Due distinti programmi per una sola compagnia: vista a Torino e poi a Reggio Emilia (con il programma passato anche a Romaeuropa), la Dresden Frankfurt Dance Company si conferma un punto di riferimento per la danza contemporanea europea, nonché emblema di una libertà nelle proposte compositive che oggi stanno espandendo la nozione di coreografia.
À la carte di Ioannis Mandafounis per la Dresden Frankfurt Dance Company, visto a Torinodanza, è uno straordinario lavoro che mette in scena il caos della vita per invitare il pubblico a scegliere il mondo, non a subirlo. La DFDC è stata in Italia soprattutto con un doppio programma, che comprendeva un nuovo titolo di William Forsythe (mente nobile e punto di riferimento della storia di questa compagnia): Anna Cremonini, invece, ha rilanciato l’offerta ospitando a Torinodanza un lavoro a serata intera di Mandafounis. Dunque nulla è andato perduto, la pluralità delle proposte è stata preservata, anche se un altro viaggio si è imposto, in questo comunque folle accavallarsi di festival sul calendario di fine estate, programmati quest’anno proprio così, uno sull’altro. Ma come è possibile? Curatori e curatrici parlatevi!
Irrompono sulla scena urlando assatanati, ma in realtà ci investono fino in platea con infiniti e affabili I love you! e sembra allora di sentire una Silvia Gribaudi moltiplicata per tredici. Non è che l’avvio di una performance interamente consegnata agli interpreti, e che comprende un ampio spettro di abilità di questa incredibile compagnia diretta ora da Mandafunis.
Istrionico e nel pieno del suo talento performativo, Thomas Bradley (già ex-Gat) dirige letteralmente in tempo reale la compagnia, detta temi e tempi, danza lui stesso da-volar-via, recita all’impronta, raccoglie coi compagni sparsi in sala fantomatiche (e spassose) liste, racconta storie tristi mentre si abbuja (con convinzione) e scoppia di sole nel canto più smodato (sempre perfettamente intonato), tutto senza alcuna apparente fatica (già Valentina Marini ne intuì la forza e bellezza, quando gli affidò un memorabile intervento solistico, addirittura a Castel Gandolfo, nel 2023). Anche l’italiano, poliedrico e bravissimo, Emanuele Piras, tra mille ricordi di formazione torinesi e le angherie culinarie quando vivi nella barbarie, si tiene a fatica, ed è un mirabile man-show.
Si tratta quindi di una serie di ‘numeri fissi’ orchestrati però in piena libertà, in dialogo stretto con il pubblico (che apprezza e interviene), in una temporalità abbastanza aperta, piena di musica e di lazzi, capace di non imporre termini e confini alla composizione coreografica della performance. E quindi ce n’è per tutti i gusti e palati. Mandafounis consegna al rinnovato ensemble un dispositivo in apparenza semplice e spontaneo, centrato sull’improvvisazione e su risposte fortemente energiche ma liberatorie, consentendo a tutt* di espandersi oltre i codici stabiliti dalla propria formazione: è quindi dispositivo compositivo anche calcolatissimo nelle sue possibilità e diramazioni. Perché non si tratta tanto di generare materiale di movimento in piena libertà, ma di farlo in tempo reale in un’azione performativa condivisa nell’immediato con (per) il pubblico.
In questo finale davvero new-punk, tra chitarra elettrica e batteria e pianoforte e noise con tutt* attorno a fare e (combinare) casini cantando, Mandafounis (occorre riconoscere) non va oltre ad esempio ai potentissimi (epperò impegnatissimi) lavori di Macras degli anni 10. Ma riporta la compagnia di Dresda a declinazioni meno austere e postumane, ritrovando nel dono dei corpi e della danza direttamente al pubblico, anche il ricorso (o ricaduta?) a un nuovo virtuosismo (già primato del balletto). È una riconciliazione, ripete spesso come un mantra Mandafounis, non con il vocabolario di movimento ma della relazione con la platea.
