alessia Quattrocchi, Luigi Maria Rausa, Riccardo Rizzo, Esdra Sciortino Nobile. Si l'àncili cantassiru câ luci e no câ vuci Regia di Giuseppe Massa, Musiche Dario Mangiaracina, con Ibrahima Deme, Paolo Di Piazza, Giuseppe LaLicata, Sofia Lalicata, Chiara Peritore, Simona Sciarabba, Nancy Trabona E con Roberto Calabrese e Carmelo Drag. Foto di Alessandra Leone.
MADINA (coreografia di Mauro Bigonzetti)
Profetica e purtroppo attuale, l’opera musicale Madina in forma di Teatro Danza in tre quadri del compositore Fabio Vacchi con la coreografia di Mauro Bigonzetti è tornata nella stagione di balletto del Teatro alla Scala di Milano. Tratta dal romanzo La ragazza che non voleva morire di Emmanuelle de Villepin (autore del libretto che in parte se ne discosta), comprende anche due cantanti solisti (soprano e tenore), il coro e un attore. Una sfida di bilanciamento delle presenze (e delle drammaturgie) alla quale Bigonzetti già al tempo del debutto non si sottrasse, convocando un imponente immaginario visivo, mobile e mai di intralcio, grazie al magistrale lavoro su scene e luci di Carlo Cerri, in perfetta sintonia con il lavoro dei video designer Alessandro Grisendi e Marco Noviello. Il libretto, come già il romanzo, racconta una storia vera: una ragazza (nel romanzo cecena) subisce l’occupazione della propria terra, la distruzione della propria famiglia (rigidamente patriarcale), lo stupro da parte degli occupanti (nel romanzo i russi), le richieste dei familiari di immolarsi in un attentato suicida in una grande città occidentale. Corpo reso docile dalla violenza e dalla cultura del possesso degli uomini, Madina è per tutti loro vita sacrificabile. Lei dirà di no, interrompendo la diarchia azione/reazione. Dirà di no alla violenza della manipolazione che risiede nella cultura dello stupro e nel familismo ricattatorio. Non senza conseguenze per sé e per altri: ma Madina conosce un’altra forma dell’amore senza odio, senza sovranità, che è resistenza, ed è senza contropartita. La coreografia richiede ferocia e anche violenza: Bigonzetti prende qui tutti i suoi rischi, e alla fine si esce turbati. In questa ripresa, la capacità trasformativa di Antonella Albano nel ruolo di Madina (su di lei creato) resta intatta; mentre sorprende la forza di Gabriele Corrado (nel ruolo inedito del brutale Kamzan) capace di mostrare l’ingovernabile squallore del disumano. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro alla Scala Coreografia MAURO BIGONZETTI Musica FABIO VACCHI Luci e scene CARLO CERRI Costumista MAURIZIO MILLENOTTI Costumista collaboratore IRENE MONTI Video designer CARLO CERRI Video designer ALESSANDRO GRISENDI Video designer MARCO NOVIELLO Direttore MICHELE GAMBA, cast del 6 marzo [Crediti completi]
FRAGILERESISTENTE (il turno di notte)
Fragileresistente è il titolo di questo spettacolo. Un contrasto efficace, ossimoro di aggettivi contrapposti, per definire la condizione di più di una generazione al cospetto della società contemporanea. Silvia Pallotti e Tommaso Russi della compagnia il turno di notte, sul palco del Centrale Preneste a Roma, esprimono così tutto il turbamento determinato dal caos in cui bisogna compiere delle scelte, misurare il proprio presente con l’ingombro del passato e l’incertezza del futuro; in una parola, insomma, diventare adulti. A dispetto di tutto. I due giovani artisti, riuniti dalla vocazione per l’autorialità della scena, pur alla ricerca di un linguaggio più solido mostrano segni di ciò che si farà pungente; consapevoli della varietà dei meccanismi teatrali, danno al lavoro una struttura frammentaria, volutamente dividono segmenti di racconto che altri elementi tendono ad arricchire, siano essi l’ironia o il lavoro al microfono con la loop station, oppure l’interazione con il pubblico che partecipa attivamente alle sequenze costruttive. La scena ha pochi elementi: c’è all’inizio un divano al centro ricoperto di plastica, come si usa per preservare i mobili durante una ristrutturazione e dunque inutilizzabile, eppure quel divano è l’unico punto di stabilità, così ci si abbarbicano come privi di forze per alzarsi e andare nel mondo, che non gli piace. Sul fondo di queste intenzioni c’è la storia di un padre e di un figlio (che mantengono anche come personaggi l’articolo indeterminativo), di una incomunicabilità sovrana in cui si specchia, come ne fosse il paradigma, quella della società; l’apatia depressiva del figlio sconvolge il padre che però non può farci nulla, la difficile convergenza di idee, umori, motivazioni, anche quando assieme saranno in piazza per il 25 aprile e il padre cercherà il figlio scomparso, provoca una distanza sistematica che mescola insieme la delusione della militanza politica e la necessità di recuperarla: forse è questo, più di tutto, allo stesso tempo fragile e resistente. (Simone Nebbia)
