Recensione di Afanador, spettacolo di apertura della 39^ edizione di Romaeuropa Festival, ideato da Marcos Morau per il Ballet Nacional de España, diretto da Rubén Olmo.

Una scultura di sedie e forconi che piomba dall’alto, in equilibrio nonostante tutto faccia presagire il contrario, una figura a torso nudo con uno scialle che diventa ala di uccello e trasforma l’uomo in una creatura ultraterrena; una selva di gambe, adornate di scarpe da flamenco, non più metonimia di tanti corpi umani, coperti da un sipario, ma macchina meccanica che batte e pulsa, e crea ritmi visivi imprevedibili e un basso continuo di suoni che pervade la sala e le orecchie anche a spettacolo finito. Queste sono alcune delle immagini più potenti di Afanador, ideato da Marcos Morau per Il Ballet Nacional de España, BNE, e – soprattutto queste appena descritte – provenienti dalle fotografie di Ruven Afanador, appunto, dedicatario del titolo dell’opera di apertura di questa edizione di Romaeuropa Festival.
Dimentichiamo per una volta l’esigenza dell’“omaggio dovuto”, della necessità di ricordare anniversari di nascite, di rapporti che nell’occasionalità del tributo celebrano solo qualcosa di transitorio, e proviamo a osservare che cosa accade nell’incontro tra tre modalità artistiche diverse: da un lato quella degli scatti rudi nei contrasti, ma raffinati nelle linee narrative, intime, sensuali, oniriche, del fotografo colombiano Afanador, che ha cercato spesso di ritrarre – e reinventare l’immaginario, riporta Morau – del folclore andaluso, specie dei corpi dei ballerini di flamenco (rimandiamo qui al suo Angel Gitano, riferimento esplicito nella creazione dello spettacolo); dall’altro una fondazione, il BNE, che da quasi cinquant’anni si occupa non solo di diffondere e preservare il patrimonio coreografico spagnolo, ma intendendolo come patrimonio intangibile vivo, si occupa anche della sua trasformazione, delle possibili ibridazioni contemporanee, degli incontri tra stili e autori diversi. Al centro c’è la qualità artistica di Marcos Morau & La Veronal, che ha sempre visto la creazione come un’azione organica, interessati tanto alla cura del movimento coreografico quanto alla costruzione di una scena ricca, spazializzata, figlia di tante influenze internazionali ma con una definizione sempre maggiore di un proprio riconoscibile linguaggio contemporaneo. In questa direzione, allora, Afanador, pur nascendo anch’esso da un’occasione celebrativa (progetto speciale nell’ambito delle relazioni diplomatiche tra Italia e Spagna), è un’occasione felice, che ha riscosso nutriti applausi alle due repliche presentate all’Opera di Roma, nonostante qualche stanchezza data da alcune scene meno catturanti delle altre.

Innegabile è la potenza delle scene corali, dove i 33 ballerini, tra cui spicca il danzatore e direttore del BNE, Rubén Olmo, danno prova non solo di perizia tecnica, ma di una grande capacità espressiva, che – riporta Roberto Fratini, drammaturgo dell’opera – «lascia affiorare i lapsus, i deliri, l’inconscio del flamenco e le sue pulsioni di eros e morte, le sue verità non documentabili». Proprio questo dualismo di bianco e nero (queste le predominanti coloristiche), questo contrasto che si ritrova nella carnalità del flamenco, affiora anche in alcuni commossi assolo, dando spazio alla capacità comunicativa più tradizionale di questa danza e costringendo il pubblico a sganciarsi dalla grandiosità della visione di insieme, per spingerlo a ritrovare un sentimento reale anche nel più piccolo gesto artefatto. Forse la fatica sta proprio nella necessità di dover continuamente cambiare postura d’osservazione, nell’accettare la bulimia di segni, di suggestioni e di direzioni che a volte rimangono un po’ fini a sé stessi, come l’uso delle videoproiezioni, isolato in un unico punto, preferendovi invece la concretezza della scena, popolata di sedie, abitata da luci mobili, da qualche oggetto, ma soprattutto dall’impatto visivo del movimento.

Il susseguirsi di quadri (sempre accompagnato dalla composizione musicale di Juan Cristóbal Saavedra e, dal vivo, anche da Enrique Bermúdez e Jonathan Bermudez), che dal primo omaggio alla passione per il mondo della moda del fotografo, si spinge presto verso un’indagine ulteriore che abbraccia momenti più astratti ad altri più quotidiani, mostra corpi che si prestano ad essere tanto ingranaggio di una macchina biomeccanica in grado di sbalordire, quanto personaggi intenti a compiere gesti più mimetici. In equilibrio tra tensione drammatica e sospensione onirica, questo corpo pulsante e polimorfo fatto di danze diverse e mirabili corpi, può ritrovare la calma del dietro le quinte, il desiderio impossibile di un amore al balcone (quasi un novello raperonzolo androgino dalla vita strettissima e il lungo drappo che sporge dal balcone a fondo palco), l’adorazione bruciante e violenta che è fatta di mani, di cerchi di luce che si rivolgono in platea, ma, sopra tutto, di battiti costanti, di passione sacra e profana verso un’idea, una santa, un’arte, quale essa sia.
Viviana Raciti
Visto a ROmaeuropa Festival, 39^ edizione, Teatro dell’Opera di Roma
AFANADOR
Idea e direzione artistica: Marcos Morau
Coreografia: Marcos Morau & La Veronal, Lorena Nogal, Shay Partush, Jon López, Miguel Ángel Corbacho
Drammaturgia: Roberto Fratini
Scenografia: Max Glaenzel
Scenografia: Mambo Decorados e May Servicios para Espectáculos
Costumista: Silvia Delagneau
Costumista: Iñaki Cobos
Composizione musicale: Juan Cristóbal Saavedra
Collaborazione speciale: Maria Arnal
Musiche per Minera e Seguiriya: Enrique Bermúdez e Jonathan Bermudez
Testi Temporera, Trilla, Liviana, Bambera e Seguiriya: Gabriel de la Tomasa
Disegno luci: Bernat Jansà
Design e dispositivi elettronici: José Luis Salmerón de la CUBE PEAK
Progettazione audiovisiva: Marc Salicrú
Fotografia: Ruven Afanador
Scenografia: Carmela Cristóbal
Copricapi: JuanjoDex
Consulenza parrucchieri: Manolo Cortes
Consulenza per il trucco: Roció Santana
Calzature: Gallardo