A ITeatri di Reggio Emilia, per il Festival Aperto, invece, la DFDC ha presentato un doppio programma. Il primo è un vero capolavoro: Undertainment di William Forsythe. Questa nuova riflessione in forma danzata di Forsythe è tutta una scrittura senza musica. Nessun intrattenimento ha luogo, sia charo, anche qui l’improvvisazione come metodo compositivo prevale in un movimento che si presenta proprio così come è: sono quasi sempre assoli, con tutt* intorno a cintura, forse per fare memoria, forse proprio per tenere insieme il mondo.
Quasi costante è l’uso della voce, e sono urletti, sono fiati, respiri, e sono fischi (sembrerebbe tutto ciò che fa musica dal corpo): è una inedita sinfonia quella che si (s)compone per le nostre orecchie e davanti ai nostri occhi. È come se l’aria stessa in questo spazio che non necessita d’altro dei corpi che lo abitano, sia essa stessa la coreografia. Nel movimento è prevalente l’uso delle braccia, contorte, distese, gettate a rampino sul corpo dell’altro. A una certa sembra alzarsi un coro delle loro voci mugugnanti, vi sono infatti microfoni appesi in alto, ma poi presto finisce per prevalere il rumore un po’ metallico, perché nello spazio, dei passi sul palco di chi danza; la rinuncia alla musica è rinuncia allo spettacolo all’intrattenimento alla merce, ed è invece opzione a favore del tempo: è una comunità colorata che attende il suo turno, e non ingombra mai il tempo dell’altro. Non tutti in platea comprendono il prezzo di questa rinuncia: la signora a me dietro borbotta che così, senza musica, questa non è danza. Ha ragione, è molto di più: è il tempo del vuoto che si fa ascolto e visione. (Dannatamente bravo Forsythe, un’intera città dovrebbero intitolarti…).
Il secondo pezzo, Lisa di Mandafounis, a me è sembrato subito una versione slamrock di The Concert di Jerome Robbins: di lato, un pianoforte a coda che suona (musiche di Gabriel Fauré), e intorno una pletora di figure (vestite anche in modo ignobile, confesso, con ’sti calzettoni stile scozzese) si alternano in una gestica febbrile, portando petizioni incomprensibili, ma piene di eloquenza (forse i versi annunciati di Mandel’štam), in un velocissimo e nervosissimo alternarsi (ma l’equivalenza che in me qui si fa largo, ossia Robbins sta a Balanchine come Mandafounis sta a Forsythe, è abbastanza immorale, direi: Forsythe è già ben oltre Balanchine [e che fastidio quei colleghi incompetenti che per trovare due parole che son due da scrivere su Forsythe devono ogni volta partire da Balanchine; è come se per scrivere di Beckett corresse l’obbligo ogni volta di convocare prima Joyce], mentre Mondafounis difficile diventi, e forse non sia mai, un Robbins). Il movimento qui esplode tra salti, sollevamenti e incontri in scivolate improvvise, in una girandola di prese e di abbandoni costruita in un crescendo volutamente caotico. Molti fili narrativi sembrano svilupparsi, ma tutti appositamente lasciati inesplorati: nulla sembra veramente compiersi se non il gesto ultimo di un abbraccio che riporta al centro ogni speranza. Il solito finale punk, con microfono e voci gridate e con tanto di pioggia imponente di lustrini come il più vero atto d’amore, più che della nostra meraviglia racconta del contenuto estro del coreografo, che non punta alla varietà (né alla variazione), quanto alla sorpresa che si ripete.
Quindi, infine, fa sorridere pensare che oggi si possa credere di poter dire (e rivendicare) cosa è vera danza e cosa no, magari distinguendo con pregiudizio e superstizione, quando di fronte a questa compagnia i confini sono così fatti scoppiare, integrati e utilmente liberati, a favore di un presente che rifiuta ogni principio di autorità e di tradizione (e di coercizione), ma che non rinuncia invece a tutta la sua affollata complessità.
Stefano Tomassini