Visto al Centrale Preneste. Credits: di Il turno di notte; con Silvia Pallotti e Tommaso Russi; consulenza al suono Jacopo Malusardi; scene Fabio Pallotti e Silvia Pallotti; produzione il turno di notte
CIARLATANI (di Pablo Remòn)
Chi sono i ciarlatani? Quelli che parlano all’infinito mossi più dalla vacuità delle affermazioni che dalla concretezza, quelli che emettono unicamente suoni e pur le chiamano parole. E Ciarlatani – ma la traduzione forse più esplicita è parsa “impostori” – sono quelli di uno spettacolo scritto e diretto dal drammaturgo castigliano Pablo Remòn, in tournée in Italia con la traduzione di Davide Carnevali, per intuizione e convinzione di Silvio Orlando, tra i protagonisti sulla scena. Alcune vicende che si intrecciano sul palco sembrano infine confluire in un comune, non pacifico, delta di fiume: Anna Velasco è una giovane attrice, presto delusa dalla recitazione che ha scelto solo per misurarsi all’ombra del proprio padre regista di culto; Diego è un regista invece commerciale, che vive una crisi personale meditata in un confronto proprio con la stessa ombra di Velasco padre. Entrambe le storie, cui si intreccia anche quella metateatrale del drammaturgo che difende la propria opera di plagio, fluttuano tra passato e presente ed esplicitano un comune denominatore: l’arte è una condanna, è fatta di rinunce e sacrifici, di scelte ogni volta da rifare dall’inizio, senza poter contare sulla strada compiuta, conta solo quella da fare. In una scenografia componibile che via via si trasforma da interno casalingo a camerino di teatro, da ospedale a bar notturno dove scambiare paure e segreti, con Orlando gli attori (Francesca Botti e Francesco Brandi) danno vita a molti personaggi, attraverso una qualità mimetica minima eppure rilevante, disegnando così lo sfondo su cui può articolarsi la storia di Anna, Blu Yoshimi secondo locandina, ma che abbiamo visto interpretare a una sorprendente attrice di nome Nina Pons. Impostori, dunque, questi ciarlatani. Perché non sono nel loro posto, hanno confuso i loro sogni con i sogni altrui, sono mossi da motivazioni prive di solidità. E dunque il rapporto con figure che la considerazione ha reso statuarie genera frustrazione, riduce la gioia dell’arte, talvolta, al passo lento della malinconia. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argentina. Crediti: scritto e diretto da Pablo Remón; traduzione italiana di Davide Carnevali da Los Farsantes; con Francesca Botti, Francesco Brandi, Silvio Orlando, Blu Yoshimi (Nina Pons)
ALDST – Al limite dello sputtanamento totale (di Viola Marietti)
In un’intervista Viola Marietti definisce la protagonista del suo monologo una «wannabe Sarah Kane». Scivolando oltre la grandezza letteraria, si avverte, in questa aspirazione, un’amarezza sghemba, il dolore di una generazione (i venti-trentenni) alla quale sembra essere stata sottratta anche la grandezza tragica del dolore. C’entra un po’ pure David Foster Wallace quando diagnostica, negli anni ’90, la degenerazione della categoria interpretativa (ma anche esistenziale) dell’ironia, la sua tirannide. Se tutto può essere oggetto di (auto)ironia, se persino l’affondo dentro se stessi è “ridicolo” (e anche, diciamocelo, già visto), cosa resta? Tutto è uguale a tutto. E infatti la giovane, sola sul palco, confessa: «Guardo con la stessa attenzione Herzog e Walt Disney e credo a entrambi nello stesso modo». Poi evoca una galleria di personaggi, li interpreta con maestria, stilizzandone un tratto ciascuno: il coinquilino francese, che ha scelto la via della razionalità, lo psicanalista, le sorelle, il padre appassionato di storia e mezzo sordo, la madre, che invece il dramma se lo concede eccome. C’è anche un’altra generazione – quella della borghesia di sinistra, dei «presi bene con l’URSS, ma prima che sgamassero i gulag» – che ha consegnato, ai figli, solo i detriti del sogno sessantottino, il suo anacronismo, e un pianeta al collasso. Tutto questo è già dato di fatto, l’ironia ci seduce, certo, ma è un’arma spuntata (zero catarsi, zero denuncia) o, peggio ancora, partecipa al sistema che deride, segna la nostra rassegnazione, dunque la nostra implicazione. Eppure, nel frattempo, il disagio psichico giovanile registra numeri record e risale fino ai territori della pre-adolescenza. Di nuovo: cosa (ci) resta? Viola Marietti, secondo me, lo ha capito: prendersi in carico il proprio languore e il proprio tormento, dire benissimo quel che si ha da dire, con mestiere e con cuore, con il coraggio di non curarsi di tutti questi vicoli ciechi. E, alla fine, il candore. Di nuovo Foster Wallace: «La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te».(Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi, Crediti: con Viola Marietti; regia di Matteo Gatta e Viola Marietti; drammaturgia di Viola Marietti; dramaturg/supervisore artistico Gabriele Gerets Albanese; produzione Tristeza Ensemble, Mismaonda.
HYBRIDUS (Cornelia Dance Company)
Nell’intensa programmazione del Festival Danza in Rete OFF del Comunale di Vicenza, la partenopea Cornelia Dance Company ha presentato un trittico di lavori tutti ispirati al repertorio dei Ballets Russes. Una serata piena di nuove idee, di accuratezza, e pure di feroce ironia. Sul palco grande, ma con il pubblico lungo la linea di fondo, quindi con la maestosa platea di fronte, a mantenere vasto lo sfondo. Un bel modo di rileggere, in un’ottica metavisiva, il passato illustre attraverso la figura dell’ibrido (Hybridus è infatti il titolo comprensivo della serata). Un ritorno della Storia sul palco del teatro del Mondo per niente illustrativo né, tantomeno, regressivo, bensì generativo perché capace di vera trasformazione: l’obiettivo di questo eterogeneo ma concorde e vitalissimo gruppo è quello di aprire le interpretazioni, disseminare nuove visioni, rielaborare rompendole le simmetrie del tempo e della memoria. Sembrano dire: v’è altro a cui pensare, a cui fare spazio, il tempo di ciò che è stato, ora, è nostro. Su un tappeto esagonale rosso porpora un corpo femminile potenziato di protesi (Eleonora Greco) si avvicina tra le note stravinskjane di Petrušhka contrastato da orizzonti sonori elettronici e ritmici capaci di dare tempo e fare spazio alla deformità. Questa «donna contemporanea deformata» come un Petrušhka nuovamente oppress* e sopraffatt* è di Nicolas Grimaldi Capitello. Mentre Divine Beasts di Maša Kolar prova a fare i conti col Bolero di Ravel (disturbato con mille altri suoni) con un quartetto che da terra fa emergere (in una danza decisa e sempre corale) figure mitiche «ibride e chimeriche» capaci di ritrovare nel divino del corpo umano la creatura bestiale che chiede libertà e presenza (non redenzione). Infine, il bellissimo Sa Rose di Nyko Piscopo con una straordinaria diciannovenne Marta Ledeman, che fa gridare a tutt* a voce alta: «vagina!», che è poi il vero tema dello Spectre de la rose che qui si riscrive. È uno sfrontato e delicatissimo inno all’autoerotismo femminile, alla dimensione onirica del desiderio, al fantasma sempre perturbante del doppio (a proposito: l’orgasmo ha la voce di Otis Redding). (Stefano Tomassini)
Visto al teatro Comunale di Vicenza Ispirato a Petruška di Igor Stravinskij coreografia Nicolas Grimaldi Capitello danzatrice Eleonora Greco assistente Nyko Piscopo music designer Pietro Santangelo costume designer Tiziana Barbaranelli scenografia Cosimo De Luca produzione Cornelia coproduzione Teatro Comunale Città di Vicenza Supporto / Divadlo Studio Tanca creazione realizzata con il supporto del progetto ABITARE – di Equilibrio Dinamico, Comune di Andria, Teatro Pubblico Pugliese, Festival Castel dei Mondi. [Crediti completi]
FROM ENGLAND WITH LOVE (Hofesh Shechter)
Un po’ delude il nuovo lavoro di Hofesh Shechter per la sua compagnia giovane, Shechter II: From England with love, visto al Teatro Comunale di Vicenza. Sia perché la composizione non trova una più vera linea di realizzazione e sviluppo dell’idea (l’Inghilterra contemporanea vista da un gruppo di studenti in divisa stile boarding shool); e sia perché questo consueto dispiego super tecnologico di luci, sempre aggressive ed esposte, in questo lavoro finiscono per essere parecchio improduttive. Né ombre, né pieghe, nessuna intimità tantomeno profondità emergono in questa sorta di assalto (più o meno) continuo che produce (e consuma) molta tensione. Non oltre però l’effetto vetrina. L’ode programmata a un paese che non solo lo ha accolto ma anche ne ha sostenuto la fortuna, si impenna soltanto nel finale, in cui il gruppo di otto interpreti sembra perdere il centro che li aggrega, si disperde lentamente e spaurito nello spazio, senza mèta, senza scopo, senza unità, finalmente esita in un inattivo contrappunto. Ed è questa oggi senz’altro la cartolina più intimamente fedele delle aporie e delle difficoltà sociali di quest’isola. Il movimento di Shechter, pur in un ristrettissimo trito-e-ritrito vocabolario, è sempre fascinoso, sempre demandato alla percezione ritmica della scena bombardata alternativamente da partiture concertanti anglosassoni (Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell e William H. Monk) e tirate rock del coreografo/musicista stesso. Nulla di nuovo, nulla di sorprendente: tutto però è un po’ meno necessario, per nulla inventivo, tutto visto-e-rivisto; una immaginazione, in tanto dispiego di kilowatt, ridotta quasi al lumicino. La semplicità ostentata e sorretta soltanto dagli ottimi performer può essere invece il punto di partenza per una più franca riflessione su quello che la danza può dire e fare per superare le retoriche delle personali autobiografie. Il mondo è in fiamme, non servono cartoline, tantomeno lettere d’addio. (Stefano Tomassini)
Visto al teatro Comunale di Vicenza choreography and music Hofesh Shechter light design Tom Visser costume design Hofesh Shechter additional music composizioni ingkesi di Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell & William H. Monk production Hofesh Shechter Company co-commissioned Château Rouge, scène conventionnée – Annemasse, Espace 1789, scène conventionnée danse - Saint-Ouen, Scène nationale de Bourg-en-Bresse, Düsseldorf Festival!, Escales Danse with the support of Théâtre de la Ville Paris, Fondazione I Teatri Reggio Emilia and a production residency at DanceEast, Ipswich
IGRA (Kor’sia)
«Non esistono poesie finite, solo poesie abbandonate». Paul Valery annota così, a proposito della natura della poesia, e del limite. A questo assunto si ispira il pensiero coreografico di Mattia Russo e Antonio De Rosa: sulla scena si compone un’idea di passato come entità avviluppante, che orienta le forme e la nozione di bellezza. Igra, in russo, significa «gioco» e rinvia a Jeux di Nijinskji, un balletto in un solo atto, su un poème dansé di Debussy, che avrebbe dovuto essere «un’apologia plastica dell’uomo del 1913». L’azione – la ricerca di una pallina da tennis perduta in un parco – si svolge in un’atmosfera crepuscolare che, alla comparsa di due fanciulle, sfuma nel jeux amoureux. Russo e De Rosa elaborano e moltiplicano l’onirismo in una sequenza di quadri, ne riprendono il tratto stilizzato e ginnico, immergendolo in un ambiente soffuso, scandito dalle geometrie del campo da tennis (sedute in plastica, rete che taglia il palco), in un paesaggio sonoro che, alla sinfonia, coniuga una psichedelia leggera, pochi bassi e rintocchi, suoni d’ambiente che sono già “archivio” (le celebri urla di Maria Sharapova, applausi, il suono elastico dei rimbalzi) e da un costante cinguettio lontano. C’è una qualità opalescente, nella visione (velata da una membrana in proscenio) e nel suono, alla quale si oppone il prodigio nitido dei corpi, la perfezione atletica e struggente del movimento, portato ai propri vertici, di precisione tecnica o di estaticità tribale. È proprio alla superficie estatica e muta, al mistero dell’apollineo (più profondo e sapienziale di quello del dionisiaco) che, infine, la partitura rinviene. Il lirismo di Eros appare senza dirompere, cristallizzato in un perimetro, esaminabile attraverso il lessico della zoologia: una voce fuori campo riconduce le gestualità degli interpreti – fluidissime, combinatorie – al sexual behaviour delle scimmie bonobo. La «nobile semplicità e quieta grandezza» neoclassica sorveglia il confine, totemica, in forma di scultura marmorea. L’enigma eterno, comune a ogni epoca, è quello dell’imitazione come trascendenza. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi, Crediti: direzione Mattia Russo e Antonio De Rosa; coreografia Mattia Russo e Antonio De Rosa in collaborazione con gli interpreti; interpretazione Edoardo Brovardi, Benoît Couchot, Angela Demattè, Antonio de Rosa, Helena Olmedo Duynslaeger, Giulia Russo e Alberto Terribile; ambiente sonoro Da Rocha; assistenti alla drammaturgia e consulenza artistica Agnès López-Río e Gaia Clotilde Chernetich
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